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Dalai Lama, che delusione quelle dichiarazioni sulla crisi siriana

di Francesco Lamendola - 09/07/2012

 

Intervistato dal TG1 il 4 luglio, durante la sua visita a Milano, il Dalai Lama tibetano, al secolo Tenzin Gyatso, a proposito della crisi siriana ha testualmente dichiarato che «la comunità internazionale ha il dovere di difendere gli innocenti».
Tutto qui: come se il problema etico astratto si potesse separare dalle concrete circostanze materiali - politiche, economiche e militari - che stanno determinando gli esiti della insurrezione in Siria, della repressione governativa e dell’intromissione straniera.
Certo, è difficile chiedere a un Tibetano di guardare un problema come quello siriano con un’ottica diversa: per fatto personale, un Tibetano non può che pensare al dramma del proprio Paese, invaso e brutalizzato dalla Cina popolare, come a una vicenda che si sarebbe potuta evitare, o che avrebbe potuto essere contenuta entro limiti più tollerabili per quel popolo sfortunato, se la comunità internazionale, a suo tempo, avesse fatto sentire energicamente la propria voce.
Anche se le cose non stanno proprio così, e anche se niente e nessuno avrebbero potuto impedire alla Cina popolare di agire come ha agito nei confronti del Tibet, e come sta continuando ad agire (introducendo milioni di immigrati cinesi al fine di trasformare i Tibetani in una minoranza in casa propria, dopo averli spogliati con la violenza della loro cultura e del loro sistema sociale), è più che comprensibile che il Tibetano medio veda le cose sotto quella particolare prospettiva, per quanto illusoria.
Ma il Dalai lama non è un Tibetano qualsiasi: è la guida spirituale del suo popolo e, oltre a ciò, è la guida spirituale di qualcosa come un miliardo di fedeli buddisti in tutto il mondo; da lui, pertanto, ci si può e ci si deve aspettare un punto di vista più ampio e più elevato, una consapevolezza a trecentosessanta gradi che non isoli il problema etico in altezze così rarefatte da farlo risultare incomprensibile, ma lo contestualizzi nella immediata realtà storico-politica.
In Siria, ormai lo hanno capito anche i bambini, non è in corso una guerra civile, ma un larvato intervento straniero; o, se anche si può parlare di una guerra civile, è una guerra civile in cui giocano un ruolo fondamentale i servizi segreti stranieri, quelli statunitensi in primissima fila. E ogni mezzo, ogni inganno sono buoni per predisporre favorevolmente l‘opinione pubblica mondiale nei confronti di una azione militare statunitense. La cosiddetta resistenza siriana è in larga misura organizzata e finanziata dalla C.I.A., così come lo era, a suo tempo, quella kosovara che operava contro il regime serbo. Ogni tanto qualche tassello della gigantesca truffa mediatica viene a galla: come quella fantomatica “Lesbian Girl in Damascus” che inviava i suoi accorati appelli al mondo occidentale, con la duplice intenzione di cattivarsi le simpatie dei democratici e quelle della comunità omosessuale statunitense (che, evidentemente, conta parecchio), salvo poi scoprire che l’infelice e perseguitata fanciulla non è mai esistita e che i suoi messaggi erano opera di un cinico e spregiudicato giornalista americano.
Il regime di Bashar al Assad è condannato: questo è stato deciso al Pentagono e alla Casa Bianca, ma soprattutto a Wall Street e alla City londinese; così come era stato deciso per la Serbia di Milosevic, per l’Afghanistan dei Talebani, per l’Iraq di Saddam Hussein e per la Libia di Gheddafi. L’unica ragione per cui non è stato ancora rovesciato dall’esterno, con un esplicito atto di forza, è che la Russia e la Cina hanno perfettamente capito quale sia la posta in gioco e, questa volta, hanno puntato i piedi nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, dicendosi contrarie a qualunque intervento “umanitario”.
Ecco il punto: quando la N.A.T.O. si prepara a scatenare una guerra di aggressione, invoca la difesa delle vite umane in pericolo e presenta la propria azione come dettata unicamente da ragioni umanitarie. Qualcuno ricorda quando, durante l’invasione dell’Afghanistan, le reti televisive ufficiali mostravano pacchi di viveri paracadutati dagli aerei statunitensi, per far vedere al mondo che Washington non stava facendo una guerra, ma stava espletando una nobilissima missione umanitaria, dove le pagnotte avrebbero preso il posto dei droni? Anche se poi non è andata precisamente così e anche se ogni volta la popolazione civile ha subito danni infinitamente più gravi dai bombardamenti occidentali, che non dal regime che si voleva abbattere; per non parlare della violazione del diritto internazionale e di orrori come quelli del carcere di Abu Grahib, a Baghdad, dove i militari americani d’ambo i sessi torturavano sadicamente i prigionieri e si facevano fotografare trionfanti accanto a mucchi di cadaveri martirizzati.
Le parole del Dalai Lama, dunque, o sono incaute o sono un avallo preventivo all’aggressione militare statunitense prossima ventura. In nessun modo le si può comprendere: prima di dire che gli innocenti vanno difesi, bisognerebbe capire chi siano gli innocenti e, soprattutto, chi è che dovrebbe intervenire a difenderli. Questo non è bizantinismo geopolitico, è puro buon senso: solo se vi fosse una divisione chiarissima tra “buoni” e “cattivi”, tra “colpevoli” e “innocenti”, si potrebbe fare un discorso come quello che ha pronunciato lui. Anzi, per dirla tutta nemmeno in quel caso: perché, quando si attua un intervento militare dall’esterno, l’unica cosa assolutamente certa - e l’esperienza sta lì a dimostrarlo anche ai ciechi - gli unici che sicuramente ne soffriranno, saranno proprio gli innocenti, cioè gli inermi: i civili, specialmente le donne, i bambini e gli anziani.
E questo non lo sappiamo da ieri, ma da almeno settant’anni; ce lo ha definitivamente insegnato la seconda guerra mondiale, quando i “liberatori” alleati volevano abbreviare - così dicevano - la fine della guerra, e quindi delle sofferenze, bombardando deliberatamente le città tedesche con le bombe al fosforo, sì da bruciare viva la maggior quantità di persone possibile e da distruggerne le abitazioni: il che avrebbe avuto l’effetto, secondo la geniale strategia di quei signori, di fiaccare la volontà di resistenza del popolo tedesco. L’apocalisse di Dresda è stata l’episodio culminante di quella strategia, che ha trasformato le città della Germania, da Amburgo alla stessa Berlino, in un cumulo di rovine fiammeggianti.
I dati delle guerre “umanitarie” più recenti sono, se possibile, ancora più chiari. La popolazione irachena ha pagato la “liberazione” occidentale con almeno un milione di morti; morti che le televisioni occidentali non ci hanno quasi mai mostrato, mentre erano attivissime, prima dell’aggressione americana, nel mostrarci, per farci preoccupare o indignare, tutto ciò che poteva sapere di brutalità o di minaccia nel regime di Saddam Hussein; e, non potendo mostrarci le famose armi di distruzione di massa, perché non esistevano, ci mostrava l’ottimo Colin Powell mentre illustrava, su un plastico, la tecnica con la quale le basi segrete e le rampe missilistiche assassine venivano smontate e trasportate su dei camion, nel più perfetto stile Diabolik o dei vecchi film dell’Agente 007, per sottrarle alle ispezioni O.N.U.
È penoso che il Dalai Lama non si sia reso conto del significato che, inevitabilmente, avrebbero assunto le sue parole: quello di rafforzare le tesi dei “falchi” e di mettere in difficoltà le “colombe”; e il fatto che la Cina, proprio la Cina, sia la nazione che con più decisione si oppone all’intervento “umanitario” in Siria, aiuta certamente a capire il suo atteggiamento psicologico, ma non attenua la responsabilità che egli si è assunto pronunciandole.
C’è poi un altro aspetto della questione, che lascia non meno sconcertati, nelle dichiarazioni da lui rese circa la questione siriana.
Pazienza, almeno fino a un certo punto, se un grande capo spirituale perde di vista i risvolti politici di certe sue affermazioni e se, ingenuamente, getta benzina sul fuoco dei venti di guerra, che minacciosamente soffiano da alcuni mesi sui cieli senza pace della Siria; ma che dire della spiritualità, appunto, di quelle parole?
Più che dal capo spirituale del buddismo, queste ultime sembrano pronunciate dal solito occidentale borioso e gonfio dei “sacri” principi dell’89: i diritti dell’uomo, i diritti dei popoli, ohibò, bisogna difenderli a qualunque costo contro i tiranni, «écrasez l’infâme», eccetera eccetera. Il diritto alla sicurezza degli innocenti viene prima, insomma, di qualunque altra considerazione; e poco importa se, per farlo rispettare, si infliggeranno alla popolazione alcuni spiacevoli ma inevitabili “danni collaterali”, fatti di droni e bombe al fosforo bianco, così come un tempo fu necessario far fuori un milione di contadini reazionari della Vandea.
Ma il buddismo - lungi da noi voler dare lezioni su di esso proprio al Dalai Lama! - non considera la vita umana come un valore assoluto (e nemmeno il cristianesimo, se è per questo: vedi il caso della legittima difesa) -, bensì relativo: non va difesa sempre e comunque, va difesa nella misura in cui non provoca danni ad altre vite umane o a dei valori superiori. La vita umana, peraltro, nell’ottica buddista non differisce sostanzialmente dalla vita delle altre creature, nelle quali, forse, si sono reincarnate proprio le persone a noi care: tutta la vita è sacra, tutta, tutta, da quella dell’uomo a quella del pesciolino che nuota nelle acque del fiume, a quella del bruco che striscia lungo il margine di una foglia d’erba e che domani, forse, avrà già concluso il suo brevissimo ciclo di esistenza terrena.
Si racconta di santi buddisti che, per compassione verso il dolore dei viventi non umani, si sono fatti divorare da una tigre, affinché questa potesse sopravvivere e sfamare i suoi piccoli; la letteratura sacra buddista è piena di episodi del genere, miranti a evidenziare come, per il buddismo, quello che conta non è l’attaccamento alla vita, ma, al contrario, la disponibilità a lasciarla andare, laddove essa possa alleviare il dolore altrui, o almeno non concorrere ad accrescerlo; e ciò sempre nella consapevolezza che ogni vita che muore non si perde nel nulla, ma rientra a far parte di un ciclo cosmico e permette la nascita di nuove vite.
Non ci sembra molto buddista, ma tipico di una certa mentalità occidentale basata sull’attaccamento egoistico alle cose, sostenere che, per difendere alcune migliaia di innocenti, è giusto scatenare una guerra in cui soffrirà e morirà un numero ancor maggiore di persone: è una prospettiva molto contingente, molto immanentistica, molto - come dire? - laica, ma pochissimo spirituale, pochissimo trascendente.
Ci saremmo aspettati parole diverse, dal Dalai Lama.
Ciò non significa che lui, o chiunque altro, debba rimanere insensibile alle sofferenze degli innocenti; significa che, quando tali sofferenze sono provocate da una situazione di disordine politico-sociale, pensare di rimettere le cose a posto con un interveto armato è come pensare che si possano curare i raffreddori tagliando la testa ai malati.
Se davvero il popolo siriano ne ha abbastanza di Bashar al Assad, allora sarà esso, ed esso soltanto, a risolvere la questione, pagando il prezzo inevitabile in termini di sofferenze e distruzioni, che colpiranno sicuramente degli innocenti insieme ai colpevoli.
La storia va così: perché è un fatto umano; e gli uomini sono così: fanno il male anche quando vorrebbero fare solo il bene; figuriamoci quando si propongono di fare il male per il male. Non sono angeli, non sono perfetti. Sono un impasto di luce e ombra, di buono e di cattivo.
È l’Illuminismo che voleva farne degli angeli, sostenendo che essi sono buoni per natura e che è colpa soltanto della società se diventano cattivi.
Le grandi tradizioni spirituali, anche se divergono in alcuni aspetti dell’analisi antropologica, partono tutte, invece, da un medesimo assunto di base: gli uomini, da sé soli, non riescono a fare il bene e soltanto il bene, nemmeno quando lo vorrebbero sinceramente e con tutte le loro forze; per riuscirci, hanno bisogno di un aiuto, di un aiuto che non è naturale, ma soprannaturale - e che i cristiani chiamano Grazia.
Lungi da noi, ripetiamo, voler dare lezioni di buddismo al Dalai Lama.
Però, che delusione quelle sue parole…