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Libia, un carcere a cielo aperto

di Alessia Lai - 10/09/2012

Carcere per i membri del precedente regime.
Carcere per chiunque sia sospettato di avere supportato il governo di Gheddafi. Carcere per profughi, immigrati, richiedenti asilo. La Libia “democratica”, quella nata dall’attacco Nato e dalla vera a e propria consegna del Paese nelle mani delle bande di ribelli islamisti, nell’indifferenza della comunità internazionale, dell’Europa e soprattutto dell’Italia, tiene segregate migliaia di persone. In condizioni disumane, senza processo, nel degrado e nella violenza quotidiani.
Mercoledì le celle libiche si sono aperte per Abdallah al-Senussi, l’ex capo dell’intelligence libica sotto il regime di Muammar Gheddafi estradato dalla Mauritania, dove si era rifugiato dopo la caduta del “colonnello”. Se anche l’allineatissima Amnesty International ha espresso il proprio timore per la sorte al Senussi ora che è in mano alle nuove autorità libiche è evidente che le condizioni minime perché venga esercitata correttamente la giustizia non sussistono nel Paese “liberato”. Secondo Amnesty al Senussi dovesse essere consegnato al Tribunale penale internazionale (Tpi) che aveva diramato un mandato di cattura nei suoi confronti per crimini contro l’umanità commessi a Bengasi durante la crisi dello scorso anno. “La decisione del governo mauritano rischia di (...) privare al Senussi del diritto ad avere un processo equo”. L’ex capo dell’intelligence, così come altri dirigenti governativi legati a Gheddafi e detenuti nelle carceri libiche, il figlio di Muammar, Seif al Islam in primis, rischia di essere torturato e costretto a rilasciare delle confessioni. Per Amnesty il mandato di cattura del Tpi è tuttora valido e la Libia ha il dovere di consegnarlo, altrimenti commetterebbe una violazione della risoluzione 1970 del Consiglio di sicurezza dell’Onu che chiede alla Libia “piena collaborazione e assistenza al Tpi”.
Tuttavia lo stesso Moreno Ocampo, il procuratore della Corte penale internazionale, giunto mesi fa in Libia per parlare con le autorità del Consiglio nazionale transitorio sulla questione di Seif al Islam, aveva affermato che il figlio di Muammar Gheddafi potrà essere giudicato a Tripoli.  Anche l’Aja, quindi, si piega al diktat internazionale secondo cui la “nuova” Libia deve essere lasciata libera di agire come meglio crede. Anche quando tortura, discrimina persone innocenti, magari fuggite da una guerra o dalla miseria, come denunciato da un dossier dell’agenzia di assistenza Habeshia. “Nelle carceri libiche migranti, profughi e richiedenti asilo continuano a morire. Soprusi, maltrattamenti, stupri, repressione feroce di ogni tentativo di protesta. Uccisioni anche a freddo”, ha denunciato ieri sul proprio sito web l’agenzia di cooperazione allo sviluppo puntando il dito contro il “trattato di amicizia” firmato dal premier Mario Monti il 20 gennaio scorso e il nuovo accordo sull’emigrazione firmato dal nuovo ministro dell’interno Anna Maria Cancellieri che prevedono la riconsegna dei profughi che arrivano in Italia alle carceri libiche, luoghi di tortura e repressione. “Da una Libia democratica – ha protestato don Moussie Zerai, p5residente dell’associazione - ci aspettavamo maggiore rispetto dei diritti umani e una seria lotta contro il razzismo nei confronti degli africani: una lotta serrata contro ogni forma di discriminazione per motivi religiosi, etnici, razziali. Non è in alcun modo comprensibile questo accanimento contro i profughi. Ed appare assurdo, assordante il silenzio della comunità internazionale”.