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L’etica della Cina comunista, repubblica sempre meno popolare

di Sergio Romano - 03/11/2012



Non condivido la sua risposta a proposito degli Stati etici. Allora secondo lei lo era anche la Cina di Mao e lo è pure la Cina di oggi? A me sembra che nella storia del popolo cinese la parola «etica» non sia ancora entrata!
Mauro Gatti

Caro Gatti,
A nche la Repubblica popolare, come ogni Stato comunista, aveva ideali e valori morali: la fede nel suo radioso futuro, la sottomissione di ogni cittadino alla guida del partito e agli interessi collettivi della società. In un libro pubblicato nel 1966, dopo un viaggio in Cina (Cara Cina ed. Longanesi), Goffredo Parise raccontò di avere chiesto al suo interprete se fosse membro del partito e di averne ricevuto questa risposta: «Magari! Ho fatto domanda due anni fa ma in Cina non è così facile come in Italia entrare nel partito, bisogna esserne veramente degni. Bisogna essere bravi, buoni, lavorare bene, meglio e più degli altri, sacrificarsi per gli altri, per il bene comune e per l'edificazione socialista del nostro Paese». Aggiunse che la fede si ottiene leggendo le opere del presidente Mao Tse-tung e che «senza fede e conoscenza delle opere del presidente Mao non solo non si arriva a nulla, ma si scivola inesorabilmente verso il concetto borghese della vita e della società».
Come vede, caro Gatti, lo stile di vita e gli esercizi quotidiani di un candidato al partito comunista cinese, negli anni Sessanta, erano quelli di un seminarista che attende trepidamente il giorno della consacrazione e sogna di dedicare la sua vita sacerdotale all'avvento della profezia socialista. La rivoluzione culturale, di lì a poco, fu una guerra di religione, sferrata contro l'apparato imborghesito del partito da una massa di monaci divorati dalla rabbia e dalla fede. Senza questa fede religiosa non sarebbe stato possibile, per esempio, imporre la regola del figlio unico o trascinare le masse verso traguardi impossibili come quelli del «grande balzo in avanti» e di «una acciaieria in ogni villaggio».
Ho usato l'imperfetto, a proposito dei valori morali della società cinese, perché la situazione negli ultimi decenni è alquanto cambiata. Il Paese è ancora formalmente comunista e il partito non tollera deviazioni verso altre fedi che possano mettere in discussione la sua autorità. Ma le riforme di Deng Xiaoping hanno avuto per effetto, insieme a uno straordinario sviluppo economico, un livello di corruzione che è salito sino a contagiare il partito e le sue alte sfere. Conosciamo il caso di Bo Xilai, capo della provincia di Chongqing, e della moglie, Gu Kailai, condannata a morte (la sentenza è stata sospesa) per l'uccisione di un uomo d'affari britannico. Sappiamo che le cerchie familiari dei maggiori leader si sono prodigiosamente arricchite e che i figli possono permettersi di completare gli studi nelle più costose università americane. Ha fatto molto rumore negli scorsi giorni la notizia di un incidente automobilistico che ha provocato la morte di due persone. La macchina era una Ferrari, il giovane che la guidava, Ling Gu, era il figlio di uno dei più fidati consiglieri del presidente Hu Jintao. Più recentemente le autorità cinesi hanno rabbiosamente smentito una inchiesta del New York Times sulle fortune accumulate dalla famiglia del premier Wen Jiabao: una somma che ammonterebbe a due miliardi e settecento milioni di dollari. Qualche mese fa, in giugno, l'agenzia Bloomberg aveva fatto una analoga inchiesta sulla fortuna della famiglia di Xi Jinping, l'uomo che nei prossimi giorni, in occasione del Congresso del partito, dovrebbe diventarne segretario, assumere la presidenza della Commissione militare ed essere in tal modo il numero uno della Repubblica popolare. Ma la Cina può ancora definirsi «popolare»?