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Perdersi per ritrovarsi. Tornano di moda i flâneurs, ma…

di Stenio Solinas - 19/07/2006


Qualche tempo fa su
un giornale mi
sono ritrovato
inserito nella categoria
dei flâneurs
e la cosa mi ha fatto
sorridere, un po’
perché ne ero comunque l’unico rappresentante,
e un po’ perché quel termine
è così vago e desueto che è
ormai difficile capire a cosa e a chi
possa corrispondere, e può benissimo
darsi che affibbiandomelo l’anonimo
estensore non sapesse minimamente
di cosa stava parlando. Adesso,
però, “il Mulino” manda in libreria
un saggio di Giampaolo Nuvolati,
Lo sguardo vagabondo. Il flâneur
e la città da Baudelaire ai postmoderni
(167 pagine, 12 euro) e il termine
sembra tornato di moda: escono
articoli, si aprono discussioni e,
insomma, visto che quella definizione
che mi riguardava è precedente
all’uscita del libro di Nuvolati, mi
sarà consentito, quasi per fatto personale,
dire la mia sull’argomento.
Flâneur è una parola di origine ottocentesca,
nata in Francia per designare
chi amava passeggiare per le
strade e osservare, scrutare, riflettere.
Flâneur per eccellenza fu Baudelaire,
e Parigi fu il campo d’azione
massimo delle sue imprese, perché
nel camminare e nell’osservare il
flâneur traeva una sorta di filosofia
di vita. Nel Novecento Walter Benjamin
codificò questa figura, trasformandola
da un lato nel prototipo del
cronista-scrittore che,
nell’era del capitalismo
e dell’industria
culturale, mette sul
mercato e vende al
migliore acquirente le
sue specifiche capacità
di sguardo. Osservatore
dello spettacolo della
merce, il flâneur
diveniva insomma,
nella lettura marxista
che della società dava
Benjamin, merce egli
stesso. Dall’altro lato,
però, questa figura rimaneva quella
di un outsider, in mezzo alla folla,
ma estraneo alla folla, deciso a resistere,
spesso soltanto in virtù di un
atteggiamento passivo, al flusso
metropolitano sempre più frenetico…
Concepita all’interno di un Novecento
che si confrontava con la
modernità, la sistematizzazione di
Benjamin si è rivelata nel tempo
sempre meno in grado di reggere
l’urto della modernità stessa. Nel suo
saggio, Nuvolati accenna alle diverse
angolazioni che la riflessione sul
tema ha recentemente preso: «Per
alcuni il flâneur è il simbolo della
modernità avanzata; per altri, l’erosione
delle esperienze collettive in
spazi pubblici ne sancisce invece la
fine. Animale urbano per eccellenza,
incarna il desiderio di libertà errabonda
nell’individuo imprigionato
da vincoli territoriali, ideologici, professionali;
la ribellione contro le pratiche
consumistiche di massa. La
figura del flâneur sembra testimoniare
lo smarrimento dei nostri giorni,
ma anche il desiderio di sperimentare
nuove relazioni con i luoghi e i
loro abitanti».
Spogliata di un certo armamentario
sociologico, la tesi di Nuvolati dice
semplicemente che due degli elementi
costitutivi della flânerie (il
tempo e lo spazio) rendono oggi difficile
e faticosa la sua già incerta
sopravvivenza. Il flâneur d’antan
girava a piedi per la metropoli, non
aveva una meta, amava perdersi e
così, in qualche modo, ritrovarsi.
Queste esplorazioni totalmente gratuite,
prive, cioè, di qualsiasi fine che
non fosse estetico, individuale, erano
altresì rese possibili dal fatto che
nulla poteva far fretta al flâneur: non
lo inseguiva un mestiere, non doveva
rendere conto di un orario, non era
legato a una logica costo-beneficio.
Oggi che sempre meno ci si muove,
se non in macchina, e sempre più si è
pressati dagli impegni da rispettare, e
difficilmente si considera speso bene
un tempo in cui non si è guadagnato
niente, si capirà come questa figura
sia divenuta del tutto antitetica al
mondo che la circonda.
“Animale urbano per eccellenza”,
come abbiamo visto, il flâneur, oltretutto,
era nato in un’epoca in cui il
turismo di massa non esisteva e la
solitudine non era sentita come una
colpa, ma accettata come una scelta.
Il flâneur aveva bisogno di muoversi
da solo, perché nessuna delle sue
sensazioni poteva essere condivisa
con un compagno di avventure: la
sensibilità come forma di conoscenza
era, cioè, individuale e in fondo
ogni suo viaggio, ogni suo percorso
erano un viaggio e un percorso iniziatico,
la sperimentazione-scoperta
di se stesso, la sperimentazione-scoperta
dell’altro da sé. Tutto ciò è
oggi una specie di miraggio, non
solo e non tanto per il ritmo sempre
più frenetico della quotidianità, ma
per la difficoltà a ritagliarsi spazi di
meditazione in una società che, di
fatto, trasforma chi se ne vuole stare
in disparte in un diseredato, un caso
clinico, oppure uno sconfitto, uno
che ha rinunciato a combattere per la
conquista dei privilegi che quella
società porta con sé.
Non bisogna cedere alla tentazione
di fare del flâneur un drop-out, un
vagabondo, una figura ai margini
della vita sociale. Può anche capitare
che le due immagini si sovrappongano,
ma in linea di massima il dropout
è, appunto, un espulso dal sistema,
uno che per tutta una serie di
motivi viene fatto fuori, non è più in
grado di stare al passo, laddove quella
del flâneur è una scelta, è un mettersi
fuori scientemente, ma con la
lucidità necessaria
per poterlo fare senza
finire travolto.
Questo anarchismo
di fondo non ha una
base ideologica, ma
è di natura filosofica,
esistenziale: il
flâneur, ieri come
oggi, ma oggi molto
più che ieri, è a disagio
nei confronti
della modernità e
delle sue leggi, non
vuole essere irreggimentato
in una vita dove il successo
professionale stabilisce le gerarchie,
resiste alle lusinghe di una società
dei consumi che ti misura sulla base
di ciò che spendi e di ciò che possiedi.
Quello che il flâneur perde in termini
di potere sociale lo acquista,
però, in termini di potere reale, perché
prima degli altri egli ha capito
che nella società contemporanea e
più ancora in quella del futuro la
vera ricchezza consiste nell’avere
tempo a propria disposizione, nell’esserne
i signori, nel non lasciarsi
imporre un ritmo esterno a quello
sentito come proprio. Sotto questo
profilo, in fondo, il flâneur è una
sorta di eroe in incognito di un’epoca
senza eroismi.