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Così sprofonda la città che era «rinata»

di Robert Fisk - 20/07/2006

 
Nell’anno 551 d.c. la ricca e splendida città di Berytus, quartier generale della flotta romana dell’Imperatore Giustiniano, di stanza nel Mediterraneo orientale, fu scossa da un violento terremoto. Il mare si ritirò per diverse miglia, e i sopravvissuti al sisma – progenitori degli attuali libanesi – andarono a saccheggiare le navi mercantili che lì erano affondate nel tempo e ora giacevano dinanzi ai loro occhi sulla spiaggia.
Ed ecco che improvviso un muro d’acqua più alto di uno tsunami si riversò sulla città, uccidendone tutti gli abitanti.

La devastazione di quella che oggi si chiama Beirut fu tale che l’Imperatore Giustiniano fece giungere da Costantinopoli un certo quantitativo d’oro per risarcire le famiglie sopravvissute. Ci sono città che sembrano condannate per l’eternità. Quando nell’undicesimo secolo i Crociati diretti a Gerusalemme giunsero a Beirut, uccisero ogni uomo, donna e bambino che si trovasse nella città. Nella prima Guerra Mondiale, la Beirut ottomana visse una paurosa carestia: le forze armate turche avevano requisito tutti i cereali, nel contempo le potenze alleate avevano posto il blocco sull’intera linea costiera.

Una signora che era vissuta a Beirut nel 1916 mi raccontava come le capitasse di «passare accanto a donne e bambini che giacevano esangui sul marciapiedi, gli occhi chiusi, i volti emaciati. Era comune imbattersi in persone che frugavano nella spazzatura alla ricerca di bucce d’arancia, ossa scarnificate o altri rifiuti, per poi avventarvisi sopra con voracità... ».
Come mai questo ripetersi dei fatti, a Beirut? Per trent’anni ho visto questo luogo morire, risorgere, per poi morire di nuovo; i suoi condomini sforacchiati dai proiettili tanto da somigliare a merletti e i suoi abitanti a massacrarsi vicendevolmente.

Ho vissuto qui 15 anni di guerra civile, con il suo tributo di 150 mila vite umane, e due invasioni israeliane nonché anni di bombardamenti da parte di Israele che hanno fatto altre 20 mila vittime. Ho visto morti senza braccia, senza gambe, senza testa; vittime di arma bianca, di bombe, corpi spiaccicati contro i muri delle case. Ciò nonostante questo è un popolo buono, beneducato, dall’animo pulito, la cui generosità è motivo di stupore per lo straniero, la cui gentilezza di modi imbarazza noi occidentali, e la cui sofferenza quasi sempre ignoriamo.
Eppure cosa diciamo oggi di questo tra i più crudeli attacchi alla città e al suo circondario, mentre gli israeliani lo costringono a fuggire dalle loro case, bombardano i ponti, interrompono le vie di rifornimento alimentare, li privano di acqua ed elettricità? Diciamo che sono stati loro a dare il via a questa guerra, e mettiamo sullo stesso piano le loro spaventose perdite – 240 in tutto il Libano, la notte scorsa – con i 24 morti d’Israele, come se le cifre fossero pari.

Peggio ancora, lasciamo i libanesi al loro destino, come fossero appestati, preoccupandoci soltanto di mettere in salvo i preziosi «stranieri»; e ripetiamo fino alla noia che la risposta di Israele alla cattura dei due militati israeliani da parte degli Hezbollah è «sproporzionata».
Ho attraversato ieri a piedi il centro deserto di Beirut, che mi ricordava come non mai la scena di un film, un luogo di sogno troppo bello per durare, una sorta di araba fenice nata dalle ceneri di una guerra civile, che ostentasse un piumaggio dai colori così vividi da abbagliare chi la guardasse. La ricostruzione di questa parte della città, che ricordava da vicino la Dresda dell’immediato dopoguerra, la si deve a Rafiq Hariri, il premier libanese assassinato il 14 febbraio dello scorso anno qualche centinaio di metri più in là.

La carcassa prodotta da quello scoppio, orrendo precursore di questa guerra che per mano israeliana sta distruggendo quella preziosa eredità, è ancora lì, in riva al Mediterraneo, in attesa che un ennesimo ispettore Onu indaghi sull’assassinio, quello stesso ispettore che da tempo ha abbandonato la città assediata per rifugiarsi a Cipro. Mi sono seduto sul marciapiedi davanti all’Étoile, il ristorante ormai deserto che vantava le più gustose lumache di Beirut, e ho guardato la guardia marciare come sempre avanti e indietro dinanzi al palazzo di costruzione francese che ospita ciò che rimane della democrazia libanese. Sono tanti i palazzi eretti dai francesi ai tempi del loro mandato, ed erano stati finemente restaurati, con i loro portoni arabeggianti impreziosii da colonne romane dell’antica Via Maxima, portate alla luce poco più in là. Hariri amava questo luogo e, un giorno che aveva invitato qui Chirac per una birra, si accorse di me seduto ad un tavolino. «Ah, Robert, vieni qui», disse con voce tonante. Poi volgendosi a Chirac con fare di gatto che sta per divorare un canarino, proseguì «Jacques, ti voglio presentare al reporter che ha detto non sarei riuscito a ricostruire Beirut!»

E ora la demoliscono ancora una volta. L’aeroporto internazionale di Beirut, intestato al Martire Rafiq Hariri, ha subito tre attacchi da parte degli israeliani, le sue strutture, i suoi negozi hanno tremato sotto i colpi dei missili piombati sulle piste e sui depositi carburanti. La splendida autostrada transnazionale fatta costruire da Hariri è stata interrotta dalle bombe israeliane. Gran parte dei suoi viadotti sono andati distrutti.
Sono i quartieri poveri di Haret Hreik, di Ghobeiri e Shiyah ad essere rasi al suolo, cancellati, polverizzati, costringendo un quarto di milione di musulmani sciiti a cercare rifugio in scuole e parcheggi abbandonati qua e là nella città. Qui effettivamente c’era il quartier generale degli Hezbollah, un’altra di quelle «centrali del terrorismo mondiale» che l’Occidente continua ad individuare in terra musulmana. Qui viveva Sayed Hassan Nasrallah, il leader del Partito di Dio, un uomo senza pace, caustico, calcolatore; oltre a molti tra i principali strateghi militari Hezbollah. Tra questi, senz’altro coloro che organizzarono nel corso dei mesi la cattura dei due militari israeliani mercoledì scorso.

Ma, meritavano le decine di migliaia di poveri che qui vivono, un tale castigo collettivo? Quale significato può assumere questo atto di distruzione? E come ne veniamo fuori noi?
In un palazzo moderno della Beirut ancora intonsa incontro per puro caso un noto personaggio di spicco degli Hezbollah – il collo della camicia bianca sbottonato, l’abito scuro, scarpe lucide. «Noi andremo avanti, se necessario, per giorni, per settimane, per mesi, o...» sottolineando l’orrenda tempistica con le dita della mano. «Mi creda, abbiamo in serbo ancora più grosse sorprese per Israele; assai più grosse, vedrà. Poi ci riprenderemo i nostri prigionieri, in cambio soltanto di qualche piccola concessione». Me ne esco stordito, come se fossi stato colpito al capo. Quanto ai poveracci senza nome fuggiti dalle macerie del misero quartiere di Haret Hreik raso al suolo, ne ho visti a centinaia seduti sotto gli alberi, distesi sui prati intorno ad una antica fontana donata alla città di Beirut dal sultano ottomano Abdul-Hamid. Come finiscono gli imperi... In lontananza, sul Mediterraneo, si vedevano attraverso la nebbia e il fumo due elicotteri della USS Iwo Jima dirigersi alla volta del rifugio-bunker dell’ambasciata americana ad Awkar, da cui avrebbero evacuato cittadini dell’«Impero Americano». «Impero Americano» che non ha speso una parola per aiutare quella povera gente stesa nel parco, per offrire loro cibo o assistenza medica.

Ed ecco levarsi un denso fumo che si estende su tutta la città: è l’incendio dei terminal petroliferi, dei palazzi in fiamme che sparge intorno un cocktail di esalazioni sulfuree che né porte né finestre riescono a fermare. Lo sento al mio risveglio, la mattina. Metà della popolazione tossisce e intanto respira la propria distruzione e conta i propri morti.
La rabbia che dovrebbe ribollire in ogni essere umano dovrebbe produrre un livello tale di sofferenza da rispecchiare il pensiero del massimo poeta e mistico libanese, Khalil Gibran, che scriveva a proposito del mezzo milione di libanesi, per lo più abitanti di Beirut, morti durante la grande fame del 1916:

La mia gente e morta di fame, e chi
Non è perito di inedia
È stato squarciato dalla spada.
Sono morti di fame
Nel paese dove abbondano latte e miele.
Sono morti perché vipere
e prole di vipere hanno sputato veleno
là dove i Sacri Cedri
e le rose, e i gelsomini emanano i loro profumo.


La spada continua a tagliarsi un varco attraverso Beirut. Quando lo scorso weekend un pezzo di aereo – forse l’estremità di un’ala di un F-16 colpito da un missile, sebbene gli israeliani lo neghino – ha attraversato il cielo sopra la periferia orientale, sono corso a vedere dov’era caduto: ho trovato un autista quasi decapitato nella sua auto e tre soldati libanesi dell’unità logistica dell’esercito. Militari non combattenti del Kfar Chim, forti e coraggiosi, impegnati a riparare linee elettriche e condutture idriche perché Beirut potesse continuare a vivere. Uno di loro lo conoscevo.«Salve, Robert; fai presto, perché penso che gli israeliani bombarderanno di nuovo. Nel frattempo ti faremo vedere tutto quello che possiamo». Mi hanno fatto attraversare la linea di fuoco per mostrarmi la devastazione tutt’intorno, e intanto mi facevano da scudo con le loro persone.

Qualche ora più tardi, gli israeliani si fecero effettivamente sentire una volta di più, proprio mentre i soldati dell’unità logistica se ne stavano andando a dormire; e bombardarono le caserme uccidendo 10 di loro, tra cui quei gentilissimi tre giovani che mi avevano protetto a Kfar Chim. Perché? Ma un’unità logistica, uomini il cui unico compito era quello di riparare linee elettriche e condutture dell’acqua? Poi, il lampo... Beirut deve soccombere! Deve morire per mancanza di elettricità, ora che la centrale dei Jiyeh è in fiamme. Non si deve consentire che Beirut sopravviva. Ecco perché quei poveracci son dovuti morire.

Quella di Beirut è gente dura, che non si commuove facilmente. Ma la scorsa settimana molti furono sconvolti da una fotografia pubblicata sui giornali: una bambina gettata per terra come un fiore appassito. Era in un campo vicino a Ter Harfa. Vado a casa e scorro nel mio archivio cercando le vecchie foto dell’invasione israeliana del 1982. Trovo altre foto, molte foto di bambini morti e ponti distrutti. «Israele minaccia di bombardare Beirut», dice un titolo. E ancora: «Israele reagisce», «Guerra in Libano», «Beirut sotto attacco», «Massacro a Sabra e Chatila».
Sì, come dimentichiamo in fretta queste tragedie.