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Beirut, Kabul, Baghdad

di Marcello Graziosi - 21/07/2006

 
 
In queste ultime settimane si è materializzato lo spettro di un nuovo conflitto militare in una delle aree più instabili del pianeta, quel Medio Oriente oggetto delle mire espansioniste statunitensi e delle morbose e quanto mai interessate attenzioni dell’Unione Europea e dei singoli paesi che la compongono; quel Medio Oriente già pesantemente colpito in questi anni dalla ”guerra preventiva” di Bush.

Questo conflitto, che potrebbe allargarsi in qualsiasi momento, era in larga misura annunciato, tanto da inserirsi in un più complessivo disegno di destabilizzazione dell’intera regione perseguito dall’asse Washington – Tel Aviv: l’aggressione all’Iraq; le reiterate minacce alla Siria; il sospetto attentato contro Hariri ed un primo e solo parzialmente riuscito tentativo di sovvertire i rapporti di forza in Libano; la negazione del diritto di Teheran di dotarsi del nucleare per uso civile, diritto sancito dallo stesso Trattato di Non-Proliferazione; la pianificata aggressione contro la Striscia di Gaza ed il legittimo governo e parlamento palestinesi, seguita al progressivo quanto intenzionale progetto di delegittimazione di Al-Fatah e della già di per sé debole Autorità Nazionale Palestinese.

Tutte le città del Libano continuano ad essere colpite da pesanti bombardamenti, da Beirut, a Tiro, a Sidone; ponti ed infrastrutture distrutti, quartieri rasi al suolo, colonne di civili in fuga colpite forse con armi proibite (fosforo bianco?). In pochi giorni dall’inizio dell’aggressione israeliana sono già oltre 700.000 i profughi libanesi e diverse centinaia le vittime. Ci troviamo di fronte alle stesse scene, condite dalle medesime, oscene menzogne ad uso e consumo delle opinioni pubbliche occidentali, che abbiamo visto a Belgrado, Mogadiscio, Kabul e Baghdad. “Riporteremo il Libano indietro di trent’anni”, ha minacciato nei giorni scorsi il primo ministro israeliano Olmert, con una logica ed un linguaggio destinati a ricordare i momenti più bui ed atroci del secondo conflitto mondiale e la più recente aggressione statunitense contro il Vietnam.

Mentre ogni giorno decine di palestinesi continuano a morire come mosche, nel tentativo di difendere la propria terra ed i propri beni, schiacciati da quella che in Italia la maggioranza delle forze politiche continua a torto a considerare la sola democrazia nella regione. Una ben strana democrazia, quella presente in Israele, dove vige un regime segregazionista nei confronti della popolazione residente di origine araba e, più in generale, non ebraica; dove si costruisce il Muro dell’Apartheid. Una “democrazia” che vive sospesa al di fuori del diritto internazionale, negando il sacrosanto diritto a possedere uno stato al popolo palestinese e sopravvivendo solamente grazie al sostegno incondizionato della più grande potenza mondiale.

Israele, non Siria, Iraq od Iran, possiede armi nucleari e, più in generale, di distruzione di massa; Israele, e non Siria, Iraq od Iran, da quasi sessant’anni rifiuta di applicare le risoluzioni dell’ONU che la riguardano direttamente. Una gran bella democrazia davvero, che grande parte della sinistra italiana, ormai irrimediabilmente orfana del proprio passato e transitata attraverso i bombardamenti sulla Jugoslavia e la fedeltà incondizionata ed assoluta al blocco militare euro-atlantico, è pronta a difendere sulle barricate. Da Veltroni a Fassino, da Rutelli a Furio Colombo: tutti in trincea a difendere Israele ed il suo “diritto alla vita”. Come se questo paese non esistesse dal 1948 e non avesse allargato guerra dopo guerra, aggressione dopo aggressione, i propri possedimenti a danno dei paesi e dei popoli vicini, in barba all’ONU ed in spregio al diritto internazionale. Come se oggi il rischio maggiore in Medio Oriente fosse proprio la scomparsa di Israele.

Chi non ha uno stato nel quale vivere non sono, sarebbe bene ricordarlo, gli israeliani ma i palestinesi, costretti a rimanere in carceri a cielo aperto o nei tanti campi profughi sparsi nella regione. A testimonianza vivente che in Medio Oriente non esistono né “due ragioni”, né “equivicinanze” di alcun genere, bensì il torto di un paese che ha sì ragione di esistere, ma non a scapito di altri ed impedendo con ogni mezzo dal 1948 la nascita del “secondo” stato per i palestinesi, e la ragione di un popolo martire che da troppo tempo è costretto a lottare per ciò che già possedeva e che gli è stato tolto con la violenza.

Per quale ragione Hamas, Hezbollah o, più in generale, i popoli arabi della regione dovrebbero riconoscere il diritto alla vita per Israele se Israele non riconosce nei fatti il medesimo diritto per i palestinesi e per i paesi vicini, a partire proprio dal Libano? Fino a quando Israele non rientrerà nei confini del 1948, ottemperando in questo modo alle risoluzioni ONU, non esiste alcuna possibilità concreta di costruire uno stato palestinese degno di questo nome e, con esso una pace giusta e stabile nella regione.

Le posizioni più avanzate sull’ennesima crisi in Medio Oriente sono state espresse da Romano Prodi, che ha criticato entrambe le parti in conflitto, fatto appello all’ONU, resa impotente però dal veto che hanno espresso gli Stati Uniti, e chiamato in causa per una mediazione l’Iran, una sorta di “Visconte dimezzato” tra stato canaglia e prezioso soggetto mediatore (per gli Stati Uniti, ad esempio, in Iraq). Toppo poco, davvero troppo poco, mentre il Ministro degli esteri critica l’intensità e la sproporzione della “reazione” (meglio sarebbe definirla eventualmente “rappresaglia”) israeliana, considerata “legittima”, ed il resto del centro e della sinistra che solidarizza apertamente, insieme alla destra in un voluttuoso abbraccio bipartisan, con gli aggressori. Così come parti non secondarie della sinistra radicale, impegnate a costruire acrobazie su doppie ragioni, equidistanze ed improbabili “rigurgiti anti-sionisti” (continuo a voler credere con ostinazione e, forse, dabbenaggine che il Segretario del PRC intendesse fare riferimento a “rigurgiti antisemiti”, da condannare senza esitazioni ed ambiguità), si trovano spiazzate da un’offensiva ed una reazione politica che forse non si aspettavano.

Troppo poco davvero per condividere la presenza al governo, data anche la scarsa propensione presente a costruire mediazioni avanzate, come dimostra la discussione che si è aperta sul rifinanziamento delle missioni militari all’estero, con particolare riferimento all’Afghanistan. I nodi sono venuti, da questo punto di vista, subito al pettine, a testimonianza di quanto lo stesso Programma di governo dell’Unione fosse insufficiente a garantire la necessaria discontinuità tanto rispetto al governo Berlusconi, quanto ai governi dell’Ulivo della seconda metà degli anni ’90 del secolo scorso. Se l‘Afghanistan non fosse sufficiente o sufficientemente importante, Padoa Schioppa, crociato del rigore finanziario, dei parametri neoliberali europei e dei tagli alla spesa sociale, per credere.

Se davvero vi fosse stata la disponibilità da parte della maggioranza dell’Unione a trovare una mediazione avanzata sull’Afghanistan, si sarebbero trovate anche le condizioni. Forse non agevolmente, ma si sarebbero trovate. Al contrario, in un contesto complessivo di ripresa del conflitto militare e di espansione nel sud e nell’est del martoriato paese della missione ISAF, a guida NATO e non ONU, destinata ad intrecciarsi inevitabilmente con Enduring Freedom, la sola preoccupazione del governo è stata quella di negare eventuali condizionamenti della “sinistra radicale”, ridottasi a votare “sì” dopo otto “no” consecutivi.

Sull’Afghanistan non si è determinata alcuna mediazione degna di tal nome, ma solamente qualche marginale ed ininfluente aggiustamento, come hanno giustamente sottolineato Parisi e D’Alema. L’Italia continua a partecipare alla guerra, in ambito NATO e sotto comando USA. A rovinare la festa sono stati, ironia della sorte, una manciata di deputati e senatori, forse più ostinati della media, sostenuti da parti importanti del movimento pacifista, che si è ritrovato, finalmente!, sabato 15 luglio a Roma per una bella, partecipata e significativa giornata di lotta e mobilitazione. Un gran bel segnale davvero che, in queste condizioni, vale tanto oro quanto pesa ciascuno dei partecipanti.

Grazie alla guerra in Afghanistan, gli Stati Uniti hanno consolidato la propria presenza militare diretta nel cuore dell’Asia, con basi in diverse repubbliche dell’Asia centrale ex-sovietica (chi ricorda i recenti tentativi di destabilizzazione, poi falliti, di Kirghizistan ed Uzbekistan?), anche contro la volontà dei singoli governi, a ridosso di Cina, India, Russia ed Iran. E se per questo il prezzo da pagare è la guerra, o le stragi di civili, le torture, Guantanamo o qualche milione di dollari pagato ai signori della guerra e della droga locali a sostegno di un governo fantoccio ed inesistente, poco importa. Parigi, insomma, val bene una messa.

Insieme agli Stati Uniti anche l’Unione Europea aumenta i propri contingenti, allineandosi alla volontà del più potente alleato e rinunciando, come su Russia e Medio Oriente, al proprio potenziale ruolo di mediazione, al proprio potenziale contributo per la costruzione di relazioni internazionali basate sulla multipolarità e non sulla guerra e l’unilateralismo. L’UE continua, da questo punto di vista, a soffrire di “nanismo” sul piano politico e ad operare, nella sostanza, contro i propri interessi. In questo contesto il Capo dello Stato, invece di vigilare sul rispetto della Carta Costituzionale e sull’applicazione delle sue parti più avanzate dopo la sconfitta della controriforma berlusconiana, preferisce scagliarsi con inaspettato livore contro quei “settori anacronistici” della sinistra radicale, anti-NATO ed anti-USA, che rischiano di minare le magnifiche sorti e progressive del governo e del tanto agognato bipolarismo. Settori determinanti per l’elezione dello stesso Napolitano, ma in quella fase non ancora anacronistici.

Come se la NATO e la volontà statunitense di riportare indietro l’orologio della storia non fossero elementi anacronistici. Più semplicemente, meglio anacronistici che guerrafondai.

Vi sono dei momenti nei quali è possibile navigare a vista, al riparo da venti e tempeste; vi sono nella vita e nella politica momenti nei quali è possibile operare sfruttando l’inerzia. Ve e sono altri, invece, nei quali gli avvenimenti ti costringono a scegliere, a muoverti nell’incertezza, a rischiare, a pagare un prezzo. Sapendo che ciascuno sarà chiamato a convivere con le proprie contraddizioni. Non sempre è possibile essere pesce, esca e pescatore. Non sempre lo scarto tra teoria e prassi, pur se sempre presente, è governabile, gestibile. Se la divaricazione è eccessiva, il quadro non regge.

Non è possibile dichiararsi contro la guerra senza se e senza ma e votare a favore delle missioni di guerra italiane all’estero, convincendosi di dare un contributo alla lotta per la pace. Troppo ampio lo scarto tra teoria e prassi, troppo stridente la contraddizione, esplosiva la miscela.

Chi decide di votare a favore del finanziamento delle missioni italiane all’estero decide consapevolmente di rendersi corresponsabile di quanto accade successivamente, in Afghanistan come altrove. Non basta evocare fantasmi (Berlusconi; grande centro) per giustificare scelte altrimenti non giustificabili. Non sempre Parigi val bene una messa.

fonte:
http://www.resistenze.org/sito/te/pe/ed/peed6g19.htm