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Amare è una vocazione, non una brama

di Francesco Lamendola - 29/05/2013


 

 

Ci sono molte cose che non vanno nel modo di amare degli uomini (e delle donne) moderni, ma tutte, o quasi, si possono riassumere in una formula: che l’amore non è più sentito come una chiamata, come una vocazione e come un completamento del proprio destino, ma essenzialmente come una brama, come uno stimolo da soddisfare ad ogni costo, non molto diverso dagli altri stimoli corporali, come quello di grattarsi se si avverte un prurito sulla pelle.

L’amore non è più visto come una relazione che ci completa, che ci realizza, e nella quale troviamo il significato del nostro esistere; ma come un fatto individuale, come una specie di diritto naturale della persona, una richiesta e un bisogno dell’io, nel quale il tu c’entra pochissimo, se non come corpo e come strumento di gratificazione del proprio io.

Questa è la ragione principale della crisi del matrimonio; le altre sono ragioni collaterali, che derivano, sostanzialmente, da essa: l’amore non è più l’espressione di un destino da realizzare, non è più un ponte che si getta verso l’altro, per completare e realizzare anche il proprio sé, ma è divenuto una tecnica di soddisfacimento sessuale per il piacere dell’io; ed essendo l’io dispotico, narcisista e capriccioso, il piacere che ottiene non è mai sufficiente e sempre esso torna ad esigerne dosi ulteriori, sempre più frequenti e massicce.

Per ragioni analoghe, anche il sentimento dell’amicizia è oggi fortemente in crisi; mentre il dilagare dell’edonismo sessuale non è altro che il rovescio della medaglia di un isolamento sempre più frustrante dell’io, di una sua sempre maggiore diffidenza, di una sempre più forte paura nei confronti dell’altro. Ed è logico: in un mondo di io ipertrofici, tutti protesi ad arraffare la maggior quantità possibile di piacere servendosi dell’altro, nessuno si sente riconosciuto e valorizzato, tutti si sentono usati e strumentalizzati e ciascuno è sul piede di guerra, con ogni senso all’erta, per godere il più possibile senza dover pagare alcuno scotto: in altre parole, per fregare gli altri prima che gli altri possano fregare lui.

L’omosessualità dilagante non è che un caso particolare di questo stravolgimento del retto senso dell’amore. Se l’amore, o la ricerca dell’amore, non è più la ricerca del tu che completi il proprio io, allora tanto vale concentrarsi sulla ricerca del piacere con qualcuno che non sia troppo diverso, perché la differenza metterebbe in crisi l’io narcisista ed ipertrofico: differenza, infatti, vuol dire tu, vuol dire uscire dal proprio io e confrontarsi costruttivamente con l’altro. Meglio, allora, puntare su un “altro” che si “altro” il meno possibile; sul proprio simile, che ci faccia da specchio; su qualcuno che sappia, anche materialmente, come darci il massimo del piacere, perché il suo corpo è identico al nostro.

Costruire un rapporto basato sulla differenza, al contrario, è faticoso: si parlano due lingue diverse  e a volte non ci si comprende; si è costretti, per forza, a uscire spesso e volentieri dal proprio io,  a dire tu, a mettersi in discussione, magari scontrandosi e litigando, ma comunque definendo meglio anche la propria identità, arricchendola, completandola. È proprio questo completamento che non interessa all’io ipertrofico e narcisista: esso si ritiene pago di essere così com’è, senza bisogno di uscire all’esterno, senza bisogno di affrontare fatiche e di dover lavorare su se stesso per riuscire a dialogare in profondità con l’altro.

La ragione della progressiva erosione della famiglia scaturisce da qui. Ciascuno bada prima di tutto ai propri diritti, alla propria gratificazione, al proprio piacere: l’altro, in questa prospettiva, è un ostacolo, o, nel migliore dei casi, un peso morto: sia esso una moglie o un marito, un figlio o un genitore. Perché complicarsi la vita per andare incontro al tu, perché rinunciare a tutte le occasioni, grandi e piccole, che la vita offre – occasioni d’ogni genere, sessuali e non -, insomma perché sacrificarsi, quando si sa che la vita è una e che ciò che è lasciato, è perso? Se ti piace una cosa, prenditela: nessuno ha il diritto di negartela , né ci sono vincoli che tengano. L’io prima di tutto.

In quest’ottica, oggi largamente diffusa (ma che fa la sua comparsa, in Occidente, verso la fine del Medioevo, precisamente con il «Decameron» di Boccaccio), anche l’attrazione sessuale non è che uno stimolo fisiologico, nel quale non hanno il minimo peso eventuali considerazioni relative all’amore come chiamata, come percorso preferenziale per evolvere da semplice individuo a persona: logico che, a quel punto, non abbia più importanza se l’oggetto del desiderio sia un uomo o una donna, un adulto o un bambino, o magari un anziano: tutto va bene, perché nessuno ha il diritto di porre dei limiti all’impulso verso il piacere (e se qualcuno lo fa, allora deve trattarsi per forza di un bieco moralista).

Prendiamo, a mo’ di esempio per illustrare questo concetto, la confessione delle fantasie sessuali di una classica giovane donna americana, Lindsay, una trentenne atletica e attraente - tale si definisce da se stessa -, sposata da due anni e mezzo, senza figli, che ha lasciato il posto da segretaria per fare la casalinga e dedicarsi alla palestra e ai corsi da disegno; in precedenza è sempre stata attratta  dalle donne, preferibilmente più vecchie di lei, e ha vissuto per nove anni con una di esse (da: Nancy Friday, «Donne sopra. Le nuove fantasie sessuali femminili»; titolo originale: «Women on top», 1991; traduzione dall’inglese di Anna Rusconi, Milano, Mondadori, 1992, pp. 193):

 

«Attualmente frequento un corso di disegno e la mia insegnante mi prende da morire. Dev’essere intorno alla sessantina, ma vibra e sprigiona vitalità da tutti i porti. Quando la guardo nei suoi occhioni scuri (sempre ben truccati) avverto l’antica eccitazione pervadermi mente e corpo. È una persona molto spiritosa, e lo stesso vale per me. Mi domando se le nostre schermaglie verbali le fanno lo stesso effetto che fanno a me. Questa p la mia fantasia.

Finita la lezione mi chiede se le do uno strappo a casa (lei non ha la patente) e io faccio un salto (Dio, se la porterei, se solo me lo chiedesse). Una volta arrivate, i invita a salire per vedere i suoi quadri. Il cuore mi batte forte, mi sento la testa leggera e in effetti concentrarmi sulle sue tele è uno sforzo. È appoggiata con la spalla e un braccio contro di me, la testa inclinata nella mia direzione, la bocca a pochi centimetri dalla mia. Quasi non riesco a dominarmi. Poi vedo il suo pianoforte a coda, nell’altra stanza. Mi ci butto sopra e comincio a suonare, dapprima adagio, poi con più veemenza, e alla fine senza più trattenermi lascio che la musica lasci traboccare le emozioni che mi scuotono. Sento emergere un misto di amore, desiderio, paura, tortura ed eccitazione, sentimenti che si spandono nella vecchia casa riempiendola di suoni intensi, belli, liberi. Suono fino a entrare in una specie di trance,  e quando torno coi piedi per terra, e smetto, nella stanza cala un silenzio profondo. Mi giro e vedo lei, la mia adorata, seduta a guardarmi: nei suoi occhi brilla un’espressione che mi costringe a correre verso di lei. Mi tende le mani, ha le guance rigate di lacrime, e in un attimo sono fra le sue braccia,  le bacio il viso e la bocca, la accarezzo e tutte e due ci ritroviamo a piangere come bimbe mentre il nostro amore erompe in superficie. Sul divano, ci sentiamo sprofondare in un’intensità fisica ed emotiva tale da arrivare entrambe a un orgasmo travolgente, e siamo ancora completamente vestite. Fine della fantasia.

Vorrei con tutto il cuore che questo sogno si avversasse, ma temo che l’ interesse per me sia di natura strettamente professionale, e non vorrei scioccarla o spaventarla con un approccio troppo violento. Dovrò dunque accontentarmi delle mie fantasie. Certo è che mi costa una bella fatica, comportarmi con indifferenza alle sue lezioni. Quando mi osserva con quei suoi occhi intensi e scuri, credo di potervi leggere più di quanto non vi sia in realtà, e starle di fronte è davvero difficile.»

 

A quanto pare, questa trentenne emancipata e spiritosa, che dice di essere sposata con un uomo delizioso e che definisce il so matrimonio felice, pacifico e funzionale, tranne che dal lato sessuale, non è capace di domandarsi che senso esso abbia e perché lo tiri avanti, mentre fantastica sulla sua più che matura insegnante di disegno; né salta fuori l’ombra di un desiderio di maternità; né dice mai qualcosa di sé, di suo marito o di chiunque altro, da cui traspaia che ella consideri se stessa o gli altri diversamente che dei semplici corpi, più o meno desideranti e desiderabili. Dal suo sentire traspaiono un drastico impoverimento e un soffocante restringimento della persona.

Nell’universo mentale e affettivo di questa giovane moglie, in apparenza felice e realizzata, tutto quel che conta è soddisfare il proprio appetito sessuale, magari masturbandosi furiosamente (come confessa di aver imparato a fare sin da bambina, con un delizioso senso di colpa); l’unica ragione per cui non salta addosso alla professoressa sessantenne è che teme di spaventarla e allontanarla, per cui, piuttosto che niente, preferisce coltivare fantasie erotiche sul suo conto e, verosimilmente, pensare a lei mentre fa l’amore con il suo uomo. Che in tutto questo ci sia qualcosa di sbagliato, di assurdo, di radicalmente contrario al senso della vita, è cosa che non sembra sfiorarla nemmeno; dalle sue confessioni- così come, del resto, da quelle di centinaia di altre donne intervistate dall’autrice – non emergono altro che un edonismo esasperato e una sistematica riduzione di ogni rapporto umano alla sfera del sesso o, per dir meglio, dell’orgasmo.

Quel che conta, per la signora Lucy, così come per milioni di donne e, naturalmente, di uomini della società odierna, è inseguire il proprio piacere e soddisfare il proprio stimolo sessuale: come e con chi, è del tutto secondario; può essere da soli (masturbazione), con persone del proprio sesso o dell’altro, indifferentemente: purché la fantasia si accenda, il sangue bruci, i sensi godano e l’io naufraghi nel mare profondo dell’orgasmo. L’amore è ridotto a sesso e il sesso è ridotto a tecnica per conseguire l’orgasmo; non c’è null’altro che conti.

Questa è precisamente la prospettiva da cui muovono tutti coloro, e oggi sono forse la maggioranza, che esigono una ridefinizione non solo dell’ethos sessuale, ma anche della legislazione familiare; che pretendono, ad esempio, che qualunque unione, eterosessuale o omosessuale, venga equiparata per legge alla famiglia “naturale” (come un tempo si usava chiamarla), formata dal vincolo stabile tra un uomo e una donna e aperta alla generazione dei figli. L’argomento pressoché unico di tutti costoro è sempre lo stesso: «Perché no?»; e, in subordine: «Che male c’è?». Se l’amore è il valore assoluto, allora che cosa importa se si tratta di una relazione stabile o temporanea, eterosessuale oppure omosessuale, fra due maggiorenni o fra due minorenni? Questi sono tutti pregiudizi, essi dicono: l’unica cosa che conta è amare.

Già, ma cosa vuol dire amare? Essi dovrebbero dire, più onestamente: l’unica cosa che conta è il piacere. L’amore non è la stessa cosa che la brama del piacere; l’amore è chiamata, vocazione, tensione verso il confronto con l’alterità, da cui scaturisce una più profonda e matura consapevolezza di se stessi. La famiglia, quella vera, nasce da questa tensione, da questo bisogno di arricchimento e di completamento: che è parte del percorso formativo della persona, e che non si realizza se ci si limita ad inseguire incessantemente le proprie fantasie sessuali più disordinate, cercando di metterle in pratica con chiunque e ogni volta che se ne presenti l’occasione.

Non che ci sia qualcosa di male nel piacere, tutt’altro: ma esso è il risultato dell’amore, non il suo fine o la sua ragion d’essere; infatti, l’amore ci può essere anche senza il piacere fisico, come può accadere quando sopravviene una menomazione fisica o, semplicemente, la vecchiaia. Chi non ha capito questo, non ha capito niente dell’amore e ne parla a vanvera, riempiendosi la bocca con una parola di cui non sa letteralmente il significato.

Una società nella quale l’amore cede il passo alla brama del piacere fine a se stessa, da raggiungere comunque e con chiunque, è una società che si getta a capofitto verso l’autodistruzione, perché in essa le persone scompaiono e vengono sostitute da individui narcisisti e chiusi in se stessi, atomi incapaci di aprirsi verso l’esterno, di dire “tu”, di collaborare con l’altro. La famiglia si sta disgregando perché è venuta meno la capacità di collaborare: nessuno vuol rinunciare a qualcosa, tutti sanno dire solamente “io”. Troppo poco per costruire qualcosa di durevole, come invece hanno saputo fare i nostri genitori e i nostri nonni.

Loro sapevano dire “tu”; noi lo abbiamo dimenticato. Nell’altro vediamo solo uno specchio, un riflesso del nostro io, uno strumento per raggiungere il nostro piacere. Se tutto quello che conta è l’orgasmo, allora possiamo affidarci anche a una macchina, a un circuito elettronico che simuli la realtà vera e la sostituisca con quella virtuale. Non occorrerà più stringere l’altro fra le braccia; basterà stringere un “tu” virtuale, ossia una proiezione del proprio io.

Ma l’io che sa dire solamente io, che nell’altro non sa più vedere il tu, è sterile: ed è condannato a vivere in un deserto nel quale, alla fine, sparirà, senza aver lasciato traccia del suo passaggio…