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Rivedere i pregiudizi scientisti per valutare serenamente l’ipotesi Atlantide

di Francesco Lamendola - 11/06/2013


 


La cultura scientista oggi dominante ha relegato, una volta per tutte, il racconto platonico dell’Atlantide, contenuto nei dialoghi «Timeo» e «Crizia», fra le leggende prive di realtà storica e ispirato, al massimo, dal ricordo di qualche evento reale, accaduto però in altro tempo e in altro luogo, e non così come il filosofo greco ce lo ha tramandato; per cui, al massimo, sarebbe lecito domandarsi se il racconto platonico non debba riferirsi all’esplosione del vulcano di Thera (Santorini) e alla conseguente eclisse della civiltà minoica.

A ciò si aggiunga la sgradevole circostanza che, al rifiuto dei depositari della scienza ufficiale, si contrappone la fin troppo entusiastica congrega dei dilettanti, degli improvvisatori, dei ciarlatani, degli occultisti da strapazzo e di quanti si sono accorti che commercializzare un prodotto che si vende così bene è un’occasione troppo ghiotta per non coglierla al volo e sfruttarla sino all’estremo limite della decenza e del buon gusto: tutta una vegetazione infestante di articoli, libri, film e documentari che non hanno altro scopo, se non quello di coltivare le ingenue aspettative di un pubblico tanto grossolano quanto smanioso di sensazionalismo.

Ci siamo sempre domandati se il sorrisetto di superiorità e di commiserazione con i quali i rappresentanti dell’attuale establishment scientifico discutono - se pure si abbassano a farlo - del mito platonico dell’Atlantide, nasca soltanto da inveterata arroganza intellettuale nei confronti degli studiosi “eretici”, da essi semplicemente considerati non-scienziati, o se non abbia una radice più profonda: la paura, anzi il terrore, dissimulato appunto dietro il ghigno beffardo della presunzione, di veder incrinato tutto il bel castello della loro scienza accademica, con le cattedre, i privilegi e le generose  remunerazioni che su di esso riposano.

Infatti, se esistesse una base storica reale del racconto platonico, non troppo diversa da come appare nei due dialoghi, allora bisognerebbe rivedere tutta una serie di certezze sulle quali sono state costruite, negli ultimi decenni, le scienze della Terra, ma anche la Biologia e, in modo particolare, l’evoluzionismo darwiniano: eventualità che quei signori non vogliono nemmeno prendere in considerazione, vedendo in essa una minaccia non solo alla Verità che hanno deciso di servire, ma anche alle loro affermate posizioni di potere culturale, dall’alto delle quali dispensano benevolmente al popolo, ma non senza condiscendenza, nel corso di ammiccanti interviste televisive, le briciole della loro ineffabile e incontestabile sapienza.

Ma siamo proprio sicuri che il racconto di Platone è solo una favola e che, tutt’al più, lo si può prendere seriamente in considerazione come un’eco di eventi geologici di tutt’altra natura e di tutt’altra localizzazione geografica e storica? È proprio vero che una civiltà come quella di Atlantide NON POTEVA ESISTERE né all’epoca, né nel luogo che Platone ci indica, ossia 10.000 anni avanti Cristo e in mezzo all’Atlantico? Perché questo è il punto: la scienza ufficiale odierna non si prende la briga di discutere ed, eventualmente, di accogliere o respingere i contenuti del racconto platonico; essa taglia la testa al toro affermando, puramente e semplicemente, che i presupposti del racconto sono impossibili e che, pertanto, il racconto non può essere che fantastico.

Cominciamo, invece, con il metter in chiaro che il “mito”, non solo per Platone, ma per tutta la sapienza antica, non è affatto sinonimo di “racconto leggendario”, ma di cosa reale, e sia pure narrata in forme simboliche e allegoriche: e questo è il primo punto in cui bisogna sgombrare il terreno da possibili equivoci o da deliberati fraintendimenti (ma su ciò, confronta anche il nostro precedente saggio «Platone credeva ala realtà obiettiva dei miti e li considerava come eventi reali», apparso sul sito di Arianna Editrice in data 15/02/2010).

Il secondo punto da chiarire è che i presupposti teorici sui quali la scienza ufficiale respinge la credibilità del racconto platonico non sono, a loro volta, solidamente e definitivamente dimostrati, ma restano al livello delle ipotesi scientifiche: ed è evidente a chiunque sia in buona fede, che una ipotesi non può smentire un’altra ipotesi, ma che solo dei dati di fatto irrevocabilmente dimostrati e confermati sarebbero autorizzati a farlo.

Dal professor Roberto Fondi, docente di Geologia e Paleontologia all’Università di Siena, viene, già da un trentennio, l’invito a riconsiderare con più serenità e obiettività l’ipotesi atlantidea così come emerge dal mito platonico, e ciò mettendo in discussione i tre capisaldi dei “negazionisti” di matrice scientista: che nessuna civiltà evoluta poteva esistere dodici secoli fa, allorché Platone colloca la distruzione del misterioso continente; che nessun continente è mai esistito al centro dell’Atlantico settentrionale; che nessun evento geologico di tipo catastrofico può verificarsi all’improvviso e risolversi in tempi brevissimi.

Ma cediamo la parola allo stesso Fondi (dalla «Introduzione» di R. Fondi a «Il mito di Atlantide» di L. Sprague De Camp; titolo originale: «Lost Continents. Atlantis Theme», 1954, 1970; traduzione dall’inglese di R. Rambelli, Roma, Fanucci Editore, 1980, pp. 11-15):

 

«I) Stando a Platone, Atlantide si sarebbe inabissata circa 12.000 anni or sono – vale a dire, praticamente, alla fine dell’ultimo periodo glaciale. Ciò è assurdo, perché quella descritta nel “Crizia” è, chiaramente,  una civiltà di tipo eneolitico (ossia in grado di lavorare i metalli di costruire intere città: come Uruk, Eridu e Tepe Gawrain Mesopotamia ecc. […];

II) La geologia moderna (fondata sulla teoria della tettonica a placche – il cui effetto avrebbe prodotto anche i movimenti di deriva continentale – ha dimostrato in maniera inequivocabile che, da quando l’uomo esiste sulla Terra, non c’è mai stato un continente o una terra emersa in mezzo all’Oceano Atlantico. Esiste, invece, una lunga dorsale sottomarina composta di rocce basaltiche, la quale si presenta longitudinalmente spaccata in due da una profonda fossa […]

III) La geologia moderna, basata sul principio attualistico-uniformitario di Charles Lyell (secondo cui è illecito cercar di spiegare gli eventi geologici  del passato con meccanismi diversi da quelli  che abbiamo ogni giorno davanti ai nostri occhi, i quali si svolgono con lentezza e gradualità incessanti) non può ammettere la realtà di eventi catastrofici improvvisi e di portata planetaria […]

È chiaro che una volta assunte queste posizioni, diviene obbligatorio o rifiutare in blocco il racconto di Platone, oppure alterarlo per costringerlo ad adattarsi  ad interpretazioni di tipo ortodosso […] Nessuna delle tre suddette assunzioni di partenza, comunque, può essere accettata ad occhi chiusi e senza le dovute riserve; e ciò, per i motivi che seguono.

I) Ad un esame più attento ed approfondito, dei fatti reali, l’evoluzione biologica risulta essere non una realtà scientificamente dimostrabile, ma solo un’ipotesi non convalidata da oltre un secolo di intense ricerche. È perciò un concetto gratuito asserire che nella più lontana preistoria non abbiano potuto esistere civiltà come quella descritta da Platone. D’altra pare, gli “out-of-place-artifacts” (OOPART) che, di tanto in tanto, vengono riportati alla luce, suggeriscono in maniera quasi irresistibile l’idea di civiltà tecnologicamente progredite, vissute in tempi remotissime quindi scomparse in seguito a catastrofi naturali o prodotte dall’uomo. […]

II) Per quanto concerne la geologia moderna, è vero che oggi la teoria della tettonica a placche risulta essere quella generalmente più accettata – anche per via dello zelo quasi missionario con cui essa viene propagata. Tuttavia bisogna tener presente che non mancano affatto i geologi che si dichiarano apertamente insoddisfatti delle capacità esplicative di questa teoria e che preferiscono proporre interpretazioni alternative come S. W. Carey, R. W. van Bemmelen, M. L. Keith e soprattutto V. V. Belussov. Secondo quest’ultimo, ad esempio, tutti i cambiamenti avvenuti  nella fisionomia della crosta terrestre durante l’intera sua storia trovano la loro spiegazione più semplice e naturale non in traslazioni orizzontali, bensì in movimenti verticali prodottisi nei 100-150 km. del mantello superiore. È allora chiaro che, in base a questo punto di vista, nulla si oppone ala possibilità che nell’Oceano Atlantico abbia potuto formarsi – in corrispondenza della dorsale sottomarina e, soprattutto, nella regione delle Azzorre – una grande isola costituita prevalentemente da rocce basaltiche; e che quest’ultima, in seguito a qualche particolare ed improvviso evento catastrofico (Braghine, Boneff e Muck propendono per la caduta di un asteroide) abbia finito per fondersi in corrispondenza del suo piedistallo, e quindi abbassarsi e sprofondare sotto il livello del mare per molte centinaia di metri.

III) Lyell, il padre della geologia moderna, fu troppo precipitoso allorché volle istituire la sua dottrina dei cambiamenti impercettibili. Molto giustamente - ma su questo erano interamente d’accordo con lui anche i geologi catastrofisti suoi contemporanei - egli sostenne che era necessario postulare  l’invarianza, o uniformità, delle leggi naturali nel corso del tempo, se si voleva studiare scientificamente la storia passata del nostro pianeta. Egli, però, applicò infelicemente lo stesso termine – uniformità – anche allo studio empirico dei fenomeni geologici, postulando che questi ultimi dovevano necessariamente svolgersi in modo lento, continuo e graduale, e che anche gli effetti più macroscopici e grandiosi potevano solo derivare dall’accumularsi progressivo di piccoli cambiamenti. Ma, in realtà, l’uniformità di leggi naturali non comporta affatto che non possano esistere catastrofi naturali, su scala sia locale che planetaria; ed oggi, anzi, sono sempre più numerosi i geologi disposti a tener conto di questa drammatica possibilità Inoltre è già stato possibile dimostrare in modo inequivocabile che la Terra, nel passato, è stata ripetutamente e violentemente bombardata (esattamente come tutti gli altri corpi planetari del Sistema Solare) da grossi meteoriti ed asteroidi, alcuni dei quali di diametro veramente terrificante – uguale o superiore ai 100 chilometri.

Alla luce delle considerazioni che precedono, ci sembra che la creduta “favola” dell’Atlantide finisca per assumere sempre più i connotati di una possibile e cupa realtà, e non è da escludere che, in futuro,  le vestigia di una gigantesca Pompei sommersa a circa 3.000 metri nelle buie profondità di un fondale oceanico, possano almeno in parte venire riportate alla luce…»

 

Degli oggetti paleontologici e archeologici fuori posto, ossia risalenti ad epoche nelle quali non avrebbero dovuto esistere, abbiamo già avuto occasione di parlare più volte; così come della fallacia dei metodi di datazione al radiocarbonio, in base ai quali, per esempio, la scienza ufficiale sostiene che i dinosauri si sarebbero estinti sessantacinque milioni di anni fa, mentre è possibile che tali animali fossero ancor vivi e vegeti appena poche migliaia di anni fa (e che fossero, quindi, contemporanei dell’uomo).

Della geologia basata sul dogma di Lyell ci siamo del pari occupati (fra l’altro nell’articolo «Attualismo geologico contro catastrofismo: una mancata lezione di umiltà per gli scienziati», apparso sul sito di Arianna Editrice in data 21/09/2012): tutto il problema sta nel fatto che lo scienziato inglese ha commesso il tipico errore filosofico di trarre conclusioni arbitrarie rispetto alla premessa. La premessa è che, se si vuol studiare scientificamente il passato della Terra, non si può mettere in dubbio l’invarianza delle leggi naturali; l’indebita conclusione è che i fenomeni naturali sono sempre stati gli stessi che possiamo osservare oggi. Il che è assurdo: perché – ad esempio -, se oggi non possiamo osservare la caduta di un grosso asteroide sulla Terra, perché si tratta di un evento statisticamente molto raro (per nostra fortuna), ciò non significa che non possa essere accaduto, magari in un passato ben più vicino a noi di quel che ci piace immaginare.

Qui siamo in presenza di un duplice errore di ragionamento: aver fatto coincidere il campo del reale con il campo della ricerca scientifica e aver ipostatizzato, per così dire, il concetto di legge; che non è una realtà esistente al di sopra della natura, ma la formulazione di quei principi e l’interpretazione di quei fenomeni che nella natura è stato possibile osservare e, in una certa misura, studiare. In parole ancora più semplici: non è possibile negare la possibilità di un fatto, perché esso va contro una “legge” naturale: le leggi naturali servono appunto a spiegare i fatti, e non viceversa. Quando ciò avviene - e avviene spesso -, i professori trionfano, ma la scienza viene sconfitta: viene sconfitto, cioè, il sano desiderio dell’uomo di comprendere e spiegare il mondo intorno a lui, in nome di un “sapere” che non cerca la verità, ma piuttosto tende ad aggrapparsi alle proprie provvisorie acquisizioni, imbalsamandole e trasformandole in dogmi indiscutibili.

La conclusione? Nessuna conclusione certa: abbiamo solo cercato di mostrare che il rifiuto pregiudiziale della realtà storica del mito platonico dell’Atlantide non è scientificamente fondato, anche se a sostenerlo sono proprio i campioni della scienza ufficiale. Non abbiamo nemmeno provato a dimostrare che esso è veritiero, cosa che richiederebbe un discorso molto più ampio e complesso e che comunque, allo stato attuale delle nostre conoscenze, non potrebbe essere sostenuta con argomenti inoppugnabili. Ci siamo limitati a mostrare che la storicità - o, se si preferisce, la veridicità - di quanto Platone racconta nel «Timeo» e nel «Crizia» non è impossibile, non è qualcosa di assurdo, di cui si possa sorridere con aria beffarda.

Cari scienziati accademici, un po’ di umiltà, per favore. Siete come quei (cattivi) maestri i quali, davanti alle domande difficili dei bambini, imbastiscono sempre delle risposte qualsivoglia, magari capziose e fumogene, ma sciorinate con grande sussiego e con aria di estrema sicurezza, perché non hanno il coraggio e l’onestà intellettuale di ammettere: «Non lo sappiamo; proviamo a cercare insieme…» Chi ha paura di ammettere la propria ignoranza è qualcosa di peggio d’un mezzo-sapiente; è il contrario del vero sapiente: è uno che preferisce arroccarsi nella cittadella del falso sapere, per vanità e per pigrizia intellettuale…