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Germania: un modello di virtuosità finanziaria e di macelleria sociale

di Luigi Tedeschi - 02/10/2013

Fonte: centroitalicum

 

La schiacciante vittoria elettorale della Merkel rappresenta la legittimazione politica di un modello economico sociale cui deve con conformarsi l’intera UE. La Germania ha assunto, grazie alla sua supremazia economico - finanziaria economico - finanziaria sull’Europa, il ruolo di stato guida che determina la politica economica di tutti gli stati membri della UE, in virtù di progressive espropriazioni di sovranità a danno dei partners europei, attuate mediante le direttive della BCE. La Merkel si è imposta offrendo all’elettorato tedesco un modello di governo basato sulla stabilità, vantando il primato economico della Germania In Europa, il rigore della finanza pubblica, la riforma del mercato del lavoro (in realtà attuata dal suo predecessore Schroeder), che ha portato la disoccupazione a percentuali minime. Il modello di una Europa formato Merkel è fondato sulla equivoca contrapposizione ideologica tra paesi del nord, dalla finanza virtuosa e stabile e paesi “PIIGS”, condannati alla schiavitù del debito, con finanze pubbliche in cronico deficit, con alti tassi di disoccupazione. Trattasi di una legittimazione ideologica di una dominazione politico - finanziaria. La virtuosa stabilità tedesca però, è assai poco compatibile con il sistema capitalista anglosassone imposto dalla UE all’Europa, fondato sulla perenne fibrillazione dei mercati finanziari dell’economia globalizzata. Inoltre, il rigore di bilancio tedesco ha un costo sociale assai elevato: alla stabilità dei bilanci pubblici in pareggio, fa riscontro una precarietà e flessibilità del lavoro estrema, un ridotto potere d’acquisto dei salari, tagli rilevanti allo stato sociale, scarsa mobilità sociale.

Nella Germania della Merkel la disoccupazione è al 5,3% (7,6% nei giovani), mentre in Grecia e Portogallo è quasi al 60%. La riforma del mercato del lavoro attuata da Schroeder, nota come Hartz IV (perché inspirata dall’allora capo del personale della Volkswagen Peter Hartz), ha prodotto i suoi effetti sull’incremento dell’occupazione, grazie all’introduzione di contratti di lavoro precari denominati “mini - job”. Tali contratti di lavoro hanno sortito una vorticosa espansione nel lavoro dipendente: oggi sono circa 8 milioni lavoratori assunti in base a tale normativa, pari al 25% dei lavoratori subordinati. In Germani la legislazione sul lavoro non prevede minimi salariali e pertanto, i lavoratori assunti mediante i mini - job percepiscono salari retribuiti a meno di 9,5 € l’ora, per un totale di circa 450 € mensili. L’espansione dei mini - job è dovuta, oltre che alla rilevante diminuzione del costo del lavoro per le impresa, al fatto che tali contratti sono esenti da imposte e contributi per il lavoratore, mentre il datore di lavoro effettua versamenti assai ridotti. La scelta del legislatore tedesco, è stata dunque quella di privilegiare la diffusione di tali forme di impiego precario, a danno del lavoro stabile, con costi sociali evidenti. Molti lavoratori sono costretti a cumulare vari impieghi precari per la propria instabile sussistenza. I mini - job sono particolarmente diffusi tra i giovani, le donne, i lavoratori anziani, che in virtù dell’innalzamento dell’età pensionabile, debbono prolungare la loro vita lavorativa ricorrendo a tali forme di impiego precario e sottopagato. Il costo sociale di tale legislazione improntata alla precarietà del lavoro, per quanto riguarda l’aspetto previdenziale - assistenziale nel tempo si dimostrerà assai elevato. L’espansione incontrollata dei mini - job riduce pesantemente la capacità contributiva della massa dei lavoratori dipendenti, privando di ingenti risorse il sistema previdenziale. Ma soprattutto i lavoratori precari attuali, non potranno maturare contributi sufficienti per percepire un adeguato trattamento pensionistico e pertanto, del loro sostentamento in età pensionabile, dovrà farsi carico l’assistenza pubblica, con un dispendio di risorse oggi non quantificabile.

La crescita dell’economia tedesca è dovuta soprattutto all’export ed è diretta conseguenza dell’introduzione dell’euro, che non permette ai paesi importatori di svalutare la propria moneta. L’euro ha imposto un regime di cambi fissi, favorendo la competitività delle economie europee più forti, a danno dei paesi più deboli. L’export tedesco si è sviluppato anche nei paesi emergenti del BRICS, ma la loro crescita nel 2012/13 ha subito un decremento a causa del calo dei consumi dei paesi più avanzati, che hanno necessariamente ridotto le loro importazioni. Nella eurozona la recessione ha generato un decremento della stessa crescita tedesca. Allo sviluppo tedesco, realizzatosi mediante l’export, fa riscontro la caduta del Pil dei paesi più deboli, i quali potrebbero esportare la propria recessione nella stessa Germania. Quest’ultima, non è davvero la locomotiva d’Europa, poiché il suo sviluppo non ha un effetto traino sulle altre economie europee. Alla crescita dell’export tedesco, corrisponde la recessione die partners europei. L’Europa dell’euro ha creato solo conflittualità, prevaricazione, cessioni di sovranità dei paesi più deboli a favore di quelli più forti.

Le esportazioni tedesche costituiscono il 50% del Pil, ma gli investimenti sono calati al 17%. Occorrerebbero investimenti per rilanciare la domanda interna e, in tal modo, contribuire alla ripresa dei partners europei in recessione. Ma lo sviluppo dell’export è frutto la maggiore competitività delle imprese tedesche sui mercati esteri acquisita mediante misure di compressione del costo del lavoro, tagli alla spesa sociale, contenimento dei consumi interni. Gli investimenti in infrastrutture sono assai carenti a causa di una politica economica orientata verso l’obiettivo del pareggi odi bilancio. Occorre inoltre notare che il risanamento virtuoso delle finanze pubbliche tedesche, che ha condotto al pareggio di bilancio, è stato reso possibile dal ridimensionamento della spesa per interessi sul debito pubblico, che è stato ottenuto mediante massicci disinvestimenti nei debiti pubblici degli altri paesi dell’eurozona (in primis del debito italiano), generando cioè la crisi del debito del 2011/12. Tale crisi ha avuto l’effetto di provocare aumento del debito e recessione negli altri partners europei più deboli, determinando nel contempo l’afflusso di capitali verso il debito pubblico tedesco. Il costo della stabilità tedesca è stato imputato agli altri paesi europei.

Allo sviluppo dell’export non ha fatto seguito una adeguata crescita degli investimenti. Dal 1999 ad oggi la crescita tedesca è stata dell’1% annua, a causa della carenza di investimenti, sia pubblici che privati. Occorrerebbe una vasto piano di investimenti pubblici in infrastrutture per determinare crescita dei salari e aumenti di produttività. Ma l’obiettivo del pareggio di bilancio, unitamente alle esigenze di competitività per l’export, hanno imposto un blocco sostanziale delle retribuzioni ai livelli degli anni ’90, con conseguente calo della domanda interna. La crescita dell’export non ha avuto un effetto trainante sulla domanda interna. Gli stessi investimenti privati sono carenti, proprio a causa di uno sviluppo concentratosi esclusivamente sull’export. La competitività tedesca nell’export genera profitti che l’economia interna, a causa della debolezza della domanda, non è in grado di produrre. Le imprese esportatrici profittano della rendita di posizione derivante dal regime di cambi fissi che determina un deficit di competitività da parte dei paesi importatori dell’eurozona e pertanto esse sono disincentivate ad investire. Alla carenza di investimenti privati fa riscontro l’incremento del tasso di risparmio tedesco, tra i più alti del mondo. Ma larga parte del risparmio privato è convogliato in investimenti esteri. Tale propensione all’investimento estero è stata indirizzata dal sistema bancario tedesco nel recente passato in larga parte verso i mutui subprime o nei titoli immobiliari spagnoli e la crisi del 2008 ha determinato un collasso bancario sanato solo dal massiccio intervento pubblico. Ancor oggi le banche tedesche sono a rischio, non vi è alcuna garanzia di trasparenza circa i titoli tossici detenuti dalle banche stesse. Solo un rilancio degli investimenti interni potrebbe invece indirizzare il risparmio tedesco verso impieghi produttivi per la crescita. Inoltre, il modello economico liberista della Merkel ha prodotto negli anni sfiducia una diffusa sfiducia futuro, testimoniata dalla crisi demografica che potrebbe creare in avvenire carenze nel sistema produttivo e gravi problemi al sistema previdenziale, con l’invecchiamento della popolazione. Le problematiche sociali sono state quasi assenti nella campagna elettorale. Si sono vagamente promesse l’introduzione dei minimi salariali e la fissazione di un tetto agli affitti.

L’elezione della Merkel non ha prodotto l’euforia borsistica attesa. La virtuosa stabilità tedesca non è garanzia né di sviluppo né di solidarietà per l’Europa, che invece muore di rigore finanziario e recessione economica. Si è plaudito alla sconfitta dell’euro - scetticismo di “Alternativa per la Germania”, che resta però radicato in parte della popolazione tedesca che vuole un ritorno della politica e dello stato nazionale. Il bund decennale tedesco resta oltre il 2%. I tassi sul debito pubblico, al di là delle virtuose politiche finanziarie, registrano una crescita in tutta l’eurozona, perché è l’euro stesso ad essere affetto da problemi genetici: non è valuta di riserva alternativa al dollaro, e non ha un prestatore in ultima istanza, non essendo una valuta di uno stato sovrano. Pertanto l’euro non potrà mai offrire credibilità e stabilità agli investitori nei mercati internazionali. 

La posizione italiana è sempre la stessa. L’Italia sperava che da queste elezioni scaturisse un ammorbidimento delle posizioni tedesche in sede europea, speranze vanificate dalla riconferma trionfale della Merkel. Letta si è invece compiaciuto della vittoria della Merkel, che potrebbe costituire un fondamentale sostegno al proprio governo in Europa. L’Italia riconferma il proprio status di subalternità dinanzi ad una Europa a guida tedesca. Il nostro paese, privo da sempre di una politica estera, continua ad affidare le proprie speranze alla clemenza dei propri oppressori, subordina le politiche economiche della classe dirigente al vincolo esterno, quale elemento salvifico della propria incapacità e non volontà di assumersi le proprie responsabilità nel governo interno e nei rapporti con i partners europei. Non si considera che l’elezione della Merkel è un problema tedesco, cioè di un paese sovrano che opera le proprie scelte. Le condizioni vessatorie imposte all’Italia, che comportano la schiavitù del debito e la recessione economica altro non sono che la conseguenza della incapacità italiana di assumere in Europa un ruolo autonomo, di confronto e di contrasto con gli altri paesi. L’Italia conferma il proprio deficit di sovranità interna ed esterna, il suo europeismo acritico e subalterno riflette la sua congenita mancanza di sovranità, la quale presuppone l’anteporre l’interesse nazionale a qualsivoglia imposizione di vincoli esterni che comportino, oltre alle progressive cessioni di sovranità politica, l’adozione di misure economiche che pregiudichino il suo sviluppo produttivo e violino le norme costituzionali poste a salvaguardia dei diritti sociali dei cittadini.