Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / La democrazia della mezzaluna

La democrazia della mezzaluna

di Carlo Bertani - 16/10/2005

Fonte: disinformazione.it


La democrazia della mezzaluna
E’ possibile conciliare Islam e democrazia senza seppellire tutto con bombe e missili?
di Carlo Bertani

 “Ogni forma che tu vedi ha il suo archetipo nel mondo senza spazio.
Se la forma perisce, non importa, l'originale è eterno."
Jalad ud Din Rumi – Persia – secolo XIII

Il 30 settembre si è svolto a Venezia un convegno sul tema “islam e Democrazia”, dove sono intervenuti i principali leader politici italiani e molti studiosi dei rapporti fra Occidente ed Islam.
Per la prima volta – sui media nazionali – è apparsa l’ipotesi che la democrazia non sia un ideale univoco, bensì un metodo che è possibile declinare in modi diversi, secondo il percorso storico dei popoli e le loro necessità: sembrerebbe l’uovo di Colombo, eppure dobbiamo registrare che l’affermazione è del tutto nuova per le implicazioni politiche che racchiude.
La nuova tesi contiene in sé la completa confutazione delle varie teorie sullo “scontro di civiltà”, e dunque – se addirittura il Presidente della Camera, Casini[1], pare aver compreso il concetto – pensatori e scrittori come Huntington o la Fallaci si ritrovano al termine di un percorso senza sbocco.
La giustificazione (morale e politica) della guerra al terrorismo di Bush poggia proprio su questi pilastri: dimenticate le inesistenti armi di distruzione di massa di Saddam ed il falso coinvolgimento dell’Iraq negli attentati dell’11 settembre, non rimane altra motivazione – per rimanere in Iraq – che quella d’installarvi una democrazia pensata ed applicata sul modello occidentale.

Ovviamente si tratta di una tesi molto debole, giacché sappiamo che il principale obiettivo di Bush era ed è il diretto controllo delle seconde riserve petrolifere del pianeta, e l’indiretto controllo delle prime, ovvero dell’Arabia Saudita.
Dalle 14 basi aeree irachene occupate gli USA controllano circa il 63% delle riserve di petrolio del pianeta[2]: se si aggiungono ad esse quelle del Caucaso (che rientrano nel raggio d’azione dei cacciabombardieri dislocati nel Kurdistan iracheno), parlare di democrazia è veramente un parlar vano.
Il passaggio del controllo del petrolio iracheno dalle compagnie francesi e russe (che ne detenevano, sotto Saddam, il 90% dei contratti) a quelle americane è stato il vero motivo dell’invasione. Le ragioni del prolungarsi della guerra risiedono proprio nella causa primigenia; nessuno appoggia Washington perché ha introdotto un nuovo concetto negli equilibri petroliferi: chi è più forte militarmente si prende l’intero piatto senza lasciare agli altri nemmeno le briciole.
Una simile rottura del multilateralismo petrolifero non poteva che scatenare reazioni violente: meditiamo che, a due anni e mezzo dall’inizio della guerra irachena, nessun movimento di resistenza riesce ad opporsi ad una forza d’occupazione se non riceve sostanziosi rifornimenti d’armi, denaro e logistica dall’esterno.
Proprio per mascherare la sotterranea guerra del petrolio in atto, l’amministrazione USA tenta d’ammantare con proclami di sbandierata democrazia l’occupazione neocoloniale dell’Iraq; non è una novità: tutte le amministrazioni coloniali del pianeta cercarono di mistificare la rude realtà del colonialismo con valori benevoli, quali elezioni prive d’effettivo valore e “governi locali”. Si pensi che i certificati elettorali – in Iraq – vengono distribuiti insieme alle tessere annonarie per l’acquisto del pane.
Anche l’ultima scusa – il paravento dell’intervento militare necessario per favorire lo sviluppo democratico – è quindi una bugia dalle gambe corte, anzi, cortissime.

Se partiamo dal pensiero dei neocon americani, proprio da Huntington – colui che ha coniato l’icona dello “sconto di civiltà” – ci ritroviamo in una landa desolata che non ha soluzioni. Nel pensiero dei neocon l’Islam è un residuo storico, assolutamente privo d’importanza nel panorama della globalizzazione, che deve scomparire come cultura per essere sostituito da nuovi dirigenti che applichino alla lettera i dettami della politica occidentale, punto e basta. Il pensiero di Huntington, di Cheney, di Rumsfeld e di Wolfowitz non stupisce: nasce da associazioni come New American Century[3] ed i Nashville Agrarians, ovvero da chi ancora tiene in bella evidenza nel proprio studio la bandiera confederata.
Più arduo – ma non incomprensibile – è capire il “sacro fuoco” che spinge la Fallaci a prospettare la funerea Eurabia, la riconquista musulmana dell’Europa: il timore della Fallaci incrocia quello di chi ha paura di perdere la propria identità nei processi d’internazionalizzazione dell’economia e della cultura. Chi non accetta lo scambio d’informazioni (e di cultura) del villaggio globale di Internet, non può accusare la globalizzazione per i mutamenti in atto (si confinerebbe – isolato – in una prospettiva antistorica) e dunque l’immigrazione viene caricata di significati negativi che, sostanzialmente, non ha, mentre molte tensioni sarebbero da ricercare nell’incapacità relazionale che agita popolazioni sempre meno vitali (e prolifiche) come quelle europee.
Il teorema della Fallaci è quindi altrettanto rozzo quanto quello di Huntington: si potrebbe affermare che sono due prodotti culturali “pre-confezionati” per due distinti continenti, l’uno per una distratta America, l’altro per una timorosa Europa.
Se invece si desidera affrontare seriamente il problema della democrazia nel mondo musulmano, queste illogiche e semplicistiche affermazioni non bastano nemmeno per introdurre il problema, figuriamoci se possono risolverlo.

C’è invece un reale disagio del mondo musulmano, una sorta d’isolamento che inizia molto tempo fa: non si tratta – come molti ritengono – di un prodotto dell’ultimo secolo, bensì dell’evidente concretezza di un arresto evolutivo che è iniziato con il decadimento del mondo islamico medievale.
Inariditosi soprattutto per la dispersione del potere in mille califfati, il mondo musulmano mantenne una relativa unitarietà proprio nel concetto di Umma, ovvero della comunità dei fedeli uniti dallo stesso credo che – a differenza dell’Occidente – non introduce nessuna separazione fra nazione, popolo e dottrina.
Dopo la caduta dei grandi califfati ommiadi ed abbasidi, e poi nella diaspora dei samanidi, selgiuchidi, mamelucchi, fatimidi…è racchiusa tutta la tragedia storica dell’Islam. Lo stesso Impero Ottomano – così temuto in Occidente – aveva già esaurito la forza propulsiva dell’Islam originario: era soltanto un impero fondato su una discreta amministrazione ed una feroce burocrazia. Alla comparsa dell’Impero Britannico in pratica si estinse, anche se formalmente durò fino alla prima guerra mondiale, consentendo però alla nuova Turchia – forgiata dalla mente di un grande statista, Kemal Ataturk – d’approdare alla sponda europea.
L’accusa spesso avanzata da molti studiosi islamici all’Occidente è quella di riconoscere il valore e l’importanza storica della civiltà musulmana per poi – nel nome di una imperante modernità – sostanzialmente negarlo.

C’è del vero in questa affermazione, inutile negarlo giacché, se si vogliono introdurre nell’analisi i distinti percorsi storici, non si può dimenticare che la Storia è una sola.
Noi europei siamo sorpresi dalla superficialità con la quale si studia la storia nelle scuole americane, laddove si conferisce massima importanza agli ultimi tre secoli – in pratica la storia americana – e si concede assai poco ai rimanenti millenni.
Tuttavia – seppur in minor misura – anche noi europei cadiamo nel medesimo errore: i cosiddetti “secoli bui” – dalla caduta di Roma al Rinascimento – sono “bui” per l’Occidente, non per il mondo musulmano. Negli anni che intercorsero fra l’Egira (622 d. C.) ed il XIII secolo, il progresso nella letteratura, nelle arti e nelle scienze avvenne quasi soltanto del mondo musulmano.
L’errore nel quale spesso cadiamo è quello di considerare “storia” di quei secoli solo i Longobardi e Carlo Magno, mentre i rivolgimenti europei dell’epoca non furono niente rispetto a ciò che avvenne – parallelamente – da Fez ad Isfahan.
Le cronache dell’epoca ci consegnano una civiltà vitale, ricca di un dibattito filosofico interno ad un Islam che oggi parrebbe irriconoscibile. Sappiamo che la culla della scienza fu il pensiero greco, ma la scuola dove crebbe e divenne adolescente fu proprio la civiltà islamica, nei secoli a cavallo dell’anno mille d. C.
Già nel 794 d. C. fu creata a Baghdad la prima manifattura per la fabbricazione della carta e nell’anno 891 d. C. c’erano in città circa 100 librerie: poeti, filosofi, scienziati ed artisti popolavano le corti ed i palazzi dei ricchi mercanti; insomma, anticiparono di qualche secolo la cultura cortese europea e – per molti aspetti – fu il loro Rinascimento.
Ciò che stupisce è sapere che il dibattito filosofico era ricchissimo, e spaziava dai sostenitori dell’applicazione letterale del Corano fino a correnti che potremmo definire Illuministe – “solo la logica (kalam) può riconciliare in pieno ragione e fede” [4] – e addirittura a circoli che rasentavano l’ateismo[5]. Abu-l-Hasan Alì al-Masudi – un enciclopedista – nel suo Libro del sapere ipotizzò l’evoluzione «dal mondo minerale a quello vegetale, dal vegetale all’animale, e da quest’ultimo all’uomo». L’affermazione, che in Occidente lo avrebbe condotto direttamente al rogo, gli costò soltanto l’esilio per dieci anni al Cairo.

Gli Arabi studiarono la filosofia greca e gli autori latini: il tutto – in una Baghdad gaudente, colta e libertina – era condito da un consumo di vino che si misurava in migliaia di barili l’anno; ci si pentiva, ma si beveva.
I libri di medicina di Abu Bekr Muhammad Al-Razi (latinizzato in Rhazes) furono testi ufficiali nelle università mediche inglesi dal 1498 fino al 1866, stampati in ben quaranta edizioni.
I numeri che ancora oggi usiamo sono quelli arabi (che i matematici islamici importarono dall’India), giacché la matematica non sarebbe andata molto lontano con la numerazione romana, ed addirittura il termine “algoritmo” – che è alla base delle teorie informatiche – deriva da un matematico di nome Al-Khwarizmi, che nel 825 d. C. pubblicò un libro dal titolo Algoritmi (il suo nome latinizzato) de numero Indorum.
Proprio dai nomi possiamo comprendere la struttura delle società arabe: il patronimico appare spesso nel nome esteso, mentre l’indicativo della professione appare più raramente (gli Al-Hakim – in ogni modo – corrispondono in pieno ai nostri Del Giudice).
Ciò che non manca mai invece, nel nome esteso, è l’appartenenza al clan: Saddam Hussein fu costretto ad abolire la forma estesa del nome, giacché tutto il suo entourage portava quello degli Al-Tikriti (provenienti dalla città di Tikrit) e, anche nell’Iraq di Saddam, troppo nepotismo poteva nuocere.
La base della società islamica è quindi il clan, scomparso da secoli in Occidente: ciò che dobbiamo domandarci – se veramente vogliamo trovare una via d’uscita alle semplicistiche teorie di Huntington e della Fallaci – è se la struttura dei clan può generare una forma di partecipazione democratica alla vita sociale.

Potremmo anche scoprire che alcune forme d’aggregazione sociale, in Occidente, non sono poi così distanti da quelle dei clan, ma procediamo con ordine.
La prima contraddizione che è saltata agli occhi dalle vicende irachene riguarda le trattative per liberare gli ostaggi presi prigionieri dalla guerriglia: se, da un lato, l’amministrazione americana sta cercando di creare istituzioni ricalcate sul modello occidentale, è altrettanto vero che nelle trattative per la liberazione degli ostaggi l’unica autorità presa seriamente in considerazione è stata ed è il Consiglio degli Ulema.
Gli Ulema sono sostanzialmente dei capitribù, l’espressione di maggior potere di ciascun clan: lo stesso fenomeno avvenne in Afghanistan dopo la caduta dei Taliban, quando – per creare una embrionale forma di rappresentatività – fu chiamata a riunirsi la Loya Girga , ovvero il corrispondente afgano del Consiglio degli Ulema iracheno.
La Loya Girga iniziò a dibattere i futuri assetti afgani, ma lo fece con tempi e modi che non furono graditi – ma soprattutto non compresi – dagli USA, tanto che si preferì iniziare un percorso democratico di stampo occidentale.
Subito dopo la caduta dei Taliban, il paese godette di relativa calma: ciò avvenne innegabilmente a causa della sconfitta militare degli studenti col mitra, ma anche perché gli afgani assegnavano alla Loya Girga valore di rappresentatività.
Man mano che il consiglio tribale perdeva importanza e si formavano le prime istituzioni sul modello occidentale, la lotta intestina fra le fazioni afgane riprese, inclusa – ovviamente – la guerriglia contro le truppe occidentali.

Se, da un lato, sono senz’altro valide altre giustificazioni per la ripresa degli scontri in Afghanistan (parecchi stati dell’area ed alcune potenze internazionali “soffiano sul fuoco”), dobbiamo ammettere che è stato sottratto agli afgani uno strumento di gestione del potere nel quale si riconoscevano. Attualmente, il Presidente Karzai regna soltanto su Kabul e dintorni, mentre nel resto del paese spadroneggiano gli ex “signori della guerra” come il generale Dostum (un ex sergente dell’Armata Rossa), ed i Taliban controllano nuovamente le città del sud-est.
Visti i pessimi risultati prodotti dalla semplice “esportazione” della democrazia occidentale – i successi sbandierati da Bush, Blair e Fini sono soltanto propaganda, giacché il vero successo sarebbe l’arresto del quotidiano fiume di sangue che è, invece, aumentato – perché non cercare altre vie? Sarebbe incongruo partire proprio dalle autorità locali riconosciute dalla popolazione per installare governi realmente identificabili dalla popolazione, anche se li riterremmo non completamente democratici secondo i nostri standard?
Potremmo anche chiederci se i nostri meccanismi democratici sono proprio così puri e “passati nella candeggina”: non dimentichiamo che Winston Churchill definì la democrazia parlamentare “il meno imperfetto” dei sistemi di governo.
In Italia, da quasi cinque anni, governa la tessera P2 n° 1816 [6] Silvio Berlusconi che applica molti punti del programma che fu - a tutti gli effetti - un'associazione che non aveva nessun legame con la vita democratica della nazione, eppure accettiamo lo stridore della situazione senza troppe proteste.

Nella P2 erano riuniti individui che non avevano un comune patrimonio ideale (sul modello illuminista), bensì politici, militari, banchieri ed una varia umanità che era cementata solo dalla difesa d’interessi consolidati, con l’obiettivo di stravolgere la Costituzione e le Istituzione laddove i loro interessi entravano in collisione proprio con le garanzie della sbandierata democrazia occidentale.
Nemici della P2 erano le organizzazioni dei lavoratori (da depotenziare e controllare), lo stesso Parlamento (ridotto a mero strumento d’approvazione per leggi scritte altrove), la Presidenza della Repubblica (sottratta al suo compito di controllo costituzionale per trasformarla in potere esecutivo): insomma, la riforma costituzionale che il governo di centro destra cerca d’approvare in barba a tutte le perplessità ed i timori di molti costituzionalisti.
Che cosa fu (o cos’è?) quindi quell’associazione? Un clan che difendeva in modo violentemente autocratico gli interessi d’alcuni settori dell’economia e della politica. Un clan che non nasceva dal legame del sangue, ma da quello del comune interesse, contro tutto e contro tutti coloro che cercavano di contrastarlo.
Lasciamo lo Stivale e spicchiamo un salto di là dell’Atlantico: come funzionano il Congresso ed il Senato degli Stati Uniti?
Grazie ad un meccanismo elettorale maggioritario, ogni Stato invia uno o più rappresentanti a Washington, i quali trovano comune appartenenza secondo se giungono dalle file dei Democratici o dei Repubblicani? Fino ad un certo punto.
Spesso, dagli USA giungono notizie di senatori e congressisti che votano all’opposto del proprio partito, bloccando od approvando leggi proposte dal Presidente, repubblicano o democratico esso sia.

Come si spiegano simili comportamenti, che all’apparenza sembrano strampalati? L’unica spiegazione è il fenomeno del lobbysmo.
Approdato a Washington, l’eletto entra subito a far parte di una commissione (Esteri, Ambiente, Energia, Agricoltura, ecc.) dove incontra ed intrattiene rapporti con gli altri componenti della commissione e, soprattutto, con il potente presidente.
I lobbysti sanno d’aver bisogno di copiosi fondi per le costosissime campagne elettorali, e per dare la scalata al potere (divenire Governatori o Presidente): inizia qui una vantaggiosa simbiosi fra le aziende, le holding finanziarie ed industriali ed i politici, una continua trattativa per giungere – infine – al reciproco beneficio. Peccato, però, che il senatore americano occupi quel posto per rappresentare i diritti dei cittadini del Kansas o del Montana – di tutti i cittadini del Kansas o del Montana – e non degli interessi dell’industria del tabacco, di General Motors, dell’industria armiera o di Microsoft (interessi che possono coincidere o collidere con quelli dei cittadini rappresentati).
Cosicché, la convergenza della lobby delle armi con la potente National Rifle Association, fa sì che negli USA non si riesca a porre un freno all’acquisto ed al possesso smodato ed irragionevole d’armi da fuoco.
Il cosiddetto “esercizio della democrazia” si riduce – infine – in una continua lotta fra i contrastanti interessi delle lobbies: ancora dei clan con struttura piramidale – non uniti dal legame del sangue – bensì dal comune interesse che lega l’operaio dell’industria automobilistica (spesso tramite sindacati collusi a gruppi d’interesse, mafiosi e non) agli interessi dell’azienda, a quelli del gruppo, fino alla commissione o sotto-commissione dell’industria automobilistica ed ai corrispondenti rappresentanti politici.

Immaginiamo d’ampliare la prospettiva, ed appare un colossale gioco internazionale costituito da continue lotte fra i petrolieri e l’industria nucleare, fra la Marina e l’Aeronautica, fra Monsanto e Dow Chemical e così via: eppure, ci sciacquiamo la bocca con il termine “democrazia” ed irridiamo il metodo musulmano del clan.
Neppure possiamo nascondere che il lobbysmo, i clan mafiosi e le associazioni segrete rappresentano una degenerazione della vera democrazia: sarebbe scorretto non ammetterlo, anche se da questa analisi i nostri sistemi così “democratici” ne escono un po’ con le ossa rotte.
Gli islamici si posero il problema?
In qualche modo sì, ma è molto difficile stabilire se l’Occidente non abbia avuto parte nella necrosi di quei tentativi: nel 1928 – ad Ismailiya, in Egitto – uno sconosciuto insegnante, Hassan Al-Banna, fonda la Fratellanza Musulmana , un’organizzazione che – nelle intenzioni – doveva cercare proprio una soluzione per conciliare l’Islam con il mondo moderno
L’associazione appoggia il colpo di stato di Gamal Abdel Nasser, ma non viene ripagata con buona moneta, tanto che uno dei leader dell’organizzazione, Said Qutb, viene impiccato proprio dai militari di Nasser: nell’Egitto che cercava alleanze con l’URSS c’era evidentemente poco spazio per l’Islam.
Seguono varie vicissitudini[7]. ed una diaspora che coinvolge molti paesi islamici: basti pensare che uno dei più importanti ex esponenti della Fratellanza Musulmana è il dottor Ayman Al-Zawahiri, oggi l’ideologo di Al-Qaeda.

Com’è possibile che, da un gruppo che si proponeva di conciliare Islam e modernità, sia scaturito il “numero due” di Al-Qaeda?
La Fratellanza Musulmana fu considerata, sin dalla sua nascita, un pericolo per tutti: dal socialismo pan-arabo di Nasser ai conservatori wahabiti sauditi, dai re “inglesi” di Giordania alla “dinastia” degli Assad in Siria; oltre, ovviamente, dalle ex potenze coloniali.
Nessuno volle mai sentir parlare di un processo evolutivo del mondo musulmano, un percorso autoctono per uscire dallo stallo dei secoli trascorsi in piena solitudine – l’infinito Medio Evo islamico – dopo la fine dei grandi califfati.
Purtroppo, dopo secoli d’indifferenza ed emarginazione, l’incontro con l’Occidente avvenne in epoca coloniale: dapprima fu l’Impero Britannico ad occupare parecchi paesi islamici, poi tutti iniziarono a rincorrere il gran gioco petrolifero.
Si guarda a Teheran come ad un grave pericolo, dimenticando che proprio in Iran uno stato musulmano sta cercando – faticosamente, pericolosamente, contraddittoriamente – di conciliare l’antico dilemma della separazione dei poteri fra Stato e Chiesa. Un processo che richiese secoli – in Occidente – per giungere ad una composizione e che ancora oggi suscita fermenti d’incomprensione (ad esempio, l’intervento del cardinal Ruini sui PACS). Oggi è Bush a lanciare l’anatema contro Teheran, colpevole di cercare a suo modo un percorso evolutivo[8]. Non intendiamo affermare che la democrazia regna in Iran, sarebbe assurdo, ma vogliamo ricordare che i “grandi alleati” (o forse, “ex-alleati”?) degli USA – ovvero i sauditi – continuano a tagliare la testa con la spada ai condannati a morte e non hanno nemmeno uno straccio di Parlamento consultivo.

A nessuno interessa un fico secco della democrazia nel mondo musulmano: anzi, è vista dalle holding internazionali dell’energia come fumo negli occhi. E’ bastato che Gheddafi deponesse la spada della ricerca nucleare e si dimostrasse più sensibile ai voleri delle società petrolifere per farlo rientrare, con tutti gli onori, nel salotto buono della politica internazionale. Qualcuno ha chiesto qualcosa sul fronte della democrazia? Le recenti elezioni in Egitto hanno visto una decina di candidati “correre” a fianco di un Hosni Mubarak che deteneva tutte le leve dei media: qualcuno si è scandalizzato?
Quando a vincere elezioni-farsa era Saddam Hussein si promettevano bombe, se invece lo fa Mubarak si promettono finanziamenti e contratti d’ogni tipo.
Insomma, se si desiderasse veramente promuovere la democrazia nel mondo musulmano, si potrebbe iniziare ad analizzare – con rispetto ed attenta analisi – le forme tradizionali di partecipazione alla vita pubblica, giacché non è possibile condannare un miliardo d’esseri umani soltanto perché non hanno vissuto (se non come forma embrionale di pensiero, e più di mille anni fa) una stagione illuminista.
Le strutture democratiche – tenendo conto dei diversi percorsi evolutivi – potrebbero essere trovate: sistemi bicamerali dove una delle due assemblee sia l’espressione dei clan, oppure monocamerali con una quota degli eletti riservata ai clan: il problema non è la forma, ma l’accettare un principio che sarebbe compreso dalle popolazioni.

Spesso, chi non s’allinea con l’imperante assioma della guerra al terrorismo e dell’acritica diffusione della democrazia nel mondo musulmano, viene cacciato d’imperio nel calderone di chi difende il terrorismo, dimenticando che da quel turgido contenitore sgorga solo sangue e nessuna idea.
Ciò avviene perché chi tenta di seguire la strada dell’intelligenza si pone su un percorso arduo, pieno d’insidie, a volte contraddittorio e che presta il fianco a critiche strumentali, ma da quel dibattito possono nascere vere soluzioni, non le semplicistiche teorie che ci hanno condotti agli attuali sabba di morte.
Più facile parlare di “scontro di civiltà” e di “rabbia ed orgoglio”: fra l’altro, pare che renda un sacco di soldi.