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Il Volto di Qana (XIII)

di Miguel Martinez - 28/07/2006

 

Vera Pegna è una cosmopolita autentica, nel senso del post precedente.

Nata in un'antica famiglia ebraica spagnola che trovò rifugio 
dalle persecuzioni a Livorno, e si trasferì nell'Ottocento ad Alessandria d'Egitto, non si presenta come "ebrea pacifista". E fa bene, perché la sua famiglia è radicalmente laica da diverse generazioni, e la sua identità è insieme mediterranea e universale.

Troppo spesso, il termine "ebreo pacifista" è riferito a persone che credono che la "sicurezza d'Israele", bene supremo e indiscutibile, si ottenga meglio evitando gli eccessi di violenza verso i palestinesi e gli altri vicini. E troppo spesso l'"ebreo pacifista" viene invocato da una sinistra terrorizzata di essere accusata di "antisemitismo": l'"ebreo pacifista", cui la sinistra conferisce , per puri motivi etnici, un'aura non sempre meritata, diventa così la toppa per risolvere un problema che si potrebbe affrontare molto più semplicemente con una sana risata.

In questo articolo, lontano dai soliti scritti buonisti sul "conflitto israelo-palestinese", che evitano sempre di toccare i temi di fondo, Vera Pegna va alla radice della questione sionista. E' un testo da leggere con molta attenzione.

Nel 1968 un giornalista e scrittore israeliano, Marc Hillel*, scrisse che per Israele la pace avrebbe rappresentato un pericolo. Preoccupato per il futuro del suo paese, Hillel si chiedeva se una Israele in pace non corresse il rischio di vedere scomparire gli entusiasmi e gli aiuti delle comunità ebraiche europee e americane, pronte a ogni nuova guerra a celebrare la vittoria e ad organizzare collette ma sempre meno disposte a favorire la corrente di immigrazione indispensabile alla sua sopravvivenza.

Pochi ricordano le origini del progetto sionista della Grande Israele che con l'antica aspirazione sionista di coltivare in Palestina un centro di raccoglimento e di preghiera ha in comune solo il nome. Fu nell'Europa antisemita dei ghetti, dei pogrom e dell'affare Dreyfus che i leader sionisti, convinti che gli ebrei erano destinati a essere perseguitati, lanciarono il progetto tutto politico della Grande Israele. Lo slogan che scelsero fu «a un popolo senza terra una terra senza popolo».

Che la Palestina, allora sotto mandato britannico, fosse popolata dai palestinesi lo si sapeva. Però che gli ebrei di tutto il mondo formassero un unico popolo non lo si era sentito dire dai tempi dell'Antico Testamento. Ma nell'Europa degli stati nazione e del colonialismo per avere uno stato ci voleva un popolo e nella logica eurocentrica (viva allora come oggi) fare degli ebrei perseguitati d'Europa un sol popolo insieme a quelli dello Yemen, di Baghdad, del Cairo o di New York suscitò poche perplessità.

Ebbe invece ricadute pesanti sulle comunità israelitiche dei paesi arabi, trovatesi ad essere popolo, quindi accomunate da un unico destino, con gente di cultura diversa, che parlava un'altra lingua e aveva alle spalle una storia di sofferenze e di persecuzioni.

Gente che, come diceva mio nonno, «camminava rasentando i muri». Quanto l'arrivo in Israele fu catastrofico per gli ebrei arabi lo dicono bene questi versi cantati dagli iracheni fatti immigrare in Israele con le buone o con le cattive: «Peccato, peccato. Peccato che ci hanno messi sull' aereo. Se fossimo partiti sull'asino non saremmo ancora arrivati».

Nella sua Legge fondamentale Israele ha scritto che è lo stato degli ebrei di tutto il mondo e ne stabilisce il «diritto di ritorno». Si tratta di quindici milioni di persone che, per fortuna di tutti, non desiderano minimamente trasferirsi in Israele. Al loro posto però si aprono le porte a immigranti russi, polacchi o rumeni non ebrei - ma europei e bianchi - che immigrando in Israele contribuiscono al completamento del progetto sionista. E ciò nonostante il parere rabbinico, divenuto requisito ufficiale per ottenere la cittadinanza israeliana, secondo cui è ebreo chi è di madre ebraica. Quale requisito migliore per connotare uno stato democratico? E guai a dire che Israele non lo è. Guai a dire che questo criterio è lo stesso che veniva usato dai nazisti per mandare dei disgraziati nei campi e nei forni.

Ai palestinesi è stato chiesto di cambiare la loro carta costituzionale e di rinunciare ufficialmente a riconquistare tutta la Palestina. Lo hanno fatto. Perché non chiedere agli israeliani di cambiare la loro Legge fondamentale e di rinunciare a essere lo stato di tutti gli ebrei del mondo? Ai palestinesi viene chiesto di riconoscere lo stato d'Israele, ma quale, con quali confini? Muro compreso? I palestinesi sanno che ciò significherebbe accettare specularmente i confini del loro futuro stato che si estenderebbe su meno del 20% della Palestina storica e sanno che perderebbero per sempre la possibilità di avere Gerusalemme - o parte di essa - come capitale. Ricordo che nel 1947 l'Assemblea generale dell'Onu aveva attribuito ai palestinesi il 45% della Palestina e aveva previsto per Gerusalemme lo status di città internazionale.

Quando Hillel scriveva, il progetto della Grande Israele era in pieno svolgimento. Da allora sono trascorsi 38 anni, più di una generazione, e sul progetto sionista è calato il silenzio. Nessun partito o leader politico israeliano se ne è mai dissociato, tranne il piccolo partito comunista. Dunque delle due l'una: o i leaders politici israeliani e i loro partiti dichiarano ufficialmente compiuto il progetto sionista con lo stato d'Israele entro le frontiere del 1967 oppure dobbiamo constatare con angoscia che il progetto è ancora in svolgimento.

Pertanto è legittimo chiedersi se ad esso non siano funzionali sia i tentativi fallimentari di giungere ad accordi di pace sia la realtà sul terreno (costruzione continua di nuovi insediamenti e di nuove strade che spezzettano il territorio palestinese, discriminazioni e vessazioni dei palestinesi israeliani...). Nonché il sequestro da parte israeliana di 64 parlamentari di Hamas e il bombardamento di Gaza non appena si seppe che autorevoli dirigenti di Hamas e di Al Fatah detenuti nelle carceri israeliane si erano dichiarati disposti a riconoscere la legittimità dell'esistenza di due stati.

E ancora: pochi giorni dopo, in risposta al lancio di razzi e al rapimento di due soldati israeliani da parte del Hizbollah, l'esercito israeliano ha raso al suolo le infrastrutture civili del Libano meridionale, una parte di Beirut, l'aeroporto e le centrali elettriche. In totale dispregio della vita dei civili dato che un futuro di pace con loro non interessa, come non interessa con i palestinesi. Il Libano non rientra nei confini del progetto sionista, è vero, ma l'uso spropositato delle armi rientra nel concetto che la poipace per Israele è un pericolo perché l'industria bellica israeliana, che produce sia per uso proprio sia per l'esportazione, dà lavoro direttamente o indirettamente a una buona parte della popolazione attiva di questo paese.

Ritengo che possiamo fare avanzare il dibattito facendo emergere le cause prime del conflitto. Almeno parliamone. Parliamo dell'occupazione, parliamo del progetto sionista e della difficoltà oggettiva che avrebbe lo stato d'Israele a convertire la sua fiorente industria bellica in una industria di pace. Parliamone, se vogliamo rendere meno illusoria la prospettiva di pace in Medio Oriente.

* Marc Hillel, Israël en danger de paix, Fayard, Paris 1968

Nel progetto israeliano in pericolo è la pace
il manifesto
25 Luglio 2006