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La via indiana all'agricoltura biologica

di redazionale - 31/07/2006



 

"E' questione di sopravvivenza per noi che lavoriamo duramente nei campi"


All'inizio di luglio, dopo una nuova ondata di casi di suicidio tra gli agricoltori, il primo ministro indiano Manmohan Singh ha girato per lo stato del Maharashtra colpito dalla siccità e ha annunciato un pacchetto di sostegni per l'agricoltura pari a 840 milioni di dollari: è stato il primo intervento sostanzioso da parte del governo federale a favore degli agricoltori presi nel circolo vizioso di raccolti falliti e di indebitamento per acquistare sementi, fertilizzanti, pesticidi. La rete indipendente Human Rights Law, che analizza le cause delle morti violente dei contadini, ritiene che solo negli ultimi cinque anni i suicidi siano stati oltre diecimila, concentrati in stati agricoli importanti come Punjab, Karnataka, Maharashtra, Kerala e Andhra Pradesh.

Alla ricerca di semi di speranza - è il caso di dirlo - l'agenzia internazionale Inter Press Service ha mandato un reporter nella fertile valle dell'Uttaranchal, dove la maggioranza dei contadini è scettica circa i semi brevettati e distribuiti dalle multinazionali, e a proposito degli inputs chimici il cui uso massiccio accompagna la crescita di quei semi stranieri. «Continuo a far crescere varietà tradizionali senza usare fertlizzanti e pesticidi, scambio semi con altri coltivatori e partecipo agli sforzi per preservare la foresta», ha detto Sivdeyi Devi, del villaggio Jardhar. Nell'Uttaranchal, a differenza di altre zone dell'immenso paese, i coltivatori sono coscienti dello sfruttamento e della morte che gli usurai recano con sé, e conoscono il valore della resistenza organizzata, iniziata negli anni 70 dal movimento Chipko per il salvataggio delle foreste minacciate dal taglio.
Un'altra contadina della zona, Sudesha Devi del villaggio Rampur, ha spiegato a Ips che «il movimento per salvare gli alberi è poi passato a salvare i semi»; Sudessha è un'attivista su entrambi i fronti, ed è stata in carcere due volte durante il Chipko. La sua spiegazione per la scelta di coltivare sano e biologico è semplice: «E' questione di sopravvivenza, per noi che lavoriamo duramente nei campi».

Da due decenni i servizi di divulgazione agricola del governo cercano di scoraggiare l'«antiquata» abitudine di usare semi non acquistati e invece conservati dalla stagione precedente; e di indurre i coltivatori a seminare soia, invece delle policolture che minimizzano i rischi e forniscono una ricca varietà di miglio e legumi. Ma, spiega Jardhari, uno dei coordinatori del Save the Seeds Movement (Ssm), i coltivatori hanno fatto di testa loro. E nella zona non ci sono stati casi di suicidio. Sunderlal Bahuguna, gandhiano, storico riferimento degli ambientalisti rurali e attivo fin dal Chipko, indica il segreto di una collaborazione positiva fra il governo e chi vive di agricoltura: che gli scienziati ed esperti delle istituzioni siano più contadini e che i contadini siano più scienziati.

Un nuovo rischio è rappresentato dal Seeds Bill in discussione al Parlamento che mira a permettere alle multinazionali di trattare direttamente anche con i piccoli agricoltori per promettere loro mari e monti; una «licenza di uccidere», secondo gli attivisti, che potrebbe distruggere la grande biodiversità di semi e colture, e insieme l'indipendenza di 700 milioni di contadini tuttora al lavoro in India.

Il movimento Ssm ha coperto con i padyatra (marce a piedi) varie aree dello stato himalayano, scoprendo che le varietà tradizionali sono in genere preservate: in passato, nei periodi di carestia si preferiva tirare la cinghia ai limiti dell'inedia pur di non mangiare i semi stoccati in appositi spazi, i tomris, e che dovevano servire per la stagione successiva. Il Ssm funge anche da scambiatore di semi - miglio, cereali, fagioli, erbe medicinali - fra un gruppo e l'altro di coltivatori residenti in villaggi lontani. Gli attivisti sono convinti che il progresso sostenibile dell'agricoltura collinare sia possibile solo conservando queste varietà autoctone e usando sistemi colturali tradizionali.

Ma anche in quell'isola felice non tutti fanno così: c'è chi, indotto da prospettive di guadagni di breve periodo e dai sussidi governativi per le sementi «esotiche», abbandona la via vecchia e va verso metodi intensivi; e c'è chi ormai compra riso brillato al mercato anziché nutrirsi del ricco miglio locale. Solita assurdità, sono ora soprattutto i cittadini di New Delhi (quelli abbienti) a capire i benefici nutritivi dei cibi tradizionali.
E nemmeno il movimento indiano per salvare i semi autoctoni sembra resistere alle sirene del commercio internazionale, seppur equo e biologico: alcune Ong urbane stanno battendo questa strada.