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Vladimir Putin l’ultimo realista

di Francesco Mastromatteo - 05/03/2014

Fonte: millennivm


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Nel giro di pochi giorni, la vicenda ucraina ci ha fatto rivivere, in maniera riveduta, corretta e adeguata al contesto del mondo globalizzato e non più unipolare del XXI secolo, alcuni paradigmi della politologia e della polemologia del passato. Con una blitzkrieg degna delle fulminee campagne di conquista tedesche del ’39-’40, ma stavolta senza spargimenti di sangue (e con più ragioni di quelle della Germania nazista), la Russia ha “messo in sicurezza” la Crimea, regione storicamente a maggioranza russofona e sede di basi navali strategiche per Mosca. Senza rilasciare dichiarazioni, preferendo agire mentre le cancellerie occidentali si scatenavano nel consueto carosello di costernate quanto ipocrite dichiarazioni di sdegno, Vladimir Putin ha così deciso di far capire al mondo che la Russia, come nella per certi aspetti simile vicenda georgiana, e dopo quella siriana dell’estate scorsa, non sarebbe rimasta inerte mentre nella vicina Ucraina,  cruciale per questioni geopolitiche ed energetiche, si consumava una drammatica quanto controversa presa del potere ad opera delle forze europeiste, nazionaliste ed antirusse della ex repubblica sovietica. Una incruenta “drôle de guerre” che, alla Von Clausewitz, ha dimostrato come la tattica militare possa essere validamente propedeutica alla strategia politica, e  che, mentre scriviamo, assume sempre più i contorni di intervento preventivo in grado di ristabilire l’equilibrio nell’area; qualunque cosa accada, Kiev, Ue e Usa non potranno non tenere conto della situazione sul campo.

Secondo Barack Obama, che minaccia sanzioni, Mosca sarebbe “dalla parte sbagliata della storia”. In un certo senso è vero, se si interpreta questa frase nel senso che la politica russa resta ancora legata agli schemi classici del realismo, abbandonati da un pezzo da Washington in favore di un messianismo che, al di là della veste ideologica di turno, reaganiana e neocon  o democratica e liberal, concepisce ormai l’intero pianeta come il proprio cortile di casa. Una frase che ha ben poco di laico e molto di ideologico, e che riecheggia una tesi cara a tutti i sacerdoti del pensiero unico liberale, ovvero quello della “fine della storia”, elaborato da Francis Fukuyama. Una visione del mondo arrogante e insofferente verso modelli alternativi, soprattutto quando si traveste con i colori arcobaleno del politicamente corretto, e che spesso si sposa con quella dello “scontro di civiltà” di Samuel Huntington. Se con Gorge W. Bush, dopo i fatti dell’11 settembre 2001,  la civiltà elevata a Male Assoluto era quella islamica (salvo poi scatenarsi contro l’Iraq laico e nazionalista), adesso il Nemico Metafisico è la Russia, colpevole di non voler diventare preda degli appetiti economici della finanza e della “way of life” occidentali.

Al presidente Usa uno storico e intellettuale oltre gli schemi come Franco Cardini ricorderebbe che «troppo spesso, in passato, le varie forme dello storicismo hanno trasformato la ricostruzione storica del passato in una specie di “profezia post eventum”: tutto quel ch’era accaduto, lo era perché doveva accadere e doveva accadere perché era accaduto. Con tali premesse, e seguendo una logica di questo tipo, era anche facile posizionarsi nella mappa del tempo, e decretare che questo era giusto perché nel “senso” della storia, e che quest’altro non si poteva né fare, né dire, né pensare, in quanto contrario al senso e al vento della storia. E magari, prendendo a prestito categorie pensate per la scienza e per la tecnica, si poteva parlare di “progresso” e di “regresso”; e decretare che questo “portava avanti” e quest’altro invece “faceva retrocedere” le “lancette della storia”. Il problema, oggi, è proprio questo: è ancora possibile pensare alla storia come a un orologio?»

Non sappiamo se Vladimir Putin conosca il detto latino “si vis pacem para bellum”, ma di certo lo ha applicato compiutamente. E per questo meriterebbe forse il Nobel meglio di Obama o della Ue. Il leader russo, si può dire, è ormai l’ultimo statista westfaliano. Non certo una candida verginella, ma il capo di una potenza che concepisce la politica estera secondo criteri di mantenimento dell’equilibrio tra le diverse sfere d’influenza, al di là della retorica buonista di chi sogna ancora i fiori nei cannoni, ma anche della hybris imperiale di chi, dopo il crollo dell’Urss, si ritiene in diritto di intervenire, con esiti spesso disastrosi, ai quattro angoli del pianeta per imporre il proprio modello, fatto di capitalismo finanziario selvaggio e relativismo etico.