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Curzio Malaparte: alcune sue vite

di Andrea Virga - 16/03/2014

Fonte: andreavirga


Questo articolo deriva da un mio sintetico profilo di Malaparte, scritto su richiesta dell'amico Francesco Mastromatteo, e dalle recensioni delle sue opere "Kaputt" e "La pelle", scritte nel 2010 e pubblicate su "Fra le Rovine". Il tutto è stato rielaborato e ampliato per il sito Papale Papale.


Un Arcitaliano di sangue tedesco 

«Gli americani credono che la miseria, la fame, il dolore, tutto si può combattere, che si può guarir della miseria, della fame, del dolore, che v’è rimedio a ogni male. Non sanno che il male è inguaribile. Non sanno, benché siano, sotto molti aspetti, la nazione più cristiana nel mondo, che senza il male non vi può esser Cristo (…). Ma Cristo esige dagli uomini la pietà, non la solidarietà. La solidarietà non è un sentimento cristiano (…) il sacrificio di Cristo impegna anche la responsabilità di ciascun uomo, di ciascuno di noi, nelle sofferenze dell’umanità, che l’esser cristiano impegna ciascuno di noi a sentirsi il Cristo di tutti i nostri simili.»
Kurt Erich Suckert nasce il 9 giugno 1898 a Prato di padre sassone – Erwin Suckert, mastro tintore e sindacalista, emigrato nella città conciaria e tessile per eccellenza – e madre lombarda – Evelina Perelli, conosciuta in casa d’amici a Firenze – rivelando sin dalle origini una propria vocazione europeista e campanilista, rivoluzionaria e conservatrice, arcitaliana e antitaliana, che non smentirà mai. Allevato dai Baldi, famiglia operaia e socialista, è iscritto al prestigioso collegio “Cicognini”, dove unisce agli studi classici un giornalismo impetuoso e adolescente, che propugna l’interventismo.

Una giovinezza nazionalrivoluzionaria

Neanche sedicenne, si arruola nella Sezione Lanciafiamme della Legione Garibaldina che combatte sulle Argonne a fianco dei francesi ben prima dell’intervento italiano. Combatte anche in Italia dal ’15 al ’18 negli alpini, e poi di nuovo in Francia, nella Brigata Alpi, fino all’armistizio, che lo vede promosso, appena ventenne, a dirigere l’ufficio stampa del Consiglio Supremo di Guerra a Versailles. La guerra segna il suo esordio letterario con l’opuscolo “Alla Brigata Cacciatori delle Alpi (51-52)”.

Nel dopoguerra, prima repubblicano e poi fascista, frequenta a Firenze il gotha delle avanguardie italiane – Aldo Palazzeschi, Giovanni Papini, Giuseppe Prezzolini, Ardengo Soffici – e prende parte alla Marcia su Roma. A ventitré anni pubblica la sua prima opera letteraria, il cui dissacratorio titolo “Viva Caporetto” – e ancor più il suo contenuto, una dura critica all’ipocrisia e all’opportunismo della classe politica e della società italiana – suscitano scandalo (riferirà l’autore che «fu accolto dalla generale indignazione borghese» e che «vari librai furono bastonati, le vetrine delle librerie infrante»). La seconda edizione, dal titolo “La rivolta dei santi maledetti” (1923) è direttamente sequestrata.

Fascista ai tempi dello squadrismo… 

«Non ha alcuna importanza (…) se quel che Malaparte racconta è vero, o falso. La questione da porsi è un’altra: se quel ch’egli fa è arte, o no.»
Nel frattempo, seguono la satira letteraria “Le nozze degli eunuchi” (1922) e “L’Europa vivente: teoria storia del Sindacalismo nazionale” (1923), prefata da Ardengo Soffici, saggio politico che lo consacra come uno degli intellettuali di punta del fascismo. In breve tempo diventa addetto culturale presso il Ministero degli affari esteri (grazie alla sua ottima conoscenza delle lingue straniere), poi segretario generale dei Sindacati italiani all’estero. Dopo il Delitto Matteotti, fonda la rivista “La conquista dello Stato”, sostenendo uno «squadrismo intransigente».

Nel 1925, è con il nome d’arte con cui sarà sempre noto – Curzio Malaparte – che firma il Manifesto degli intellettuali fascisti. Questo non impedisce che, nello stesso anno, proprio l’antifascista Piero Gobetti gli pubblichi “Italia barbara”, con un’introduzione in cui rende onore al «nemico» Curzio Suckert «la più forte penna del fascismo». Intellettuale prolifico e versatile, Malaparte collabora sia alla teorizzazione del movimento “Strapaese” con Mino Maccari e Leo Longanesi, sia del movimento “Stracittà” con Massimo Bontempelli, esaltando i tratti tradizionali e agrari del primo, così come quelli moderni e industriali del secondo.

… antifascista ai tempi del regime

Nel 1928, diviene direttore de “L’Italia letteraria”, e nel 1929 diventa direttore del quotidiano torinese “La Stampa”, ma ormai la sua parabola politica si è già distaccata da un fascismo sempre più regime e sempre meno movimento. I suoi scritti di questo periodo sono eminentemente satirici: da “Avventure di un capitano di sventura” a “L’Arcitaliano e tutte le altre poesie” all’antimussoliniano “Don Camaleo. Romanzo di un camaleonte”. Gli anni ’30 vedono così cambiare le fortune di Malaparte: dopo la pubblicazione a Parigi del fortunatissimo saggio “Tecnica del colpo di Stato” (1931), è espulso dal Partito da Starace nel 1933 e finisce al confino a Lipari.

La contemporanea espulsione da “La Stampa” è dovuta però anche alla relazione amorosa con Virginia Bourbon del Monte, vedova di Edoardo Agnelli, tanto che le malelingue gli attribuiscono la paternità di Umberto Agnelli. Riabilitato grazie all’intervento di Galeazzo Ciano, si trasferisce a Capri, dove fa costruire Villa Malaparte, una vera e propria maison d’artiste, punto di ritrovo per artisti, intellettuali e mecenati. A livello letterario è il periodo delle raccolte di racconti, lirici e memorialistici, ma sempre provocatori: “Sodoma e Gomorra” (1931), “Fughe in prigione” (1936), “Sangue” (1937), “Donna come me” (1940). Fonda e dirige la rivista “Prospettive”.

La guerra secondo Malaparte 

«In quei quattro anni di guerra non avevo mai sparato contro un uomo: né contro un uomo vivo, né contro un uomo morto. Ero rimasto cristiano. Rimaner cristiano, in quegli anni, voleva dir tradire. Esser cristiano voleva dire essere un traditore, poiché quella sudicia guerra non era una guerra contro gli uomini, ma contro Cristo. Da quattro anni vedevo torme d’uomini armati andar cercando Cristo, come il cacciatore va cercando la selvaggina. In Polonia, in Serbia, in Ukraina, in Romania, in Italia, per tutta l’Europa, da quattro anni, vedevo torme d’uomini pallidi andar frugando nelle case, nei cespugli, nei boschi, sui monti, nelle valli, per stanare Cristo, per ammazzarlo come un cane arrabbiato. Ma ero rimasto cristiano.»
Con lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, assume il grado di capitano degli Alpini e diventa corrispondente di guerra, prima sul fronte africano poi in Grecia, in Yugoslavia coi tedeschi, in Croazia, e infine su quello russo. Dalle testimonianze romanzate del suo periplo tra l’Ucraina, la Polonia, la Germania e la Finlandia nasce uno dei suoi due grandi capolavori: “Kaputt” (1944), forse il libro più antifascista mai scritto: un quadro dell’Europa putrefatta dall’orrore della guerra e dalla corruzione morale della sua classe dirigente. Tornato in Italia nel 1943, dopo un breve arresto successivo al 25 luglio, cambia bandiera e diventa ufficiale di collegamento con gli alleati, risalendo la penisola da Napoli in su. Dall’allucinante situazione dell’Italia occupata dai “liberatori”, nasce l’altro grande capolavoro malapartiano: “La pelle”, forse il libro più fascista mai scritto, pubblicato contemporaneamente in italiano e francese, a Milano e a Parigi, nel 1949, e subito messo all’Indice. Con questi due romanzi, Malaparte tocca l’apice del suo genio letterario e costringe la critica all’inchino.

Da comunista a cattolico, ma sempre toscano (anzi, pratese) 

«Molti di coloro che oggi fanno gli eroi gridando: viva l’America, o viva la Russia, son gli stessi che ieri facevano gli eroi gridando: viva la Germania. Tutta l’Europa è così. I veri galantuomini sono quelli che non fanno professione né di eroi né di vigliacchi, son quelli che ieri non gridavano viva la Germania, e oggi non gridano né viva l’America, né viva la Russia. Non dimenticate mai, se volete capir l’Europa, che i veri eroi muoiono, che i veri eroi son morti. Quelli vivi…»
Nel dopoguerra, le sue sorti mutano nuovamente: emarginato, tenta invano sia l’adesione al Partito Comunista, sia la carriera di drammaturgo, con le commedie “Du coté de chez Proust” (1948), “Das Kapital” (1949) e “Sexophone” (1955), e di regista, con il film “Il Cristo proibito” (1950). Di quest’ultimo anno è anche la raccolta di articoli “Maledetti Toscani”, vera e propria lettera d’amore al popolo in mezzo al quale nacque e crebbe. Nel 1957, al ritorno da un viaggio nella Cina maoista, si scopre un tumore, forse conseguenza di un’intossicazione da iprite in tempo di guerra. Patisce tre mesi d’agonia, durante i quali Togliatti gli concede la tessera del PCI.

Spira, infine, il 19 luglio 1957, dopo essersi convertito in extremis al cattolicesimo, previa abiura del comunismo e strappo della tessera del Partito. Il suo diario di viaggio, “Io, in Russia e in Cina” (1958), esce postumo. Curzio Malaparte riposa in un mausoleo sul Monte Spazzavento, che domina Prato, in ossequio alle sue parole «...e vorrei avere la tomba lassù, in vetta allo Spazzavento, per sollevare il capo ogni tanto e sputare nella fredda gora del tramontano» – frase scolpita sulla sua tomba, insieme all’altra sua: «Io son di Prato, m’accontento d’esser di Prato, e se non fossi nato pratese vorrei non esser venuto al mondo».

Un nazional-rivoluzionario italiano 

«Gran fortuna per tutti, in Italia, che i toscani siano uomini intelligenti, e perciò liberi. E maggior fortuna sarebbe, se in Italia ci fossero più toscani e meno italiani.»
Questa la vita di Kurt Suckert, in arte Malaparte. A volerlo inquadrare nella cultura italiana, le categorie sfuggono, a cominciare da quella di “fascista”. Bisogna prenderla in prestito al mondo tedesco: Malaparte fu un rivoluzionario-conservatore. Come i suoi omologhi tedeschi, iniziò a combattere in trincea, coprendosi di gloria, e poi continuò a combattere contro la Patria mutilata e liberale del dopoguerra, invocando la Rivoluzione delle baionette e degli elmetti. In Russia, come in Italia, del resto, la Rivoluzione l’avevano fatta i reduci, quasi come ripicca contro coloro che li avevano mandati a morire al fronte. E molti di loro continuarono a mordere il freno sotto il fascismo, come se la camicia bruna o nera non valesse l’uniforme che avevano portato con orgoglio, come se i nuovi gerarchi non fossero che un magro surrogato dei vecchi generali conservatori.

Lo studioso della Rivoluzione Conservatrice Armin Mohler ha coniato l’aggettivo “nazional-rivoluzionario” per questa corrente di giovani arrabbiati, tesi a coniugare Nazione e Rivoluzione. A due scrittori in particolare, assomiglia Malaparte. Il primo è l’eroe di guerra pluridecorato Ernst Jünger, che a soli quarant’anni era ormai un filosofo degno dell’attenzione di Heidegger, e ha attraversato il XX secolo, morendo nel 1998 all’età di 103 anni. Il secondo è il combattente dei Freikorps Ernst von Salomon, impegnato a difendere i Tedeschi orientali nel Baltico e in Slesia, e poi i contadini del Nord in rivolta contro l’oppressione fiscale e gli espropri di Weimar. Dal padre, Suckert ha preso non tanto la serena e aristocratica freddezza del primo, quanto il cinismo anarcoide del secondo, che riempie le pagine dei Proscritti e della Città.

Tra vita e romanzo

Non ci si può congedare da Malaparte, senza citare almeno due dei suoi capolavori, a partire da “Kaputt”. Questo libro, il secondo che ho letto di Malaparte (dopo “Maledetti Toscani”), l'ho letto in viaggio, a cavallo della Pasqua – metà il Venerdì Santo e metà il Martedì dell'Angelo – in treno e sulle banchine. Più ancora che in “La pelle”, si vede qui la mano di un genio. La scrittura di Malaparte è magnificamente dannunziana, capace d'infiorare di preziosismi e di paragoni arditi la descrizione delle scene più orrende. La sua fantasia letteraria è fervidamente barocca, con un gusto dell'orrido da ossario seicentesco. Si tratta di un romanzo storico, ma ambientato al presente, e realtà e letteratura si mischiano e si accoppiano vorticosamente nel corso della lettura.

Già la composizione del romanzo, ha del romanzesco essa stessa: iniziato nell'estate del 1941 a Petscianka in Ucraina, dove l'autore è corrispondente di guerra, lo accompagna nelle sue peregrinazioni nell'Europa occupata: dalla Bessarabia alla Polonia, dalla Finlandia alla Svezia, dalla Germania all'Italia, dove a Capri, nel settembre 1943, è scritta la parola fine. Le tre parti in cui era stato diviso il manoscritto in Finlandia, rientrano finalmente in Italia. Viene pubblicato l'anno dopo, contemporaneamente, a Napoli e a Paris.

Cristo, Sigfrido e il gatto

Il significato del libro ruota attorno ad un aneddoto raccontato alla principessa tedesca Louise von Hohenzollern, in cui Malaparte così riassume il rapporto tra la Germania (esemplificata nell’eroe germanico Sigfrido) e l’Europa. 
«(…) Una recluta delle SS. non è degna di appartenere a un Leibestandart se non quando riesce a superare facilmente la prova del gatto. Le reclute debbono afferrare con la mano sinistra, per la pelle del dorso, in modo da lasciargli libere le zampe per potersi difendere, un gatto vivo, e con la mano destra, armata di un piccolo coltello, cavargli gli occhi (…).
Non deve ignorare che anche i gatti, in un certo senso, appartengono alla specie di Sigfrido? Non ha mai pensato che anche Cristo è una specie di Sigfrido? Che Cristo è un gatto crocefisso? Lei non deve credere, come tutti i tedeschi sono educati a credere, che Sigfrido è unico, e che tutti gli altri popoli sono gatti. No, Louise, anche Sigfrido è della razza dei gatti. Lei conosce l’origine della parola kaputt? È una parola che proviene dall’ebraico koppâroth, che vuol dire vittima. Il gatto è un koppâroth, è una vittima, è l’inverso di Sigfrido: è un Sigfrido immolato, sacrificato. Vi è un momento, ed è un momento che sempre ritorna, in cui anche Sigfrido, l’unico, diventa gatto, diventa koppâroth, vittima, diventa kaputt: è il momento in cui Sigfrido è prossimo alla sua morte, in cui Hagen-Himmler si appresta a cavargli gli occhi, come a un gatto. Il destino del popolo tedesco è di trasformarsi in koppâroth, in vittima, in kaputt. Il senso riposto della sua storia è in questa sua metamorfosi da Sigfrido in gatto. Lei non deve ignorare certe verità, Louise. Anche lei deve sapere che tutti siamo Sigfrido, che tutti siamo destinati ad essere un giorno koppâroth, vittime, ad essere kaputt; che per questo siamo cristiani, che per questo anche Sigfrido è cristiano, anche Sigfrido è gatto.»

Europa Kaputt

Malaparte racconta: i villaggi d'Ucraina occupati dai Tedeschi, i pogrom dei soldati romeni a Iasi, e le ragazze ebree nei bordelli militari della Wehrmacht, i saccheggi degli zingari sotto le bombe a Belgrado e il paniere di 20 kg di occhi umani nell'ufficio di Ante Pavelic, la miseria del ghetto di Varsavia e i testicoli di Himmler nudo e sudato nella sauna, i cacciatori finlandesi seduti sulle teste dei cavalli grottescamente congelati nelle acque del Ladoga, e i freaks dei bassi di Napoli sciamare nella città bombardata. Quest'ultimo capitolo, intitolato "Sangue", preannuncia già “La pelle”, come suo naturale figlio e sequel. Malaparte racconta: la corte neorinascimentale di Hans Frank, deutsche König der Polen, e i pettegolezzi della buona società romana, i ricevimenti diplomatici in Finlandia e Galeazzo Ciano al golf club, i tormentati racconti di guerra alla nipote del Kaiser e quelli al Principe di Svezia, i generali Tedeschi che giustiziano i salmoni, e il cane del Ministro d'Italia in Jugoslavia.

L'autore mette continuamente a confronto, con i suoi aneddoti e i suoi racconti memorialistici, la cruda realtà di un'Europa allo sbando, di un’Europa kaputt, marcia di guerra, sangue e povertà, con le corti decadenti di nobildonne, gerarchi, ambasciatori, ministri. Kaputt rimane un libro folgorante: in cui la raffinatezza dello stile – l'italo-tedesco Malaparte non si fa scrupolo di passare dall'italiano al francese, al tedesco, al romeno, al finlandese – si sposa alla drammaticità dei contenuti. Resta probabilmente uno dei migliori libri antifascisti, e insieme è antieuropeo e anti-italiano, e proprio per questo motivo radicalmente europeista e arci-italiano. É un Malaparte amante dell'Europa e dell'Italia, che denuncia la loro decadenza, morte, e decomposizione, perché crede nel loro riscatto e nella loro grandezza.

Questa maledetta pelle 

«Voi non immaginate neppure di che cosa sia capace un uomo, di quali eroismi e di quali infamie sia capace per salvare la pelle (…). Oggi si soffre e si fa soffrire, si uccide e si muore, si compiono cose meravigliose e cose orrende, non già per salvare la propria anima, ma per salvare la propria pelle. Si crede di lottare e di soffrire per la propria anima, ma in realtà si lotta e si soffre per la propria pelle, soltanto per la propria pelle (…).
Non è una questione d’onestà personale. È la civiltà moderna, questa civiltà senza Dio, che obbliga gli uomini a dare una tale importanza alla propria pelle. Non c’è che la pelle che conta, ormai. Di sicuro, di tangibile, d’innegabile, non c’è che la pelle. È la sola cosa che possediamo. Che non è cosa nostra. La cosa più mortale che sia al mondo. Solo l’anima è immortale, ahimè! Ma che cosa conta l’anima, ormai? Non c’è che la pelle che conta. Tutto è fatto di pelle umana. Anche le bandiere degli eserciti son fatte di pelle umana. Non ci si batte più per l’onore, per la libertà, per la giustizia. Ci si batte per la pelle, per questa schifosa pelle.»
Come si è già detto, non si può leggere “Kaputt”, senza farlo seguire da “La pelle”. Esso stesso si riallaccia direttamente al romanzo precedente, in scene come la descrizione del bombardamento d’Amburgo o degli Ebrei crocifissi agli alberi in Ucraina. Tuttavia, è ambientato prevalentemente nella Napoli occupata dalle forze alleate, tra il 1943 e il 1944, per poi muoversi verso nord negli ultimi capitoli, fino a Firenze, seguendo gli spostamenti dello stesso Malaparte, ufficiale di collegamento con la Quinta Armata americana.

Ma quale “Liberazione”!

Il ritratto ch’egli fa della Napoli occupata, fin dalle prime pagine, costituisce il più efficace antidoto contro la vulgata antifascista e la retorica della “Liberazione”. Va precisato che Malaparte non è (più) fascista, e che non manca di rendere omaggio all’insurrezione degli scugnizzi nelle Quattro Giornate in cui Napoli insorse contro i Tedeschi (in realtà, già in piena ritirata). Tuttavia, il quadro ch’egli testimonia e consegna alla storia, e che nessuno ha mai potuto smentire, è in grado di troncare sul nascere ogni vaga e ingenua proposta che nel 25 aprile o nell’8 settembre possa esservi alcunché da festeggiare. Il libro si apre già con un’immagine significativa: i Volontari della Libertà, il nuovo esercito regio inquadrato nell’Ottava Armata  britannica, rivestiti con le divise britanniche strappate ai caduti della Campagna d’Africa e ridipinte di verde per nascondere i buchi e le chiazze di sangue.

Da qui in poi è una spirale d’orrore: torme d’italiani che si accalcano attorno ai soldati alleati per vendere i loro servigi, dalle capere (parrucchiere di strada) ai giovanissimi sciuscià (lustrascarpe), non c’era cosa che non si comprasse e vendesse sul mercato nero a suon di dollari. Addirittura, i soldati americani, specialmente i negri, facili a spendere e ad essere ingannati, passavano a caro prezzo da un napoletano all’altro, ciascuno dei quali intento a cavarne un profitto, si trattasse di spogliarli d’ogni avere o di portarseli in casa e tenerseli buoni per farsi portare merce di contrabbando dai magazzini militari. Interi autocarri di provvigioni alleate, e persino un carro armato e un’intera Liberty Ship, completa del proprio carico, sparirono nel famelico ventre di Napoli.

Soprattutto, però, la popolazione intera si prostituiva allo straniero: gli uomini vendevano le mogli, le figlie, le madri; i lenoni facevano arrivare a Napoli camion di giovani ragazze da tutto il Mezzogiorno; fin le nane dei bassi napoletani adescavano i soldati; bambini e bambine erano offerti a poco prezzo dalle stesse madri per saziare l’appetito sessuale degli invasori. Costava poco la carne italiana: quattro dollari una ragazza, tre una bambina, due un bambino, ben cinque e mezzo un chilo di carne d’agnello al mercato nero. Le rare vergini erano esibite a pagamento in quanto tali,  le more si mettevano parrucche tra le cosce per simular d’esser bionde ed essere più pregiate: sembrava una gara a chi infangasse di più il proprio onore. Non era successo durante l’occupazione tedesca, era un “privilegio” destinato ai “liberatori”.

Così politicamente scorretto da risultare inattuale

Come si può vedere, non c’è retorica partigiana che possa compensare un simile quadro. E queste pagine che Malaparte pubblicò nel ’49, oggi sarebbero quasi impensabili nell’Italia della Boldrini. E gli costerebbero un’accusa per omofobia le meravigliose pagine dedicate agli ambienti omosessuali di Napoli, animati dai ricchi rampolli dell’aristocrazia europea, che andavano raccogliendo intorno a sé i loro pari tra gli eserciti alleati (la cui intelligence avevano generosamente servito), ma anche guaglioni di bell’aspetto e dalle tasche vuote. Questi “nobili Narcisi”, dopo aver esaurito negli scorsi anni tutto l’estetismo borghese del decadentismo e del tardo romanticismo (Wilde, Gide, Valery, ecc.), si atteggiavano ora ad esteti marxisti, riccamente vestiti, ma pronti ad accompagnarsi ad “efebi proletari” in tuta da operaio o divisa da soldato e a parlare di Marx, Lenin, Stalin, disprezzando trotzkisti e borghesi.

Naturalmente, in queste pagine non entra l’invettiva becera: all’autore basta la sua penna intinta nell’ironia in parte crudele e in parte disillusa per ritrarre questo mondo morboso, una delle tante manifestazioni di un’Europa kaputt: 
«È sempre la solita storia, dopo una guerra. I giovani reagiscono all’eroismo, alla retorica del sacrificio, della morte eroica, e reagiscono sempre allo stesso modo. Per disgusto dell’eroismo, dei nobili ideali, degli ideali eroici, sai che fanno i giovani come te? Scelgono sempre la rivolta più facile, quella della viltà, dell’indifferenza morale, del narcisismo. Si credono dei ribelli, dei blasés, degli affranchis, dei nichilisti e non son che puttane (…). Ne ho conosciuti migliaia come te, dopo l’altra guerra, che credevano d’essere dadaisti o surrealisti, e non erano che puttane. Vedrai, dopo questa guerra, quanti giovani crederanno d’essere comunisti. Quando gli alleati avranno liberato tutta l’Europa, sai che troveranno? Una massa di giovani delusi, corrotti, disperati, che giocheranno a fare i pederasti come giocherebbero al tennis.»

I peccati originali dell’Italia repubblicana

C’è poco della Campagna d’Italia in questo libro, fuor di Napoli. Basta un capitolo per lo sfondamento della Linea Gustav, presso Cassino, e la presa di Roma, e un altro per la conquista di Firenze, l’inverno sotto la Linea Gotica e infine la Valle del Po e lo sconcio di Piazzale Loreto, di fronte al quale Malaparte vomita, perché la guerra è finita e non c’è altro che può fare per il suo Paese. Proprio in questo penultimo capitolo, spicca l’episodio famoso dei franchi tiratori fiorentini: i ragazzi fascisti in procinto di essere fucilati sul sagrato di Santa Maria Novella dai partigiani comunisti, per aver prolungato da soli la resistenza di Firenze, sparando dalle finestre e dai tetti contro il nemico. Davanti alla morte imminente, questi figli dei quartieri popolari scherzano in vernacolo.

Non è (più) fascista Malaparte, ma queste pagine sono un omaggio all’indomito spirito libero di questi giovani toscani, che strappa al processo sommario, pur di non vedere italiani che uccidono altri italiani. E c’è qui dopo l’orrore della peste morale di Napoli, l’orrore della guerra civile nel centro-nord, delle vendette post-belliche contro fascisti e presunti tali. Sono questi i peccati originali della Repubblica Italiana che questo libro agita prepotentemente, ma non con retorica vittimista propria di certo neofascismo, bensì con un sentimento di cristiano disgusto e di genuino orrore verso un odio fratricida che pare aver contagiato l’intera Europa, verso un antico male che affligge il nostro popolo.

Il solito antico male italiano 

«Non soltanto in Italia, ma in tutta l’Europa, un’atroce guerra civile veniva imputridendo come un tumore dentro la guerra che gli Alleati combattevano contro la Germania di Hitler. Per liberar l’Europa dal giogo tedesco, i polacchi ammazzavano i polacchi, i greci i greci, i francesi i francesi, i romeni i romeni, gli jugoslavi gli jugoslavi. In Italia, gli italiani che parteggiavano per i tedeschi non sparavano sui soldati alleati, ma sugli italiani che parteggiavano per gli Alleati: ed egualmente, gli italiani che parteggiavano per gli Alleati non sparavano sui soldati tedeschi, ma sugli italiani che parteggiavano per i tedeschi. Mentre gli Alleati si facevano ammazzare per liberar l’Italia dai tedeschi, noi ci ammazzavamo tra noi.
Era il solito, antico male italiano, che si riaccendeva in ciascuno di noi. Era la solita, sporca guerra tra italiani, col solito pretesto di liberar l’Italia dallo straniero. Ma quel che più m’inorridiva e mi spaventava, in quell’antico male, era che io pure mi sentivo toccato dal contagio. Io pure mi sentivo assetato di sangue fraterno. In quei quattro anni ero riuscito a rimaner cristiano: ed ora, mio Dio, ecco che il mio cuore era marcio d’odio, che io pure camminavo col fucile mitragliatore in pugno, pallido come un assassino, ecco che io pure mi sentivo bruciato fin nel profondo dei visceri da un’orribile furia omicida.»