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Elezioni europee

di Francesco Mario Agnoli - 12/05/2014

Fonte: Arianna editrice

 

      Tutti quelli che contano, governanti, politici, giornalisti, conduttori televisivi,  insistono molto sul fatto  che quelle di fine maggio sono  elezioni  per l'Europa, cui occorre, quindi,  partecipare in chiave europea. E' vero e, pur se si tratta  spesso di propaganda interessata (oltre tutti i messaggi televisivi promossi dal governo, tutti schierati a favore  dell'Europa quale oggi è, cioè dell'attuale assetto Ue, violano la “par condicio” ai danni dei partiti che l'Europa vogliono invece cambiare), giova sperare  che gli italiani se ne convincano  e perdano la cattiva abitudine di considerare tutte le consultazioni elettorali  come l'occasione di manifestare fedeltà ideologica  al proprio partito.

     Le elezioni europee sono molto diverse  da quelle nazionali, ancor più di quanto queste ultime differiscono (o dovrebbero differire) da quelle locali.

    Il ragionamento vale soprattutto  quella larghissima maggioranza di  italiani  che, secondo tutti i sondaggi,  non sono per nulla soddisfatti della Ue e delle sue politiche economiche e  finanziarie. Per loro le ormai vicinissime consultazioni sono l'imperdibile e forse ultima occasione per dare  voce e contenuto concreto  al loro dissenso a condizione che al momento del voto  sappiano determinarsi in base a motivazioni diverse  dalla ideologia politica e dalla fedeltà al partito (o - non farlo sarebbe il peggio del peggio – dalla simpatia o antipatia per Renzi e Berlusconi).

     L'Unione europea soffre di un altissimo deficit di democrazia (su questo tutti sono d'accordo), il Parlamento europeo conta pochissimo e il risultato delle elezioni non  influirà  direttamente sugli organi dai quali dipende la politica dell'Europa. Gli elettori possono soltanto mandare un segnale  del loro scontento. Per avere effetto è, quindi, indispensabile che questo segnale sia tanto forte  da allarmare gli eurocrati sul loro futuro.

    Alcuni sono convinti  che il modo migliore per fare conoscere la propria  insoddisfazione  per la politica europea sia l'astensione. Fra gli altri e meglio di altri Ida Magli scrive che “votare non serve” ed ”è indispensabile che almeno quei gruppi di cittadini che criticano le istituzioni europee, che vogliono la riappropriazione della sovranità sulla moneta e su tutto l'ambito che riguarda la Nazione e il suo territorio non vadano a votare  alle elezioni europee e convincano  il maggior numero possibile di cittadini a non andarvi”. 

   L'intento è buono, ma cattivo lo strumento suggerito. Dal momento che in Italia un'astensione del 40% è ormai considerata fisiologica, il disamore degli elettori per divenire  significativo (e non è detto che anche in questo caso a Bruxelles se ne mostrerebbero preoccupati) dovrebbe raggiungere  e superare il 60%, un risultato oggi assolutamente impossibile da conseguire.

    La strada da seguire per chi vuole mandare un segnale forte all'Europa, è invece  quella del voto ai cosiddetti partiti populisti (fregandosene se  l'establishment considera “populismo” una brutta parola), perché  l'unico modo per fare intendere ragione agli eurocrati è la presenza in Parlamento di un  gruppo critico il più folto, determinato e, visti gli scarsi poteri, rumoroso possibile. E vero, fra i cittadini che criticano l'Ue vi è diversità di opinioni e così di programmi fra i   movimenti populisti. C'è chi vuole uscire subito dall'euro e chi  invece  vuole conservare la moneta unica.  Tuttavia la distinzione è importante  in astratto, ma nel concreto  anche l'eventuale successo dei partiti  “no euro” certamente non ne comporterà la sparizione in tempi brevi.  Nessun problema poi per gli elettori  ancora legati  a schemi ideologici, perché fra i  movimenti e i partiti critici dell'Ue ve ne sono di destra, di centro e di sinistra e anche che rifiutano queste distinzioni. Si può, quindi, manifestare il dissenso e l'esigenza di radicali cambiamenti, senza fare violenza  alle proprie convinzioni.