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Antropologia mediterranea e spirito anglosassone: verso quale cambiamento?

di Lorenzo Vitelli - 01/06/2014

Fonte: L'intellettuale dissidente


Mentre la Cultura istituzionale esorta l'appiattimento delle coscienze nella società di mercato generalizzato a tutte le forme di esistenza, la Cultura del quotidiano, che predilige ancora l'ozio, inteso come contemplazione e godimento qualitativo dell'esistente - in contrapposizione all'iperattività anglosassone -, le pratiche di relazioni sociali ascritte, l'ospitalità, il bilanciamento del comportamento sociale adeguato tra i due poli di onore e vergogna, rimane una Cultura di estrazione allegoricamente rurale, che non consta, al suo interno, delle logiche della megalopoli o dell'hub

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Se è vero che ogni individuo non è il solo risultato di una dimensione materiale che determina le sue azioni, ma che inevitabilmente questa stessa dimensione dibatte con una dimensione ideale, una costellazione di valori e di credenze ascritti ad una comunità, una forma mentis che ne esprime la Cultura, allora sembra necessario, per poter analizzare le dinamiche che intercorrono il reale, entrare nel vivo di questa dialettica e mettere in luce le contraddizioni che ne scaturiscono e che l’odierno sistema sociale, politico ed economico tende a silenziare per tacere ogni antinomia. La contraddizione più evidente emerge dal modello economico che sta investendo, sin dalla sua creazione, l’Eurozona e che, con una moneta unica, non tiene conto delle peculiarità delle economie locali, ma standardizza gli assetti delle diverse produzioni secondo gli standard di produttività e di spesa del Fiscal Compact e del Patto di stabilità, secondo le logiche del libero mercato e dei trattati, tra cui, il più recente, il Trattato transatlantico. Creare un ponte diretto di libero scambio tra Stati Uniti ed Unione Europea vuol dire costringere con ancora maggiore coercizione l’economia della nostra penisola ad inserirsi ed adeguarsi a determinati parametri – non solo economici, ma propriamente culturali – anglosassoni. 

L’obiettivo prefissato sulla base di un input ricevuto da forze internazionali, e che la nostra classe dirigente, auto-riciclatasi - elezione dopo elezione, da vent’anni a questa parte – vuole raggiungere, è quello di adattare la dimensione materiale alle esigenze liberiste che chiedono i mercati. E’ ciò che ha  promesso di fare Forza Italia nel 94′ e ciò che tenta oggi di fare Renzi con l’americanissimo Job act e la precarizzazione del lavoro, grazie all’abile strumento delle privatizzazioni.
L’Italia non deve adeguarsi semplicemente agli standard europei, ma deve, in tutto e per tutto, omologarsi all’ideologia anglosassone, quel particolare modo di rapportarsi alla realtà, al lavoro, ai problemi sociali, che hanno reso i Paesi nordici delle superpotenze mondiali, ma umanamente ed ecologicamente problematici. 
E sopratutto, come trasformare la dimensione materiale senza modificare la controparte ideale? Il fatto è che noi non siamo americani, inglesi, o tedeschi. Per quanto il protestantesimo e il rapporto mutato tra Io e Dio, tra fede e successo, tra uomo e lavoro, nonché la prepotenza della cultura americana insediatasi all’ombra del piano Marshall, abbiano avuto un ruolo fondamentale nel cambiamento antropologico delle soggettività Occidentali, noi rimaniamo un Paese mediterraneo, dalla cultura profondamente mediterranea e che, per quanto possa dirsi atea e laica, rimane di matrice cattolica, per quanto possa dirsi metropolitana, rimane provinciale, nel senso più umano del termine.

La domanda opportuna non è, quindi, quella posta dai vertici dirigenziali economici e politici, ovvero: come possiamo competere? come possiamo conformarci, se aderire ad un simile progetto significa conformare la dimensione ideale, di cui siamo storicamente e simbolicamente portatori, ad una dimensione materiale importata dall’esterno, che oltre a non essere umanamente sostenibile, è permeata da numerose contraddizioni interne? E’ dunque davvero necessario competere? Allinearsi ad una logica liberale e capitalistica che non è connaturata, ma anzi snatura il nostro modo di essere, le nostre forme di interpretazione del reale, l’antropologia mediterranea, l’insieme delle nostre pratiche quotidiane, le nostre varietà interculturali? Forse il Sud rappresenta in proposito una muro a difesa della degenerazione turbocapitalista più di quanto non lo sia il Nord, in cui determinati valori si impongono e precedono il perseguimento del successo e della ricchezza. Ma rimane del resto assurdo alla cultura liberista e liberale, in cui al profitto segue immediatamente l’uso e il consumo, l’idea di un popolo istintivamente risparmiatore. Così come risulta difficile al capitalismo sul modello anglossasone, essere esportato nel Maghreb o nel Medio Oriente, dove si pratica un mese l’anno il Ramadan, l’elemosina rituale, una serie di digiuni e dove le banche sono impossibilitate a praticare il credito a interesse. 

In definitiva, mentre la Cultura istituzionale esorta verso un tale cambiamento, verso l’appiattimento delle coscienze nella società di mercato generalizzato a tutte le forme di esistenza, proprio per permettere e legittimare la definitiva integrazione della dimensione capitalistica e liberista nel nostro tessuto amministrativo, produttivo e psicologico, la Cultura del quotidiano, che predilige ancora l’ozio, inteso come contemplazione e godimento qualitativo dell’esistente – in contrapposizione all’iperattività anglosassone -, le pratiche di relazioni sociali ascritte, l’ospitalità, il bilanciamento del comportamento sociale adeguato tra i due poli di onore e vergogna, rimane una Cultura di estrazione allegoricamente rurale, che non consta, al suo interno, delle logiche della megalopoli o dell’hub. Di fatto, il nostro patrimonio intellettuale, letterario e artistico che da Giacomo da Lentini e San Francesco arriva sino a Pasolini, tralasciando le avanguardie novecentesche, è tempestato da una profonda sensibilità bucolica, da una visione anti-metropolitana e anti-borghese, dalla spontaneità, dallo stupore per le umili cose.

Il problema sorge da questo scontro tra la Cultura del quotidiano e la Cultura ufficiale influenzata dallo stimolo anglosassone che ha investito la nostra penisola a partire dalla fine della seconda guerra mondiale, imponendosi come vincitrice e, di conseguenza, come funzionante e valida. E’ senza dubbio vero che tramite l’acquisizione di questo modello applicato al nostro humus culturale, si è dato vita all’Italia del miracolo, ma il contesto di eccessiva globalizzazione a cui è seguita l’anglosassonizzazione dell’Occidente “ha distrutto i meccanismi sottili di produzione e riproduzione delle società tradizionali e i simbolismi attraverso i quali i loro membri davano un senso all’esistenza. Dopo l’annientamento dei loro punti di riferimento immaginari tradizionali, la sola via di uscita simbolica che resta [...] aperta è quella dell’imitazione dei vincitori” (Alain Caillé, Critica della ragione utilitaria).

Il progetto si è tuttavia rivelato fallimentare, mettendoci di fronte ad una scelta, che sta nell’adeguarsi iperattivamente all’ideologia dominante imitando scimmiescamente lo spirito anglosassone, le logiche del profitto, della concorrenza e della competizione, sperando di far contenti i mercati e gli inquietanti investitori stranieri, oppure tornare a ripensare un’Italia che tenga conto delle sue peculiarità e della dimensione ideale che caratterizza e condiziona la nostra quotidianità, a cui va data nuova forza per tracciare un’identità che si armonizzi con quella dimensione materiale – la nostra economia e la nostra produzione – che abbiamo svenduto e liberalizzato, per creare “una patria nella quale si possono sperimentare, o recuperare, lavori che non sono importanti per il reddito che possono fornire, ma per la qualità di vita che riescono a garantire” (Piero Bevilacqua, Il grande saccheggio).