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Le ambivalenze del piccolo principe di Saint Exupéry

di Andrea G. Sciffo - 17/06/2014

Fonte: Arianna editrice


 

È uno dei libri che hanno trasformato la mentalità di un numero iperbolico di lettori nel nostro tempo. Un mito talmente indiscutibile da far sorgere il quesito: ma chi lo esalta o lo cita entusiasta, lo ha letto davvero? Pubblicato nel 1943 in inglese (e qualche giorno dopo in francese), questo racconto poetico sottoforma di opera per ragazzi è stato tradotto in oltre 220 tra lingue e dialetti e stampato in oltre 134 milioni di copie: stiamo parlando de “Il piccolo principe” di Antoine de Saint-Exupéry. Divenuto un fenomeno planetario negli ultimi decenni per via di infinite ristampe, edizioni speciali, gadget, etcetera, il “logo” dell’ometto biondo con la sciarpa al vento o vestito con la lunga marsina verde dai risvolti rossi è per in tutto il mondo “l’emblema della generosità al servizio degli altri, dell’amicizia, della solidarietà e della voglia di veder nascere un mondo migliore, più giusto, più equo, più sano, più pulito”. Utilizzato come simbolo da varie marche (Fondazione Réunica, Toshiba, Veolia, Australian Woo) e da numerose associazioni caritative (Les Petits Princes, Dessine-moi un mouton), persino l’ONU lo usa per spiegare i diritti dell’uomo ai bambini mentre l’UNESCO lo ha scelto come simbolo del programma d’accesso all’eduzione scolastica e all’acqua.

Chissà se un così plateale successo se lo immaginava l’autore, mentre vergava Le Petit Prince sfruttando esplosioni di energia notturna potenziate da caffè, gin, Coca-Cola e fumo di sigarette… la foga lo portò a disegnare anche sul lato sbagliato della carta da lucido. Leggenda vuole che la moglie Consuelo, o probabilmente l’amante Silvia Reinhardt, abbia fornito spunto per il famoso discorso della volpe e dell’addomesticamento dell’amore, su cui torneremo più avanti. Quando uscì, l’edizione originale si presentava come uno snello volume in ottavo, rilegato in tela salmone con tiratura di testa di 525 copie, firmate dall’autore. In seguito, l’editore Gallimard fece causa alla Reynal & Hitchcock per il copyright del libro. E il regista Orson Welles ottenne un’opzione cinematografica per farne un film-cartone animato, ma il progetto sfumò a causa della mancata collaborazione con Walt Disney.

Da allora “Il piccolo principe” è un libro globale, perché va a costituire quel corpus di letture comuni dell’umanità post-moderna, da Occidente al Far East, in compagnia del grandioso Il Signore degli Anelli ma anche della saga di Harry Potter, e di un vero capolavoro censurato della letteratura per ragazzi, letto più all’estero che in Italia (ovviamente, è Pinocchio di Collodi). Tornando alla domanda iniziale, verrebbe da chiedersi se siamo veramente in presenza di un racconto per bambini… a mio giudizio, no. Anche l’affermazione sibillina di Umberto Eco (“L’ho incontrato troppo tardi, non ne sono un lettore devoto. Ma la sua leggenda mi affascina”) non fa che accrescere l’alone di incertezza intorno a questo delicato bestseller di settant’anni fa e infittisce il già fitto mistero sulla biografia dello scrittore francese scomparso a 44 anni mentre era in ricognizione nei cieli di guerra a bordo del suo P-38 Lightning.

Per adulti o bambini? L’equivoco

La fortuna de Il piccolo principe è notevole, sia nell’ambito della mentalità laicista che in ambienti cristiani e cattolici, come libro da cui estrapolare brani e citazioni simili alle grandi pagine di spiritualità: si è così determinato un alone di autorevolezza. Però il libro non sembra adatto a questo uso; quando implora i bambini di compatire l’ottusità degli adulti (come quello che dice “I grandi non capiscono mai niente da soli e i bambini si stancano a spiegargli tutto ogni volta”), l’inversione non è chiara: si tratta di un appello morale agli adulti, condivisibile e ma inadatto all’atmosfera fiabesca? Molto più efficace è l’idea centrale, cioè che “Tutti i grandi sono stati bambini una volta (ma pochi di essi se ne ricordano)”, una verità che si basa sul primo passo dell’esperienza spirituale, l’anamnesi del bene, ma che rimane poi senza frutto perché c’è il rischio di rimanere bambini o di rimbambire: mentre il Vangelo invita a “ritornare come bambini” (Mt 18,3) dopo essersi convertiti, cioè essendo cambiati radicalmente.

Anche in altri punti i piani del libro si confondono con le aspettative di chi lo legge. Scene che, una volta estrapolate dal contesto, diventano talmente generiche da perdere il loro carico: l’incontro del Piccolo Principe con gli adulti impegnati sugli asteroidi in attività ottuse;  col “mercante di pillole che calmavano la sete”:

" Perché vendi questa roba?" chiese il Piccolo Principe
" E' una grossa economia di tempo" disse il mercante "gli esperti hanno fatto dei
calcoli. Si risparmiano 53 minuti alla settimana."
" E che cosa se ne fa di questi 53 minuti?" chiese perplesso il Piccolo Principe
" Se ne fa quel che si vuole.." rispose sicuro il mercante
" Io" disse il Piccolo Principe "se avessi 53 minuti da spendere, camminerei adagio,
adagio verso la fontana.."

Qui, verità psicologica per adulti indaffarati e apparente semplicità da favola per fanciulli si toccano in modo mirabile, per generare quell’equivoco tra destinazione e destinatario del testo. Siamo di fronte a un’opera del Romanticismo novecentesco, fatto di sentimentalità impalpabile. Come dire, il risultato di qualcosa che sarebbe dovuto andare diversamente, di una vita adulta fallita, di un’opzione letteraria parziale. Una lettera dell’autore, in proposito, assume valenza chiarificatrice: il giorno prima di compiere l’ultimo fatale volo, Saint Exupéry scrisse a Pierre Dalloz: “Sotto la minaccia della guerra, sono più nudo e più spoglio che mai. Assolutamente puro. L’altro giorno mi hanno sorpreso due caccia. Sono fuggito appena in tempo… Ma che solitudine spirituale. Se verrò abbattuto, non rimpiangerò assolutamente niente. Il termitaio futuro mi spaventa. Io, io ero fatto per essere un giardiniere”.

Ambivalenze romantiche

A volte, rileggere questo libro è stucchevole: tra l’altro, anche quando è proposto come lettura nelle scuole inferiori genera tutt’altro che entusiasmo nei giovanissimi studenti che debbono affrontarlo. Allora, dov’è la sua chiave di volta? Secondo lo studioso di letteratura del radicamento Andrea Pozzoli “Il Piccolo Principe è l’espressione di un cristianesimo che non si pone il problema della verità, e che ha bisogno di scaldare i cuori”; don Andrea Lonardo, invece, biblista, Direttore Ufficio Catechistico Diocesano di Roma, effettua un’accurata esegesi della scrittura exuperiana osservando come “Se i suoi Diari ci testimoniano perplessità su singoli punti della dottrina e della prassi ecclesiale, la vita di Saint-Exupéry non si allontanò dalla professione di fede cattolica” mentre il critico letterario Giovanni Casoli sostiene che “quanti disprezzano il Piccolo Principe fanno gli adulti schizzinosi” perché il testo “è un capolavoro, ed è per adulti: a patto che stiano alla lettera del libro, e che ritornino come bambini”.

Ma per Giacomo B. Contri, psicoanalista allievo di Jacques Lacan, il Piccolo Principe in realtà potrebbe essere nato dalla fantasia di un Dario Argento: lo giudica sintomatico della deriva culturale del mondo cattolico, di cui lui si sente parte. Così, in un’intervista del 2001 ha proclamato: «è un discorso al massimo livello, quello del Piccolo Principe. Vale più di un trattato di Kant. Per la corruzione che nasconde, è un modello esemplare. Si fa passare un messaggio religioso attraverso forme smussate, innocenti. Il messaggio è, però, quello di un pensiero legato al panteismo, legato a una forma di religiosità precedente al cristianesimo. "Tutto è mistero", viene detto qui. Ed è di una gravità equivalente al dire che "tutto è grazia". Esiste la grazia, quella lì. Non è vero che tutto sia grazia. Se esiste, è ben individuabile. I padri della Chiesa erano acuti». Restano dunque forti ambiguità, ambivalenze romantiche. Nel bene, come quando si centra il bersaglio del senso del peccato in età adulta:

"Perché bevi?" chiese il Piccolo Principe all'ubriacone.
" Per dimenticare che ho vergogna" risposte quest'ultimo.
" Vergogna di ché?" insistette il Piccolo Principe. " Vergogna di bere..". I grandi, decisamente, sono molto, molto bizzarri, si disse il Piccolo Principe mentre se ne andava.

O nel vago, quando si afferma che “Non si vede bene che con il cuore. L’ essenziale è invisibile agli occhi”. Un assioma per cui Contri sbotta: “Innanzitutto lo ritengo un occultista. Ti presenta la scatola, ma sul contenuto non dice nulla, garantisce lui. Cioè il contenuto resta sempre occulto… Se uno mi proclamasse questo, uscirei immediatamente, affermando di non appartenere alla comunità riunita lì dentro… È come l’oggetto nella scatola: non si vede e, se sai cosa è, è solo perché te l’ho detto io. Per il cristianesimo accade proprio il contrario: il mistero è così poco occulto, che ha un nome”.

O nel male, quando si ribadisce l’ambivalente fascinazione per il deserto:

" Dove sono gli uomini?" disse il Piccolo Principe "si é un po’ soli nel deserto".
" Si é soli anche con gli uomini" rispose il serpente.

L’ambiguità massima però la si raggiunge nel finale, che allude all’annuncio evangelico:

 So che è ritornato al suo pianeta, perché al levar del giorno, non ho ritrovato il suo corpo

E qui i piani della fiaba e della spiritualità, della poesia e del realismo dell’arte, della destinazione e del destinatario dell’opera si confondono irrimediabilmente.