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Più pericoloso dei malvagi e dei bricconi è l’uomo onesto che s’inganna

di Francesco Lamendola - 29/06/2014

Fonte: Arianna editrice


 


 

Era una gran testa fina, l’economista Ferdinando Galiani (nato a Chieti il 2 dicembre 1728 e morto a Napoli il 30 ottobre 1787), conosciuto anche, semplicemente, come l’abate Galiani: studioso di Vico, discepolo di Antonio Genovesi, amico di Diderot e autore di un trattato «Della moneta» in cinque libri.

C’è una sua sentenza, riportata anche da Antonio Gramsci nei suoi «Quaderni dal carcere», che lascia folgorati per la sua asciutta, spinosa acutezza: «Credetemi, non abbiate paura né dei bricconi, né dei malvagi. Abbiate paura dell’onesto uomo che s’inganna; egli è in buona fede verso se stesso, crede il bene e tutti si fidano di lui; ma, sfortunatamente, s’inganna circa i mezzi di procurare il bene agli uomini» (Q. 1, § 120; cit. in: Gramsci, «Le opere. La prima antologia di tutti gli scritti», a cura di A. A. Santucci, Roma, Editori Riuniti, 1997, pp.208).

Il briccone e il malvagio, evidentemente, non sono in buona fede; e, il più delle volte, la cosa appare evidente; sicché, se qualcuno vuol dare loro ascolto, è libero di farlo: ma certo non avrà il diritto, poi, di dolersi d’averlo fatto. L’uomo onesto, invece, reputato tale da tutti, e convinto egli stesso di non avere altro desiderio che quello della verità e del bene comune, può diventare pericolosissimo, allorché venga preso sul serio, ascoltato, imitato e seguito, laddove egli, certo in buona fede, s’inganni, non sul fatto di cercare e perseguire il bene, ma sulla maniera giusta di farlo: perché il suo cattivo esempio diverrà contagioso e pressoché inestirpabile.

La cosa si può dire anche in termini più bruschi, ma più semplici, press’a poco così: fa più danno un brav’uomo imbecille, che un farabutto intelligente. Quest’ultimo, proprio perché intelligente, non ha interesse a portare all’estremo la propria ribalderia: sa che di essa può campare, ma solo a patto di rimanere entro certi limiti. Lo scroccone, il profittatore, l’usuraio, sanno che non conviene loro spremere oltre ogni limite il prossimo, altrimenti cesserebbe anche la loro convenienza; sanno che, per tosare la pecora, bisogna darle il tempo che la sua lana torni a crescere: non giova tosarla fino alla carne viva, rischiando di ucciderla. Morta la pecora, di che cosa vivrà il pastore? Distrutte le possibilità economiche di un individuo o di una società, di che cosa vivranno gli usurai e le grandi banche d’affari?

Ma per il brav’uomo che sia anche un imbecille, le cose stanno altrimenti: egli non ha il senso del limite, perché non ha il dono dell’intelligenza. Inoltre, è portato a sopravvalutare la propria facoltà di discernimento: è un brav’uomo, lo sa; e, del resto, glielo dicono tutti, con simpatia, con una certa ammirazione, senza dubbio con fiducia: tutti si fiderebbero affidargli un segreto, di lasciargli in custodia un oggetto prezioso, di domandargli un consiglio. È un brav’uomo, e i bravi uomini non possono, non devono sbagliare: la società si fonda su questo luogo comune, che, pur essendo palesemente infondato e addirittura assurdo, nondimeno si tramanda da sempre, generazione dopo generazione, nel mutamento dei governi, dei popoli, delle civiltà. È uno dei punti fermi del cosiddetto buon senso, ovvero del senso comune: sono i bravi uomini a mandare avanti il mondo; se non ci fossero loro, tutto andrebbe a catafascio.

Il problema è che bisognerebbe vedere un po’ più da vicino di che pasta sia fatto il nostro brav’uomo. Bravo, in che senso? Nel senso che è sempre in buona fede? Che non ha secondi fini, che non ricorre ad astuzie e tantomeno a inganni; nel senso che ci si può fidare sempre di lui? Ma che cosa vuol dire, esattamente: fidarsi? Se io mi fido di un imbecille, ancorché onesto, sarò forse al riparo dalle conseguenze negative della mia scelta? Per fidarsi a ragion veduta, bisogna essere almeno in due: la persona di cui ci si fida, e il giudizio che noi stessi ci facciamo intorno alla persona di cui abbiamo deciso di fidarci. Di conseguenza, se io mi fido di un imbecille, probabilmente sono un po’ imbecille anch’io: ma che farci? Quando mai l’imbecille è consapevole di essere tale? E lo stesso vale per il brav’uomo, del cui giudizio tutti sono portati  a fidarsi: egli sa di essere un brav’uomo, e lo sanno anche i suoi concittadini; ignora, d’altra parte, di essere un imbecille, e lo ignorano anche loro. Dunque, come uscire dal circolo vizioso?

Evidentemente – lo sapeva anche il gran padre Dante, stando a come ha concepito la zona più profonda dell’Inferno – è cosa assai peggiore rimanere ingannati da qualcuno in cui si ripone la propria fiducia, che non rimanere ingannati da qualcuno del quale si ha ragione di diffidare. Finché si diffida, si sta in guardia; ma quando ci si fida, si abbassa la guardia e si è pronti ad accettare qualunque cosa. Così fanno anche gli amanti, allorché hanno sciolto le ultime barriere e si sono abbandonati l’uno verso l’altro: si fidano al cento per cento, dunque sono assolutamente inermi. Se uno dei due tira fuori il coltello, l’altro continuerà a fidarsi, fino all’ultimo: farà prima a subire la ferita a morte, che a sospettare l’inganno, a proteggersi contro un possibile tradimento. È triste, ma è così: tale è la natura umana, allorché si appaga di se stessa e si rinchiude nella propria finitezza. Altro discorso andrebbe fatto per la vita soprannaturale, che si apre con l’effusione della grazia: essa trascende la misura ordinaria del finito ed eccede gli abituali giochi di potere, così radicati nella dimensione del finito che anche l’uomo più generoso, anche l’amante più innamorato, non possono dirsene mai del tutto immuni.

La natura umana ha in se stessa qualcosa dello scorpione: appena ne ha l’occasione, punge; non importa se, così facendo, l’uomo compie anche il proprio danno; non importa se, distruggendo la fiducia reciproca, trasforma anche i momenti di massima confidenza e tenerezza in un banco di prova della perfidia e dell’ingratitudine, rendendo il mondo un luogo inabitabile e facendo fuggire, inorridite, l’innocenza e la lealtà. Se gli uomini non fossero capaci di alzare lo sguardo al Cielo e di invocare dall’alto la vita soprannaturale, capace di trasformare i loro istinti primordiali in qualcosa di più nobile ed elevato, di più benevolo e altruistico, il mondo, per dirla con Jacopo Ortis, sarebbe una foresta di belve, perennemente insanguinata. Un luogo orribile, una anticamera dell’inferno. Non è così, o non sempre è così, perché negli uomini traluce un pallido riflesso della grazia: una bontà superiore a quella di cui sono naturalmente capaci; perché la bontà di cui sono capaci secondo natura, anche nei casi più fortunati, è pur sempre limitata e imperfetta.

E adesso torniamo al nostro brav’uomo, di cui tutti si fidano, e che si fida di se stesso. Egli si ritiene una brava persona, e non ha torto di pensarlo: di fatto, lo è realmente, e non ce ne sono molti che potrebbero stargli a fianco, quanto a onestà e fidatezza. Nessuno, come lui, vi saprà dare un consiglio disinteressato: per questo i suoi gesti diventano esempi, le sue parole diventano Vangelo. E qui sta il pericolo. Se è un imbecille, o se è, semplicemente, un po’ vanitoso – magari non tanto, ma quanto basta per lusingarsi dell’universale ammirazione che lo circonda e che lo ricompensa, forse, di altre rinunce, di altre limitazioni – potrebbe diventare una sorta di pifferaio magico: qualcuno che conduce gli altri verso il disastro. Non basta, infatti, desiderare il bene: bisogna anche saper vedere quali sono le strade che conducono verso di esso. E non basta, per fidarsi di qualcuno, essere certi che si tratti di una brava persona: bisogna anche avere ragionevoli elementi per escludere, quantomeno, che si tratti di un imbecille; perché l’imbecille conduce gli altri – oh, ma in perfetta buona fede, si capisce - verso il precipizio.

L’imbecille, o il fanatico: come il fanatico padre Jocelyn, il protagonista del romanzo di William Golding «La guglia»: un uomo dalla trascinante capacità di suggestionare gli altri, di condurli dove ritiene giusto, di spronarli verso una meta sbagliata e impossibile. Solo che il fanatico, di solito, lo si riconosce al volo: bisogna essere davvero sprovveduti per non essere capaci di farlo. L’imbecille, invece, non sempre lo si riconosce di primo acchito: specialmente se è, sotto ogni punto di vista, una brava persona. C’è qualcosa, in noi, cui ripugna l’idea di qualificare come imbecille una brava persona: ci si aspetterebbe che la brava persona possieda anche il dono dell’intelligenza, o almeno di un certo grado d’intelligenza. Ma non è vero: la persona brava, la persona onesta, può anche possedere un grado d’intelligenza al disotto della media. Al disotto della nostra, che vorremmo affidarci al suo consiglio e al suo esempio. Perché qui viene in luce un’altra caratteristica debolezza della natura umana: la pigrizia. Si ha fastidio di assumersi la responsabilità delle proprie scelte; si preferisce “fidarsi” di qualcuno che ci dica quel che dobbiamo fare e come lo dobbiamo fare. È molto più semplice e sbrigativo. Si tratta dello stesso meccanismo per cui, nel corso della nostra vita, ci fidiamo innumerevoli volte di persone dalle quali dipendono la nostra salute – il medico -, i nostri risparmi – l’impiegato di banca -, il nostro futuro come membri del corpo sociale – l’amministratore pubblico e il politico. Ci fidiamo di loro per pigrizia: non stiamo a discutere le diagnosi del medico, né gli investimenti che ci consiglia l’impiegato di banca, specialmente se li conosciamo da anni e se, a naso, sentiamo di poterci fidare di loro, in quanto ci paiono delle brave persone. Quanto al politico, ci fidiamo perché appartiene al partito dei cui slogan abbiamo deciso di fidarci, in quanto si avvicinano a quel che pensiamo noi.

Ci fidiamo anche di quel che dice il giornale che comperiamo tutte le mattine, anche se, in qualche oscuro recesso della nostra coscienza, sappiamo che non dovremmo farlo, che la nostra fiducia è mal riposta, o, per meglio dire, che è una forma di ipocrisia: perché, in fondo, noi vogliamo essere ingannati, non chiediamo altro che di essere ingannati. Ci comportiamo come uno che semina monete e banconote per la strada: certo non si aspetta che tutti i passanti corrano in cerca del loro proprietario; sa che l’occasione fa l’uomo ladro, e che tutti quelli che passeranno, si metteranno il denaro in tasca senza pensarci due volte. E così facciamo noi, quando leggiamo con fiducia le vergognose panzane che i giornali ci rifilano ogni santo giorno: sappiamo, in fondo, che si tratta di spazzatura immonda, ma facciamo finta che si tratti di merce buona: leggiamo, ci fidiamo, a andiamo via contenti, pensando di essere stati bene informati. Lo pensiamo con una parte del nostro cervello; ma, per un altro verso, sappiamo benissimo che non è così. Però non vogliamo ammetterlo, perché, se lo facessimo, dovremmo guardare in faccia la nostra pigrizia morale. Meglio far finta che vada tutto bene, allora: come il marito cornuto che vuole auto-convincersi che la moglie gli sia più che mai fedele e che, quando esce di casa a tutte le ore del giorno e della notte, nondimeno pensa sempre a lui e solamente a lui.

Siamo complicati? No, siamo fin troppo semplici; perfino banali. Quando non ci apriamo alla dimensione superiore della grazia, l’elenco dei nostri comportamenti stupidi e autolesionisti diventa perfino monotono, prevedibile. Eppure ricadiamo sempre negli stessi errori. Sono questi automatismi che ci fanno vivere a un livello meno che mediocre: la pigrizia, l’ipocrisia, la mancanza di coraggio e di lealtà verso noi stessi e, di riflesso, verso gli altri. Dunque, abbiamo bisogno di fidarci: è umano; ma sappiamo che, salvo rare eccezioni, di regola non dovremmo fidarci di alcuno, se non di Dio e della nostra coscienza. Ma questo sarebbe faticoso, perciò preferiamo lasciarci prendere per il naso o trascinare lungo strade sbagliate, mascherandoci dietro la foglia di fico della nostra buona fede o, addirittura, della nostra ingenuità. Alla fine, se le cose andranno male, potremo sempre dire: «E io che mi ero fidato di lui!»; passeremo per vittime ai nostri stessi occhi: e così ci assolveremo in un mare di auto-compatimento. La colpa sarà sempre di qualcun altro, e noi ne usciremo puliti e innocenti come bimbi.

Dunque, non è che sia meglio non fidarsi: è che bisognerebbe imparare a fidarsi in primo luogo di chi non sbaglia e non tradisce mai: Dio; e solo in seconda istanza, se proprio non sappiamo a che santo votarci, di chi non tradisce, ma qualche voglia sbaglia: gli amici e le “brave” persone, ma anche soprattutto noi stessi. Noi stessi sbagliamo, peraltro, e noi stessi, qualche volta, tradiamo la nostra parte migliore: anzi, lo facciamo più spesso di quel che non vorremmo ammettere. Scegliere gli amici a cui rivolgersi per un consiglio, poi, è cosa particolarmente delicata. Ancora una volta faremmo bene ad ascoltare Dante: l’amico che ci può ben consigliare è «colui che vede e vuol dirittamente e ama» («Par.», XVII, 105): cioè colui che vede le cose nei loro termini effettivi, che è capace di valutare in modo retto e che è animato da autentico amore nei nostri confronti.

I brav’uomini un po’ imbecilli non potrebbero fare tutto il male che fanno, e sia pure senza volerlo, se noi non dessimo loro così tanta fiducia; gliela diamo perché non abbiamo voglia di sobbarcarci la fatica di fidarci di noi stessi: cosa che richiede un notevole dispendio di energie. Ma sono assai più le energie che dissipiamo percorrendo strade sbagliate, al seguito di guide sbagliate e in buona fede.