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La sindrome di Crimea

di Sergio Romano - 25/08/2006

 
Missioni all'estero e ricerca di riconoscimenti
 
 
Quando decise l'invio di 18 mila uomini in Crimea nell'aprile del 1855, Cavour sapeva che le truppe del Regno di Sardegna non avrebbero dato un contributo decisivo alla vittoria contro la Russia o alla soluzione della Questione d'Oriente. Voleva soltanto prenotare per sé e per il Piemonte un posto al tavolo della pace. Vi fu un dignitoso combattimento sulle rive di un torrente e Cavour poté partecipare al Congresso di Parigi, nella primavera dell'anno seguente, per agitare di fronte alle grandi potenze la questione italiana. L'operazione quindi andò bene. Ma i successi possono produrre riflessi automatici, non sempre positivi. Anziché restare un episodio di storia nazionale, la «guerra di Crimea» divenne un modello virtuoso. Quando Pasquale Stanislao Mancini non volle partecipare con la Gran Bretagna alla repressione di una rivolta egiziana nel 1882, Francesco Crispi lo rimproverò aspramente in Parlamento e nel Paese, lamentò l'occasione perduta e creò il clima per future missioni, fra cui Creta nel 1897 e la Cina all'epoca della rivolta dei boxer nel 1900. Tralascio le guerre combattute per spirito di conquista e mi limito a constatare che le «partecipazioni» in nome della pace e del diritto sono tanto più numerose quanto più i governi italiani condannano il ricorso alle armi. Dopo l'approvazione di una Costituzione in cui l'articolo 11 «ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali», i soldati italiani sono andati, tra l'altro, nel Sinai, in Congo, nel Libano meridionale, a Beirut, nel Golfo Persico, in Somalia, in Bosnia, in Albania, nel Kosovo e più recentemente in Afghanistan e in Iraq. Quando Giulio Andreotti lasciò capire che la partecipazione italiana alla Guerra del Golfo, nel gennaio del 1991, gli sembrava inopportuna, gli interventisti prevalsero. Ciascuna di queste operazioni ha caratteristiche e giustificazioni diverse.
Ma sono tutte manifestazioni di una malattia che affligge il Paese dal momento della sua unità. L'Italia è nata grazie all'aiuto determinante delle due maggiori potenze militari del continente, la Francia e la Prussia. Ha perduto alcune memorabili battaglie. Ha abbandonato i suoi alleati per passare nel campo dei loro nemici. Ha dimostrato in altri momenti di sapere combattere, ma ha finito per acquisire una sgradevole reputazione di inaffidabilità militare. Si direbbe che la partecipazione a una missione armata sia considerata da tutti i governi, di destra o di sinistra, il mezzo migliore per correggere questa immagine, dimostrare che il Paese esiste e ha il diritto di essere trattato con rispetto. Naturalmente il governo Prodi sosterrebbe che tra una missione in Libano, organizzata per impedire lo scoppio di un nuovo conflitto, e l'invio di truppe in Iraq dopo l'invasione americana del Paese esiste una fondamentale differenza. E potrebbe aggiungere con ragione che l'Italia ha un evidente interesse alla preservazione della pace sulle coste meridionali del Mediterraneo. Ma in ogni missione militare italiana, quali che siano le sue motivazioni, esiste un dato comune: per il governo che prende l'iniziativa le considerazioni politiche e la speranza di qualche riconoscimento, in Italia e all'estero, prevalgono sul calcolo dei rischi militari. Il governo Berlusconi mandò truppe in Iraq senza accorgersi che la guerra non era ancora finita. Prodi e D'Alema sanno che in Libano vi è soltanto una fragile tregua. Ma vorremmo essere certi che hanno preso in considerazione anche la possibilità di una «missione di pace» costretta a combattere su due fronti.