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Un po' di sano fatalismo

di Massimo Fini - 03/02/2015

Fonte: Massimo Fini

    

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Nelle more dei fatti di Parigi è passata quasi inosservata una notizia di grande interesse. Un gruppo di scienziati della prestigiosa Johns Hopkins University, dopo una serie di approfondite ricerche, ha concluso che solo un terzo dei tumori ha alla sua origine lo stile di vita o fattori ereditari, i due terzi sono dovuti, per usare un termine di uno di questi ricercatori, Bert Vogelstein, alla sfortuna. È una notizia liberatoria che se non fa piazza pulita del terrorismo diagnostico e della medicina preventiva dovrebbe perlomeno frenarne gli eccessi, per cui oggi negli Stati Uniti si tolgono le ghiandole mammarie a ragazzine di dodici tredici anni, con i traumi che sono facilmente immaginabili, per metterle al sicuro dal rischio di sviluppare tumori in età adulta dato che la loro madre o altre parenti di sesso femminile sono morte di cancro al seno (a questa operazione si è sottoposta anche la bellissima Angelina Jolie, sia pur in età matura).

Ma il significato della ricerca degli studiosi della Johns Hopkins va oltre. Per la prima volta la Scienza, solitamente così sicura di sé, ammette la propria limitatezza di fronte all'Imponderabile, al Caso, a quello che i Greci, tanto più sapienti, chiamavano Fato per cui ognuno di noi ha un destino, imperscrutabile, il cui senso si può cogliere solo alla fine della nostra esistenza. Così come quasi ogni fatto che ci capita nella vita quotidiana può essere valutato solo a posteriori. Quante volte a chiunque di noi è accaduto di accorgersi che un'esperienza che all'apparenza appariva un bene si è rivelata invece un male e viceversa?

Del pari la ricerca della Johns Hopkins ci libera, o dovrebbe liberarci, di una delle più perniciose ossessioni del mondo contemporaneo: la pretesa del controllo. Noi vogliamo controllare tutto. Ci assicuriamo su tutto e poi ci assicuriamo sull'assicurazione in un processo psicologico, che sarebbe forse più esatto chiamare psicoanalitico, che è all'origine di tante delle nostre ansie e delle nostre nevrosi. Siamo convinti di esserci protetti nel migliore dei modi e poi una mattina usciamo di casa, ci cade un mattone sulla testa e la festa è bell'e che finita. Naturalmente questa ossessione del controllo è particolarmente presente nella medicina moderna (e sono convinto che la casualità che gli scienziati della Johns Hopkins hanno trovato per il tumore valga anche per molte altre malattie). Secondo i suoi canoni dovremmo fare almeno sei esami l'anno, test, visite di routine (pratica quanto mai sinistra perché raramente se ne esce senza danni e si viene inghiottiti nel girone infernale della medicina tecnologica), dovremmo auscultarci, palparci ad ogni momento, essere tesi a percepire ogni minimo segnale di un rischio che quasi sempre non è che il riflesso di un'ipocondria collettiva diffusa, non sempre disinteressatamente, dalla medicina di oggi, secondo la quale dovremmo vivere da malati quando siamo ancora sani, da vecchi fin da giovani.

«La vita è un rischio» scriveva Giuseppe Prezzolini. È vivere che ci fa morire. È ovvio. Ma per questo dovremmo rinunciare a viverla standocene imbozzolati nelle nostre paure? La ricerca della Johns Hopkins riporta in circolo un po' di sano fatalismo, «lontani dalle torture salutiste e dalle diete» come scrive Stefano Zecchi. Cerchiamo di goderci la vita, qui e ora, senza curarci troppo di un futuro di cui poco o nulla si può sapere. Per dirla con Lorenzo il Magnifico: «Quant'è bella giovinezza/che si fugge tuttavia/Chi vuol esser lieto sia/di diman non v'è certezza».