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Il Maestro dell'Indicibile (I)

di Miguel Martinez - 13/09/2006

 

Si vive intensamente, di questi tempi, appena si alza la voce contro il male.

Tanto che diventa difficile capire da dove iniziare a raccontare. Quello che è successo in questi giorni lo saprete, probabilmente, dalla televisione e dai quotidiani, e comunque il blog di Sherif preseta un'ottima antologia mediatica sul caso Friedman.

Un timido eppure coraggioso adolescente, di trentaquattro anni, nato quando sua maestà Francesco Giuseppe d’Austria era ancora giovane, scagliato dentro tutti gli orrori dei nostri tempi – ecco come definirei Moishe Friedman, rabbino discendente di generazioni di rabbini.

Vive a Vienna, è cresciuto a New York, ma parla con un forte accento sia in tedesco che in inglese. “Ma qual è la sua lingua madre?”, gli chiedo. “Lo yiddish”. Una lingua che credevamo quasi estinta, soppressa in Israele - come racconta Tom Segev nel Settimo milione - quasi fosse una vergogna nazionale.

Sorridente, le scarpe nere sempre incredibilmente lucide, occhi azzurri vivissimi, voce delicata e cortesia austroungarica – gnädige Frau – , Rav Friedman rovescia il cuore mitico della violenza imperiale, sostenendo una cosa semplicissima: il sionismo è la negazione e la morte del giudaismo.

È quello che pensavano quasi tutti gli ebrei religiosi fino a pochi decenni fa. Anzi, è una cosa che dovrebbe essere ovvia a chiunque.

Essere ebrei vuol dire essere una comunità che vive in questo mondo esclusivamente per obbedire alle intenzioni di Dio in ogni minimo aspetto di una vita che è anche un continuo rito. Cosa c’entra questo con un’ideologia nazionalista ottocentesca, inventata da atei che sognavano di diventare i più agguerriti dei goyim, con le sole forze delle armi e una faustiana volontà?

Solo la grande falsificazione del dominio può trasformare questa ovvietà in qualcosa di indicibile,  qualcosa che supera i limiti stessi di quello che è permesso dire oggi.

Indicibile non lo uso in senso metaforico.

Il rabbino Friedman ha parlato lunedì scorso, durante un convegno in una sala del parlamento italiano. Era un piccolo convegno indetto dall’Islamic Anti-Defamation League, e c’erano al massimo una cinquantina di persone.

Era l’11 di settembre. Lo stesso giorno, al senato, ha parlato l’ambasciatore di uno stato che ha compiuto sequestri di persona nel nostro paese. Il rabbino, invece, non ha mai fatto male a nessuno.

Mentre le parole dell’ambasciatore statunitense sono cadute in un meritato oblio, quelle del rabbino hanno creato scandalo proprio perché aveva detto, con la sua voce pacata, l’indicibile.

Ecco qualche commento. Riccardo Pacifici, portavoce della comunità ebraica sionista: “Come e' stato possibile permettere quest'orgia dell'odio?”

Per Simone Baldelli di Forza Italia, il fatto che gli sia stato permesso di parlare apre una “grave questione politica”.

Per Fausto Bertinotti, le sue idee sono di una “gravità inaudita”.

Per  Calderoli, le sue parole fanno “rivoltare nelle tombe” i morti delle Torri Gemelle.

Per  Maurizio Gasparri,  le sue  parole “non rientrano nella libertà di espressione”.

Ma la cosa più significativa è la difesa avanzata da “ambienti della camera”, che anziché denunciare questo attacco alla libertà di opinione, si giustifcano dicendo di non poter esercitare "alcun potere di censura.”

Cinque anni fa, un mio amico disse che il vero scandalo di questo paese non era che un solo uomo possedeva tre reti televisive su sei, ma che sei reti su sei appoggiavano l'invasione dell'Afghanistan. Gli sguaiati urli della rissa permanente tra i partiti ci danno l'illusione di libertà. Ma appena si osa uscire dal piccolo circolo di ciò che è lecito dire o pensare, ecco che si svela tutta la furia censoria dei dominanti.