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Le molte facce del neoliberismo: squilibrio distributivo e crisi finanziaria

di Alessandro Monchietto - Luigi Tedeschi - 13/03/2016

Fonte: Italicum


1. Il principio dominante di ogni società liberale è quello della fondamentale libertà dell’individuo, quale soggetto titolare di diritti civili, politici ed economici. Il riconoscimento di tali diritti comporta la necessaria non ingerenza dello stato rispetto alla libera determinazione politica ed economica dell’individuo. Ma tali diritti, in palese contraddizione con i fondamentali diritti dell’uomo, oggi vengono ad essere negati nella società globalizzata del nostro secolo. Infatti l’odierno capitalismo è la negazione del laissez – faire del liberismo classico. Oggi il capitalismo si identifica con l’egemonia pressoché assoluta degli oligopoli delle multinazionali e delle holding finanziarie. Il capitalismo attuale è estremamente elitario e dirigista, impone riforme strutturali in campo politico e sociale, rigide regolamentazioni finanziarie che annullano di fatto le libertà politiche ed economiche. Ai poteri sovrani degli stati nazionali, in via di estinzione, si sostituisce la governance degli organismi internazionali: la democrazia viene ad essere esautorata dalle oligarchie economiche. La liberal democrazia ha dunque subito una eterogenesi dei fini creando un ordine mondiale che è l’opposto di essa stessa, oppure tale nuovo ordine rappresenta il logico, conseguente risultato di un processo di evoluzione di una ideologia liberale che di per sé stessa conduce al totalitarismo economico attuale?

 

L’idea comune di molte spiegazioni mainstream è che la crisi in atto, nata nella finanza, trovi spiegazione – e soluzione – dentro la finanza stessa, nelle sue regole e nei comportamenti degli operatori.

La tesi predominante (nei media come nell’accademia) attribuisce tutta la colpa alla “finanza cattiva” la quale, complice l’inadeguatezza dei regolatori, ha trascinato nel suo fallimento anche l’economia reale. Insomma, se non ci fosse stato il Lupo Cattivo Finanza il Cappuccetto Rosso Impresa sarebbe in ottima salute.

A mio parere quella che vede la causa della crisi solo nell’avidità dei banchieri, negli errori della regolazione, nei prodotti finanziari opachi è una spiegazione alquanto parziale, utile a distogliere l’attenzione dagli squilibri reali.

La crisi attuale, pur essendosi indubbiamente resa visibile nella sfera finanziaria, non per questo trova una spiegazione al suo interno: il rischio sistemico della finanza ha invece origine dall’attacco al lavoro degli ultimi decenni. La finanza è infatti stata il modo singolare ma efficace per rispondere alla tendenza alla stagnazione da domanda, che è l’altra faccia della massiccia precarizzazione del mercato del lavoro.

A partire dalla fine degli anni ottanta si è affermato un meccanismo di accumulazione capace di spingere verso l’alto la produzione senza aumentare i salari, capace di accrescere l’occupazione senza aumentare l’inflazione. Il risultato è stata la quadratura del cerchio, il sogno di ogni capitalista: un lavoratore che vede diminuire il proprio salario, ma che nonostante questo consuma come (se non più) di prima.

Si è così affermato un nuovo sistema finanziario che non solo svolge la consueta funzione di infrastruttura a supporto della produzione, ma che provoca un “effetto ricchezza” attraverso cui è possibile allargare il debito privato delle aziende e dei consumatori.

Da questo punto di vista, la finanza non è la malattia, ma il sintomo della malattia e al tempo stesso la droga che ha permesso di non avvertirla (e che quindi l’ha cronicizzata). Non è dunque un problema di instabilità finanziaria: è un problema di domanda effettiva, che nasce dalla organizzazione della produzione e del lavoro. Se le economie avanzate dell’Occidente vogliono continuare a svilupparsi nella democrazia devono tornare a far oscillare il pendolo della storia nella direzione contraria.

 

2. Le crisi che si sono succedute negli ultimi 20 anni hanno condotto a profonde trasformazioni nella struttura della società. Si sono ampliate le diseguaglianze sociali a causa della destrutturazione dello stato sociale, ad una legislazione del lavoro basata sul contratto collettivo di lavoro si è sostituito un ordinamento inspirato alla flessibilità e precarietà del lavoro, il ceto medio e la piccola e media impresa sono in via di estinzione, la disoccupazione è assai diffusa. Gli equilibri sociali scaturiti dal modello dell’economia mista si sono dissolti con l’avvento del capitalismo assoluto. Nell’ottica dei diritti sociali, è evidente il fallimento del sistema economico – sociale prodotto dal liberismo occidentale. Occorre tuttavia considerare che l’autoreferenza dell’economia nello sviluppo della società è un falso dogma. Non esiste un fondamento naturale dello sviluppo economico, così come postulato dalle teorie liberali. In realtà l’avvento del capitalismo globale è scaturito dall’ascesa al potere nei paesi anglosassoni di una classe dirigente che ha imposto un nuovo ordine, in via prospettica estensibile a tutto il mondo, e quindi il globalismo liberista sussiste in quanto sostenuto una volontà politica che ha determinato la deregolamentazione dei mercati, le privatizzazioni generalizzate, le delocalizzazioni industriali, il dominio finanziario globale. Pertanto, la struttura economica della società viene generata dalle finalità perseguite dalla classe politica dominante. Poiché quindi, lo stato sociale, la redistribuzione dei redditi, l’emancipazione delle masse, non rientrano nelle finalità del modello economico – sociale liberista, i costi sociali dell’attuale degrado sociale regressivo, non può essere considerato l’esito fallimentare di una società capitalista fondata sulla forma merce e sull’illimitato profitto individuale. Non si può contestare l’economia liberista senza risalire ai fondamenti politici ed ideologici su cui si è affermata la classe dominante. Rilevare l’assenza di politiche sociali nel modello liberista equivarrebbe a contestare l’assenza del libero mercato nella società del socialismo reale.

 

È inconfutabile il fatto che il capitalismo abbia rappresentato storicamente il sistema economico del liberalismo. Io direi che non solo lo è storicamente, ma lo è anche logicamente, e per tale ragione rimango perplesso di fronte a chi si schiera contro il capitalismo senza considerare esplicitamente la logica perversa dell’ideologia liberale, o – ancor peggio – ne fornisce una lettura superficiale e caricaturale.

Si tratta di teorie che ipotizzano ad esempio il ritiro dello stato nell’economia, il quale non è mai avvenuto nella realtà: stiamo al contrario vivendo in un regime di politiche economiche molto attive (se non addirittura “interventiste”), di sostegno a un certo tipo di domanda e a un certo tipo di motore della domanda.

Il neoliberismo non è affatto “il ritiro dello stato dall’economia”, ma è un peculiare intervento statale non favorevole alla classe lavoratrice. Il passaggio dal liberalismo al neo-liberalismo va dunque letto non come lo “svuotamento” del politico in favore dell’economico, bensì come il “riempimento” del primo in senso esclusivamente economicistico.

Nella seconda metà del novecento il liberalismo economico si è riassestato e ha assunto una veste specifica e una razionalità del tutto peculiare; il neoliberismo, lungi dall’essere stato in continuità con la dottrina liberale classica, ha concorso alla realizzazione di una inedita regolazione delle istituzioni economiche, ridefinendone forma e funzioni. L’ideologia del laissez-faire è stata progressivamente soppiantata da un massiccio e zelante interventismo volto a organizzare il mercato, a instaurare attivamente un regime basato sulla concorrenza, a rafforzare il diritto privato e commerciale e a diffondere il modello imprenditoriale a tutti gli ambiti, dall’amministrazione pubblica fino alle condotte soggettive.

Ritengo pertanto irricevibile, poiché sostanzialmente fuori bersaglio, ogni posizione che voglia delineare il contesto attuale come trionfo dell’ideologia del “mercato autoregolatore” e dello “Stato minimo”, e credo si debbano smentire i commentatori che annunciano enfaticamente un presunto esaurimento del ruolo di governo dello Stato sull’economia.

È dunque opportuno ridiscutere la rappresentazione mediatica (e spesso parodistica) del neoliberismo, analizzandone la specificità. Come ho evidenziato assieme a Giacomo Pezzano in un breve saggio pubblicato nella volume Ringiovanire il modo (Padova 2015), se il liberalismo classico aveva come tema comune quello dei limiti del governo (attraverso la discussione della separazione delle sfere pubbliche e private) il neoliberismo contemporaneo risulta caratterizzato dallo slittamento della domanda sui “limiti del governo” a quella su come rendere il mercato il “principio” del governo.

Mi appare a tal riguardo dirimente il fatto che gli stessi esponenti del neoliberalismo (tradizionalmente associato alla Scuola di Chicago, a quella di Vienna e a quella tedesca ordoliberale) abbiano voluto rappresentare le proprie posizioni distinguendole esplicitamente da quelle liberali. Nella conferenza Lippmann di Parigi nel 1938 – considerata l’atto di nascita del pensiero neoliberale – si riconosce che l’errore del liberismo classico sia stato quello di considerare le leggi del mercato come “immediatamente naturali”, mentre l’ordine del mercato andrebbe concepito come “ordine costruito” mediante un’agenda politica che operi in maniera permanente per costituirlo e mantenerlo, venendo a “supplire” all’incapacità degli equilibri naturali di “emergere da soli”.

Mentre il paradigma liberale presenta una situazione in cui occorre stare fermi per lasciare che il processo spontaneo dello scambio faccia il proprio corso, il paradigma neoliberista ne presenta una in cui occorre non solo rimuovere attivamente tutti gli ostacoli che impediscono al “naturale” di manifestarsi e fare il suo corso, ma risulta necessario attivarsi per costruire lo spazio adatto affinché tale corso possa attuarsi. In un caso ogni artificio è visto come dannoso rispetto al naturale, nell’altro occorre agire per favorire e spingere artificialmente il naturale al proprio limite e alla pienezza della propria realtà.

È proprio perché il mercato ha bisogno dello stato che questo deve adeguarsi alle esigenze di quello: se da un lato «le istituzioni economiche non nascono né prosperano se non c’è la volontà politica» e diventa «necessario un intervento organizzato per dar vita alle infrastrutture del mercato», poiché «i mercati non possono prosperare senza l’intervento visibile dello stato, indispensabile per realizzare e mantenere l’infrastruttura che consenta ai partecipanti di commerciare liberamente e con fiducia» (R. G. Rajan, L. Zingales, Salvare il capitalismo dai capitalisti), dall’altro lato «lungi dal propugnare uno “stato minimo”», si sostiene che il governo debba «creare un quadro di riferimento entro cui gli individui e i gruppi possano perseguire con successo i loro rispettivi fini» ossia «un quadro di riferimento salutare per il libero sviluppo di una società» (F. A. von Hayek, Legge, legislazione e libertà. Critica dell’economia pianificata).

Se Keynes intendeva lo Stato come freno del laissez-faire, il “neoliberalismo” invece lo intende, in un certo senso, come propulsore. È in tal senso che la dimensione politica, lungi dallo sparire sopraffatta da quella economica, diventa la vera e propria posta in palio: non il politico dunque che si ritrae a favore dell’economico, bensì il politico che si ramifica e persino moltiplica, assumendo però veste e missione esclusivamente economiche.

 

3. La crisi sistemica di una società capitalista che non è in grado di superare le proprie crisi è evidente. Il dominio dell’economia finanziaria sull’economia produttiva preclude strategie economiche di ripresa della crescita, il malessere è assai diffuso. Il capitalismo del XXI° secolo ha dissolto le classi sociali del ‘900 e pertanto la stessa dialettica borghesia / proletariato. Ad una oligarchia finanziaria dominante, fa riscontro una estrema frammentazione sociale che impedisce contrapposizioni di classe. Alla global class finanziaria dovrebbe contrapporsi quella dei produttori. Dovrebbe cioè realizzarsi una unità di classe tra imprenditori e lavoratori. Tale prospettiva è oggi impossibile. La classe imprenditoriale è autoreferente nei propri interessi di parte. Le trasformazioni strutturali dell’economia globale hanno determinato la spinta all’omologazione (spesso fallimentare), alle evoluzioni della economia finanziaria. La classe lavoratrice è oltremodo frammentata. I gruppi dirigenziali si omologano essi stessi agli interessi della classe finanziaria. Le classi subalterne (formate in larga parte da vittime della proletarizzazione capitalista dei ceti medi), subiscono una sempre più accentuata compressione dei salari e dei diritti sindacali. Le esigenze di sopravvivenza precludono ogni possibile istanza di ribellione. Non esistono forze alternative al dominio capitalista per l’incapacità / impossibilità di creare nuovi soggetti sociali contrapposti. Il grande assente, non è dunque il “genaral intellect” teorizzato da Marx?

 

Ogni grande crisi è certo una crisi del modo di produzione capitalistico, ma è anche e soprattutto la crisi di una particolare (e storicamente determinata) forma di capitalismo.

Nel dopoguerra il capitalismo ha distribuito (seppur a denti stretti) ai lavoratori i loro guadagni di produttività, ma ciò si è verificato soltanto sino a che la controparte ha potuto far affidamento su una solida capacita di opposizione e su un mondo alternativo che incuteva timore. A tal riguardo si deve constatare, pur senza esagerare, che le acquisizioni sociali del dopoguerra in Europa sono legate anche alla capacità dei partiti operai di far fruttare una “minaccia indiretta” di lotta di classe. Come sottolinea Sloterdijk nel suo Ira e tempo, fu sufficiente condurre lo sguardo dell’interlocutore sulle realtà del “secondo mondo”, per rendere chiaro al versante degli imprenditori che – anche qui da noi – la pace sociale aveva il suo prezzo.

Le spese per la pace sociale in Occidente furono interamente da ricalcolare quando il potenziale di minaccia del socialismo iniziò ad attenuarsi in modo inarrestabile – non da ultimo a causa del fatto che l’Unione Sovietica, come mittente di minacce all’indirizzo dell’Occidente, era da prendere sempre meno sul serio.

Il patto sociale keynesiano si è dunque esaurito una volta che i beneficiari e gli amministratori del capitale ha cominciato a trovarlo troppo costoso, rendendo necessaria la sua sostituzione. Il neoliberismo non è nei fatti nient’altro che questo: un ricalcolo dei costi necessari per mantenere la pace interna nei paesi capitalisti.

Con l’ingresso nella situazione post-comunista (quella che Preve definiva “fase speculativa”, in cui l’occidente capitalistico si scopre senza alcun katechon) le condizioni di sovranità si sono rovesciate improvvisamente: le organizzazioni dei lavoratori hanno scoperto di possedere ormai ben poco per poter effettivamente intimorire la controparte, e il privilegio di minaccia è passato quasi unilateralmente dal lato delle imprese.

Quando la torta ha iniziato a non crescere più (a causa della crisi del regime di accumulazione post-bellico) e il potere contrattuale della controparte si è indebolito, chi aveva il coltello dalla parte del manico ha potuto tranquillamente decidere di tagliarsi una fetta più grande.

Come giustamente sottolinei, la dissoluzione del capitalismo democratico nell’assetto del dopoguerra ha reso evidente il contrasto insanabile tra ceti produttivi sempre più impoveriti e capitalismo delle élite globali sempre più alla ricerca di nuove fonti di guadagno per ricostruire i propri margini di profitto.

Il punto di svolta sono gli anni settanta, nel quale si è assistito alla perdita di centralità delle “istituzioni keynesiane” (sindacati e organizzazioni padronali entro l’arena della politica nazionale) in favore di “istituzioni hayekiane” (organizzazioni e istituzioni tecniche sovranazionali, non dotate di una legittimazione democratica).

A questo fenomeno si è accompagnata una rimozione, inavvertita ma non per questo meno insidiosa, della sostanza e delle ragioni dello Stato costituzionale (si vedano gli studi di L. Barra Caracciolo) e del modello di società democratica che esso incarnava. E qui si innesta un circolo vizioso altamente pericoloso: mentre cresce l’incompatibilità tra il sistema capitalista e la democrazia popolare, aumenta anche il sentimento che in effetti in un quadro globalizzato la politica non possa fare più la differenza. Ciò nonostante, solo nell’arena dello Stato nazionale è possibile articolare politiche di resistenza nei confronti della tempesta neoliberista, sviluppando una strategia complessiva in grado di ridurre la dipendenza dall’estero e capace di prevedere efficaci meccanismi di controllo dei movimenti di capitale, capace di investire in grandi progetti infrastrutturali e di governare il mutamento tecnologico in maniera da indirizzare l’aumento di produttività verso una composizione del prodotto socialmente utile ed ecologicamente sostenibile.

L’elaborazione di un pensiero patriottico, difensivo e democratico-costituzionale, il problema del perseguimento di un interesse nazionale e – prima ancora – della definizione di tale interesse mi appaiono pertanto cruciali.

 

4. L’economia liberale è fondata sul libero mercato. Da essa deriva una società di mercato. Le dinamiche del mercato e con essa gli equilibri economici e sociali sono improntati alla precarietà e alla instabilità permanente. Lo sviluppo è sinonimo di progresso continuo e illimitato. Le trasformazioni sono incessanti e progressive, le crisi sono evolutive, le distruzioni delle crisi ricorrenti sono creative, rigeneratrici del mercato. La storia coincide con l’estrema, precaria mutevolezza dell’ordine “naturale” della società liberale. Tuttavia è evidente oggi l’assenza di mobilità sociale, le crisi evolutive del libero mercato determinano progressive esclusioni ed emarginazioni di larghi strati delle masse. La storia sarebbe ridotta alla precarietà dell’eterno presente. Tale precarietà è tuttavia solo apparente: sembra in realtà che il capitalismo globale abbia sostituito la dimensione del tempo storico con una sorta di eternità immobile del presente. Infatti, le crisi del debito hanno creato un paradiso finanziario con pochi eletti e un inferno del debito con molti dannati. Si afferma comunemente che il debito condanna alla austerità e alla macelleria sociale molti popoli per generazioni. Tale prospettiva presuppone scenari astorici immutabili. Una realtà immutabile smentisce la stessa dimensione precaria dell’eterno presente, dato che ciò che è precario è sempre suscettibile di evoluzioni diverse. Lo stesso capitalismo non è suscettibile di ulteriori evoluzioni. L’ideologia liberale non ha generato una nuova teologia laica? L’immobilismo e il dogmatismo sono caratteristici degli ordinamenti in via di dissoluzione.

 

Come è stato evidenziato all’inizio di questo nostro dialogo, la ristrutturazione neoliberale ha prodotto un capitalismo per il quale il dipendente viene ad essere un debitore, anziché un semplice cliente. Alla filosofia del fordismo (secondo cui gli operai sono potenzialmente anche tuoi consumatori, quindi torna utile sostenere il loro potere d’acquisto attraverso un salario adeguato) si è sostituita un’altra filosofia, secondo la quale i tuoi lavoratori, se li paghi male, diventano debitori, e così ci guadagni due volte.

Da trent’anni a questa parte nei paesi “avanzati” alcune precise scelte di politica economica hanno compresso i salari e hanno distorto la distribuzione del reddito a favore dei più ricchi, trasformando il capitalismo da un sistema nel quale il dipendente è un cliente (un economista parlerebbe di economia wage-led, alimentata dai salari) a un sistema nel quale il dipendente è un debitore (un’economia debt-led).  Per citare un solo dato, la quota salari sulla ricchezza prodotta nell’Europa a 15 passa dal 68% della metà del 1970 al 57% del 2007: ciò significa che da più di trent’anni le nostre retribuzioni si sono mantenute ben al di sotto del nostro contributo alla crescita del paese.

Si è creato un vuoto e – come evidenzia Alberto Bagnai – il capitalismo «ha un horror vacui tutto particolare: appena trova un vuoto fra produzione e redditi, lo riempie di debito». Detto diversamente, un capitalismo che non distribuisce ai lavoratori un potere d’acquisto proporzionato a quanto hanno prodotto, si vedrà costretto a ricorrere al debito per finanziare la domanda di beni e servizi.

I destini delle popolazioni vengono così legati in modo stringente alle variazioni e alle fluttuazioni dei mercati finanziari. Ciò che non passa per il comando diretto, si esprime attraverso dispositivi di potere che vedono nella forma-debito un potente (benché non esclusivo) strumento, indefinitamente applicabile.

Il rimborso del debito è una appropriazione del tempo, è un’ipoteca del futuro. Il futuro sparisce intrappolato nel debito, e le politiche sociali vengono fatte nel suo nome e sotto il suo ricatto. Come sottolinea Maurizio Lazzarato un debito non è solo denaro da pagare, ma  comportamenti da cambiare, e tempo da passare assoggettati a dei vincoli. Si è costretti ad impostare la propria vita secondo questo requisito, e si deve assumere un livello di vita compatibile con il rimborso che si deve restituire.

Pensiamo a cosa è accaduto negli Stati Uniti con il credito agli studenti, dove l’80% degli studenti che terminano un master accumulano un debito medio di 77.000 dollari se hanno frequentato una scuola privata e di 50.000 dollari se si tratta di un’università pubblica. Essi si trovano ad avere debiti prima ancora di entrare nel mercato del lavoro, e sin dai loro vent’anni devono comportarsi come un’impresa individuale che deve pianificare e calcolare costi e investimenti, vedendosi costretti a mostrare interesse solo verso i programmi e i saperi che offrono la possibilità di ripianare il debito.

Come sottolineavi, in tal modo si assiste alla neutralizzazione del tempo, materia  prima di qualsiasi cambiamento politico o sociale. La durata di un rimborso può essere anche molto lunga ed estendersi nel corso degli anni, in cui il debitore deve organizzare la propria vita affinché possa saldarlo. La strana sensazione di vivere in una società senza tempo, senza autentiche possibilità, senza rotture storiche, trova in tale dinamica una delle sue principali spiegazioni.

Ciò che possiamo compiere per “far saltare il banco” è cercare di mettere in difficoltà – con proposte alternative e con lotte sociali – chi ci governa. L’obiettivo da porsi è quello di migliorare le condizioni materiali delle classi subalterne con ogni mezzo necessario. Che tale miglioramento passi attraverso politiche di riforma del sistema, o attraverso insurrezioni rivoluzionarie, è un aspetto che nella fase attuale (in cui ci troviamo respinti nelle retrovie e ben lontani dalla conquista del Palazzo d’Inverno) ritengo trascurabile. Il punto è riuscire a migliorare le condizioni dei dominati, e non perdere di vista quest’obiettivo.