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Un nuovo sistema energetico partendo dalle comunità locali

di Sabina Morandi - 15/09/2006

 
Mentre il presidente della Commissione europea Barroso ripropone la solita ricetta energetica - mercato, mercato e ancora mercato - e mentre i sindacati francesi si mobilitano contro la privatizzazione strisciante di Gaz de France, la costola italiana della Sinistra europea tenta l’impossibile: gettare le fondamenta per un Contratto mondiale per l’energia sul modello di quello per l’acqua lanciato a Porto Alegre. L’ambizione sta nei contenuti come nel metodo che si basa, in sostanza, sul confronto fra le mille differenti anime che si occupano di energia, dalle associazioni storiche come Legambiente e Wwf, ai comitati locali che sono stati costretti a colmare in fretta il gap informativo per non essere schiacciati dal parere di esperti troppo spesso prezzolati.

Quello che è uscito fuori dai due giorni di dibattiti che si sono tenuti nel villaggio della Sinistra europea alla festa di Liberazione di Roma - ai quali hanno partecipato anche Mario Agostinelli, Ciro Pesacane, Francesco Martone ed Elio Romano, solo per citarne alcuni - è qualcosa di molto più concreto dei richiami sempre più ideologici al mercato o allo sviluppo. Per stilare il Contratto, viene detto più volte, servono dati, misurazioni precise e non inficiate dalle pratiche speculative che sono la moda del momento. Occorre insomma rispondere seriamente alla domanda che non viene mai posta quando ci si propone di costruire l’ennesima megacentrale, o rigassificatore che dir si voglia: quanta energia ci serve davvero? Dai conti in tasca fatti all’Eni (e dalla multa comminata all’azienda proprio per questo motivo) viene fuori che di gas ce n’è in abbondanza, e ce ne sarebbe ancora di più se fossero utilizzati appieno i metanodotti esistenti invece di stoccare il gas per produrre elettricità da vendere al miglior offerente. Dal programma dell’Unione - frutto di sofferte e laboriose trattative - sembrava stabilito che prima di costruire qualunque cosa si sarebbe fatto un Piano energetico nazionale nel quale discutere, appunto, dei reali bisogni del paese e del modo migliore per soddisfarli. Un Piano tanto più necessario da quando l’Eni, in quanto società per azioni, è stata sollevata da qualunque obbligo nei confronti dei cittadini se non quello di arricchire i propri azionisti, fra cui lo Stato. Ecco quindi che l’idea di trasformare il Bel paese nella piattaforma gassiera dell’Europa può essere magnifica per l’impresa ma pessima per un sistema paese che deve tenere conto anche di chi campa di turismo, di pesca e via dicendo, per non parlare della salute dei propri cittadini.

Alcuni ministri di questo governo - e tutti gli imprenditori - tacciano di egoismo le comunità che si ribellano. Rigassificatori, depositi nucleari, inceneritori: qui nessuno vuole più niente, si lamentano. E’ vero: nessuno vuole più niente e nessuno si fida più dei dati delle compagnie e degli esperti mentre, al contempo, sulla salute dei cittadini e sulla spesa sanitaria di noi tutti si leggono le agghiaccianti cifre di un modello di sviluppo che ha portato più cancri che posti di lavoro, più asme bronchiali che ricchezza o sicurezza per il futuro. Ecco quindi che le vertenze territoriali, lungi dall’essere meri esercizi di egoismo, si ricompongono in un puzzle che dovrebbe essere la base stessa della gestione dell’energia nell’era della transizione al di fuori dei combustibili fossili, un passaggio epocale più vicino di quanto sospettino i nostri amministratori.

Il ruolo delle comunità locali è quindi centrale per delineare un nuovo sistema energetico che deve essere prima di tutto essere diffuso a livello territoriale, sia per utilizzare al meglio le rinnovabili che per promuovere un uso razionale delle risorse fossili in via di esaurimento. E, a proposito di uso efficiente dell’energia, è difficile immaginare qualcosa di più dispendioso del gas liquido, quando il nostro paese dispone di gas e metanodotti in abbondanza. E’ chiaro quindi che il problema della transizione energetica passa attraverso una riorganizzazione politica e non tecnologica. Ma da questo punto di vista, oltre all’inevitabile conflitto con gli interessi particolari delle lobby e con i disinvolti trucchi degli amministratori compiacenti, è necessario abbandonare il terreno scivoloso delle compensazioni ai singoli comuni, una sorta di istituzionalizzazione della corruttela, e «riflettere invece sulla tradizione industrialista che sopravvive in buona parte della sinistra radicale e che spacca in due anche il Partito della Rifondazione comunista» sottolinea Simona Ricotti, membro del Comitato politico nazionale e del movimento che a Civitavecchia combatte contro la riconversione a carbone voluta dall’Enel, «una battaglia che vede il partito spaccato e la popolazione unita, in una zona che già paga un pesantissimo contributo in termini sanitari». Sì perché Civitavecchia, malgrado il polo energetico e il porto, vanta un tasso di disoccupazione meridionale (siamo sul 23%) ma è al primo posto in Italia per tumori dei bronchi e della pleura. «Ogni volta che una compagnia decide di colonizzare un territorio si crea il classico conflitto fra lavoro e ambiente, con la politica che sembra aver rinunciato a dire la sua sul tipo di sviluppo da perseguire».