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“Libertà” di Verga e le pulsioni del popolo

di Anna K. Valerio - 04/05/2016

“Libertà” di Verga e le pulsioni del popolo

Fonte: Barbadillo

Tutti gli appassionati di politica dovrebbero aver letto la novella “Libertà” di Giovanni Verga: una rappresentazione crudissima di ciò che la parola ‘popolo’ ammanta di un candore a priori. Figli del Novecento, quando si dice orrore non si risale mai oltre gli anni ’40. Invece è bene continuare a scavare, tra pieghe e piaghe dell’umano, ben più a fondo.

Sicilia, 1860. Sta arrivando la droga dei lumi fin dove i borghesi che l’avevano inventata non avrebbero potuto immaginare. Tra zappatori, carrettieri, umili popolani addestrati all’ascesi del lavoro da generazioni.

Liberi. Liberi tutti.

Quello che succede con l’arrivo di questa libertà tanto celebrata mette i brividi. È lo scatenamento di ogni bestialità. È la soppressione di ogni decenza. È cattiveria della più spietata. Fedele alla propria intenzione di realismo, Verga descrive in maniera perfino visionaria questo sprofondamento dell’uomo nel male. È quasi un ritorno alle saggezze della tragedia greca, l’unico tribunale che, in fondo, possa assumersi il compito di giudicare l’uomo.

“Sciorinarono dal campanile un fazzoletto a tre colori, suonarono le campane a stormo, e cominciarono a gridare in piazza: – Viva la libertà! –

Come il mare in tempesta. La folla spumeggiava e ondeggiava davanti al casino dei galantuomini, davanti al Municipio, sugli scalini della chiesa: un mare di berrette bianche; le scuri e le falci che luccicavano. Poi irruppe in una stradicciuola.

– A te prima, barone! che hai fatto nerbare la gente dai tuoi campieri! – Innanzi a tutti gli altri una strega, coi vecchi capelli irti sul capo, armata soltanto delle unghie. – A te, prete del diavolo! che ci hai succhiato l’anima! – A te, ricco epulone, che non puoi scappare nemmeno, tanto sei grasso del sangue del povero! – A te, sbirro! che hai fatto la giustizia solo per chi non aveva niente! – A te, guardaboschi! che hai venduto la tua carne e la carne del prossimo per due tarì al giorno! –

– E il sangue che fumava ed ubbriacava. Le falci, le mani, i cenci, i sassi, tutto rosso di sangue! – Ai galantuomini! Ai cappelli! Ammazza! ammazza! Addosso ai cappelli! – […] Ma il peggio avvenne appena cadde il figliolo del notaio, un ragazzo di undici anni, biondo come l’oro, non si sa come, travolto nella folla. Suo padre si era rialzato due o tre volte prima di strascinarsi a finire nel mondezzaio, gridandogli: – Neddu! Neddu! – Neddu fuggiva, dal terrore, cogli occhi e la bocca spalancati senza poter gridare. Lo rovesciarono; si rizzò anch’esso su di un ginocchio come suo padre; il torrente gli passò di sopra; uno gli aveva messo lo scarpone sulla guancia e glie l’aveva sfracellata; nonostante il ragazzo chiedeva ancora grazia colle mani. – Non voleva morire, no, come aveva visto ammazzare suo padre; – strappava il cuore! – Il taglialegna, dalla pietà, gli menò un gran colpo di scure colle due mani, quasi avesse dovuto abbattere un rovere di cinquant’anni – e tremava come una foglia. – Un altro gridò: – Bah! egli sarebbe stato notaio, anche lui! –

Non importa! Ora che si avevano le mani rosse di quel sangue, bisognava versare tutto il resto. Tutti! tutti i cappelli! – Non era più la fame, le bastonate, le soperchierie che facevano ribollire la collera. Era il sangue innocente. Le donne più feroci ancora, agitando le braccia scarne, strillando l’ira in falsetto, colle carni tenere sotto i brindelli delle vesti”.

Così il popolo si accanì, nella Roma della guerra civile, contro Donato Carretta, scambiato per un tragico errore per uno dei responsabili dell’eccidio delle Fosse Ardeatine. Lo racconta spietatamente Zara Algardi ne Il processo Caruso. Anche lì la folla tumultua fino a costringere il disgraziato oggetto della pubblica riprovazione a buttarsi nel Tevere. E perfino lì la folla lo inseguirà e i più eccitati lo faranno affondare a colpi di remi in testa nel rosso del suo sangue.

Il secondo Novecento le ha volute tacere a tutti i costi, queste meraviglie dell’umano. Si sono levate le femministe a lamentare i soprusi contro le “carni tenere”. Tutte le minoranze hanno trovato chi invocasse i loro diritti. Non si ragiona mai di altro che dell’arroganza dei potenti. Il Male è diventato un cliché, non più l’ingresso nel labirinto del tragico. Il biondo è sempre un’idea cattiva, quando Verga ci mostra quanto profondamente vittima può essere quel figlio biondo del notaio, lampo di luce nella cupezza estrema della narrazione.

E, alla fine, gli umili della novella, divenuti assassini brutali, non sanno cosa fare, dopo aver scannato, torturato, spezzato le ossa ai privilegiati di prima. Sono mogi e impauriti, si deprimono. “Ormai gli uomini, neri e colle barbe lunghe, stavano sul monte, colle mani fra le cosce.” Arriverà Nino Bixio e sarà quasi un sollievo, per loro, la punizione che patiranno.