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pcismo statalista

di Gianfranco La Grassa - 21/09/2006

La faccenda Telecom si va chiarendo un po’ di più (almeno per quel che ne può sapere il “volgo” di cui facciamo parte). Però oggi, per “distrarmi”, vorrei accennare ad un altro problema che soltanto nasce da quella vicenda. Alcuni pidicisti e rifondaroli (sicuramente Folena, mi sembra Diliberto; e comunque anche altri) hanno espresso l’augurio che il piano Rovati non venga messo da parte, perché questi “comunisti” sperano in una sorta di nuova “irizzazione”, cioè in una nuova statizzazione dei mezzi di produzione. Non capisco quanto ci sia in loro di limiti culturali, quanto di vera corruzione “da potere”.

Intanto, per vezzo dottrinale, ricordo che una lettura superficialissima di Marx ed Engels (ma anche di Lenin; cito solo “Stato e rivoluzione”) fa comprendere a chiunque che il comunismo preconizzato da questi personaggi (credo fondamentali nella storia del comunismo stesso) non aveva nulla a che vedere con lo statalismo. La proprietà collettiva dei mezzi di produzione non era per nulla confusa, e con ciò identificata, con quella statale. Quest’ultima (il “socialismo di Stato”, come fu definito) era predicata da Lassalle, che la vis polemica e satirica di Marx trattò, ad es. nella ben nota “Critica al programma di Gotha”, da mentecatto e anche un po’ furfante; tanto che tale pamphlet, scritto appunto per il Congresso dei socialdemocratici tedeschi tenuto a Gotha nel 1875, restò al momento segreto (per intervento di Engels, che non voleva “turbare” il congresso) e pubblicato un bel po’ di tempo dopo. Marx, Engels, Lenin, chiarirono non so quante volte che l’unica differenza tra marxisti e anarchici era che i secondi volevano l’abolizione dello Stato dall’oggi al domani (se avessero preso il potere), mentre i primi pensavano che esso dovesse sussistere – ma solo transitoriamente al fine di difendersi da “ritorni di fiamma” del capitale – in quanto semplice organo in via di deperimento ed estinzione (sto parlando dello Stato quale organo eminentemente politico, non della mera organizzazione amministrativa, i cui compiti sarebbero dovuti continuare a sussistere).

Lasciando da parte le questioni dottrinali – che comunque indicano come i comunisti del ‘900, post-Lenin, furono in realtà dei piciisti intrisi di teoria statalista lassalliana – basta pensare alla concreta esperienza dell’URSS e degli altri paesi detti socialisti. Stalin continuò – ad es. nei “Principi del leninismo” – a sostenere che lo Stato (di “dittatura proletaria”) era, in linea di principio, un semplice organo in via di estinzione; se ciò non si verificava concretamente, era soltanto per l’esistenza dell’accerchiamento capitalistico e per la presenza, all’interno, degli agenti del capitalismo e imperialismo stranieri. Dopo la morte di Stalin, ogni finzione cadde e si dichiarò la necessaria presenza, a tempo indeterminato, dello Stato (politico, non solo amministrativo) di tutto il popolo, autentica aberrazione in senso marxista, poiché tutti i marxisti che conosco hanno sempre sostenuto essere lo Stato lo strumento di dominazione di una classe minoritaria sulla maggioranza della popolazione. In realtà, i piciisti hanno usato del marxismo, fino al 1989, solo come legittimazione ideologica di un potere assoluto del partito (la minoranza dominante) che usava lo Stato come lo usa appunto ogni minoranza per opprimere il popolo (la maggioranza).

Non starò ad agitare, contro il “socialismo” fallito e crollato, la bandiera della “democrazia” come fanno tutti i reazionari liberali, oggi ampiamente coadiuvati anche dai rinnegati del “comunismo” (cioè del piciismo), anch’essi in piena “orgia democratica”. Ancora una volta ci aiuta Lenin: la dittatura della borghesia trova la sua migliore espressione nella Repubblica democratica. Cioè, la reale, effettiva, dominazione di una minoranza (divisa in gruppi in conflitto) si manifesta nelle sue più opportune forme istituzionali mediante le “libere elezioni”, la “libertà” del dibattito su vari mass media, il “libero” mercato; quest’ultimo tuttavia deve essere attraversato, in alterne congiunture, da differenti forme di regolazione, in alcune delle quali può anche prevalere il “dirigismo statale” (coadiuvato dalla “proprietà pubblica”), in altre si ha la piena fioritura della concorrenza economica tra imprese di “proprietà privata”. L’importante è che una forma non schiacci l’altra, perché la totale proprietà “pubblica” del “socialismo reale” ha dimostrato che così si blocca ogni sviluppo, una volta superato un temporaneo periodo di forzata accumulazione.

In un paese capitalistico avanzato, il popolo (dei dominati) è suddiviso in molti raggruppamenti sociali; la cosa migliore per tenerli subordinati (alla suprema preminenza del capitale) è lasciare libera la formazione di più lobbies (anche nella forma dei partiti e associazioni di ogni genere, non tutte con fini scopertamente politici), adeguatamente finanziate e sorrette dalle varie concentrazioni di potere economico; queste varie forme associative si dedicano al “gioco democratico” delle alternative (di facciata, tutte interne ad un certo ordine), cui partecipano quei gruppi emersi a dirigerle e che costruiscono vari ambiti di egemonia sui diversi gruppi sociali di dominati. In questo senso, la dittatura reale del regime capitalistico è meglio assicurata da questo gioco di “democratiche” contrapposizioni tra le lobbies in questione, che si raggruppano in partiti, sindacati, associazioni “di consumatori”, associazioni sportive o ludiche, o anche di “difesa dell’ambiente”, di volontariato vario, di attività no profit, ecc. ecc. Naturalmente, tenendo conto che i vari organismi associativi hanno quantità e intensità di potere diverse, e coinvolgono gruppi sociali più o meno numerosi. Tutte insieme creano però una fitta rete che contribuisce alla “dittatura democratica” del capitale, tramite quel metodo di dominare, il più sicuro di tutti, che comporta la separazione e conflittualità interna al popolo dei dominati (il famoso divide et impera).

Nessun altro metodo migliore è stato ancora escogitato; ed ecco il perché dell’affermazione leniniana sopra riportata: la democrazia come migliore, e più sicura, forma di dittatura della borghesia. Del gioco democratico fa parte a pieno diritto la contraddizione tra “pubblico” (e statale) e “privato”. Grande è stato il marxista Althusser ad aver posto in luce come questo contrasto sia puramente ideologico, e nasconda il carattere di classe (cioè della minoranza dominante) delle diverse forme istituzionali, che quest’ultima escogita per protrarre la propria presa sulla società tutta, dividendo i dominati. La forma “privata” e quella “pubblica” sono solo due diverse forme di collegamento tra i gruppi dirigenti delle svariate lobbies (e partiti, associazioni sindacali, ecc.) e gli apparati politici (non puramente amministrativi) del dominio capitalistico. La forma privata implica un certo tipo di collegamento, la pubblica un altro. Occorre però sempre un misto fra le due, talvolta una loro alternanza secondo congiunture differenti; questo è il vantaggio della Repubblica democratica borghese di cui parlava Lenin. La sola forma pubblica, superato un periodo iniziale di accumulazione originaria, ha mostrato la corda in tutti i paesi socialisti; tant’è che in Cina, rimasta formalmente “socialista”, la proprietà privata ha ampia e crescente cittadinanza, i miliardari sono ormai milioni, i diritti dei capitalisti sono addirittura riconosciuti apertamente in un articolo della nuova Costituzione. Questo sta determinando l’alto tasso di sviluppo di quel paese.

Quindi basta con le sciocchezze dei “comunisti” italiani in merito al pubblico, ad una nuova irizzazione o statizzazione. In realtà, essi sono piciisti e il loro “marxismo” non è altro che lassallismo (socialismo statalista), contro cui si appuntò il feroce sarcasmo di Marx. Se siano solo incolti o invece corrotti non lo so, e non voglio fare illazioni al proposito. Ma bisogna rintuzzare le loro mosse sul caso Telecom, che è proprio un “caso di scuola” di quanto ho teoricamente qui sopra accennato. Semmai lo vedremo in seguito.

 

20 settembre