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Un problema planetario

di Amy Davidson e Elizabeth Kolbert - 02/10/2006

 
intervista di Amy Davidson a Elizabeth Kolbert
Elizabeth Kolbert, editorialista della rivista 'The New Yorker', ha incontrato autorevoli scienziati e ha viaggiato dall’Alaska alla Groenlandia, dall’Oregon ai Paesi Bassi, per arrivare al cuore del fenomeno del riscaldamento globale. L'autrice di "Cronache da una catastrofe – Viaggio in un pianeta in pericolo: dal cambiamento climatico alla mutazione delle specie", ha discusso del proprio lavoro con Amy Davidson, reporter del 'New Yorker'

AMY DAVIDSON: Elizabeth Kolbert, cosa si intende per riscaldamento globale? È un fenomeno reale o solo teorico?

ELIZABETH KOLBERT: I principi del riscaldamento globale sono scientificamente provati al pari di qualsiasi altro principio della fisica. Quasi 150 anni fa, un fisico inglese di nome John Tyndall scoprì che certi gas nell’atmosfera – che noi oggi chiamiamo “gas serra” – trattengono il calore sulla terra assorbendo radiazioni infrarosse. Esistono diversi gas serra presenti in natura, biossido di carbonio e vapore acqueo compresi, e assieme producono il cosiddetto “effetto serra naturale”. Senza l’effetto serra naturale, il pianeta si ritroverebbe ad essere sostanzialmente ghiacciato. Qualsiasi manuale di base di geofisica ne parla e si tratta di un fenomeno che non è messo in discussione in alcun modo. Tutto quello che la teoria del riscaldamento globale dice è che se si aumenta la concentrazione di gas serra nell’atmosfera, si aumenta di conseguenza la temperatura media della Terra. È innegabile che l’attività umana abbia incrementato le concentrazioni di gas serra nell’aria, ed è altrettanto inconfutabile che negli ultimi decenni le temperature medie terrestri abbiano subito un innalzamento. La Terra è ora più calda di quanto non lo sia mai stata negli ultimi due millenni, e se l’attuale tendenza persiste, entro la fine del secolo ci sono buone probabilità che diventi più calda rispetto a quanto non lo sia mai stata negli ultimi due milioni di anni.

AMY DAVIDSON: In che modo il riscaldamento terrestre potrebbe cambiare il mondo, ossia condizionare la vita degli esseri umani?

ELIZABETH KOLBERT: Esistono innumerevoli dimostrazioni di come noi esseri umani dipendiamo dal clima. Il clima stabilisce quali raccolti coltivare, di quali organismi infestanti e malattie dobbiamo preoccuparci, come procuraci l’acqua, e così via. Il riscaldamento del pianeta è probabile che modifichi i modelli climatici sui quali facciamo affidamento; alcune zone della Terra sono inclini a diventare più aride, mentre altre diventeranno più umide. I livelli dei mari probabilmente cresceranno, forse in maniera piuttosto radicale; questo fenomeno interesserà le zone costiere, dove al momento vivono centinaia di milioni di persone. Nessuno sa con esattezza quanto temperature medie più elevate possano, ad esempio, avere effetti sulle precipitazioni; tuttavia, considerato che sulla Terra vivono più di sei miliardi di persone, non è necessario un grande cambiamento per causare problemi significativi.

AMY DAVIDSON: Il clima muta naturalmente. In che modo il cambiamento naturale differisce da ciò ci cui stiamo parlando in questa sede?

ELIZABETH KOLBERT: È vero che il clima muta naturalmente, e i recenti incrementi delle temperature globali possono in parte essere dovuti ad un ciclo naturale. Il punto fondamentale da ricordare è che i gas serra che stiamo diffondendo nell’atmosfera stanno opprimendo le forze naturali che causano la variabilità climatica. In effetti, noi esseri umani stiamo diventando gli elementi conduttori del sistema climatico, e lo stiamo facendo senza sapere cosa ciò comporterà.

AMY DAVIDSON: La tua inchiesta ti ha portato fino in Alaska. Cos’hai trovato laggiù?

ELIZABETH KOLBERT
: L’Alaska sta subendo gli effetti del cambiamento climatico in maniera drammatica; il paese si sta surriscaldando con la stessa velocità di qualunque altro posto sulla Terra. Ciò sta causando numerosi problemi alle comunità native; diversi villaggi dovranno essere “spostati” a causa dell’erosione provocata, o se non altro accelerata, dal cambiamento climatico. Il fenomeno sta colpendo anche la vita quotidiana in luoghi come Fairbanks, di cui alcune aree sono costruite sul permafrost. Mentre il permafrost si abbassa, le abitazioni stanno cominciando a sgretolarsi. Le strade hanno bisogno di essere riparate con maggiore frequenza; qualche volta sprofondano. Ironicamente, il fenomeno sta colpendo anche l’industria del petrolio. Il tipo di attrezzatura pesante utilizzata nelle esplorazioni petrolifere è permessa nella tundra solo quando il terreno è ghiacciato fino ad una profondità di dodici pollici (circa 6.5 cm – NdT). Dal 1970, il periodo che soddisfa questa condizione si è ridotto della metà. I modelli sviluppati dagli scienziati che si occupano del cambiamento climatico hanno previsto che il riscaldamento globale nell’Artico potrebbe avere un effetto sproporzionato.

AMY DAVIDSON: Hai anche trascorso un po’ di tempo dormendo in una tenda sui ghiacci della Groenlandia. Cosa ci puoi raccontare di quest’esperienza?

ELIZABETH KOLBERT: Fatta eccezione di quella della Penisola antartica, la calotta glaciale della Groenlandia è la più grande del mondo. Contiene acqua sufficiente per innalzare i livelli del mare della terra di trentatre piedi (circa 10 metri – NdT). Esiste una possibilità molto reale che il riscaldamento globale inneschi la distruzione della calotta glaciale della Groenlandia. Nessuno è davvero in grado di stabilire le temperature che la Terra dovrebbe raggiungere prima che ciò accada, ma i segnali non sono incoraggianti. Gli scienziati stanno già notando cambiamenti della calotta glaciale che suggeriscono come ciò possa accadere a temperature non molto più elevate rispetto a quelle attuali. E, sebbene il processo possa aver bisogno di secoli, o persino millenni, per svilupparsi nella sua interezza, una volta che la calotta glaciale comincia a sciogliersi il fenomeno diventa impossibile da arrestare.

AMY DAVIDSON: Sono rimasta molto colpita dalla tua descrizione del lavoro svolto da Donald Perovich, uno scienziato del governo Usa, che ha studiato qualcosa chiamato ‘albedo’. Di che si tratta?

ELIZABETH KOLBERT: “Albedo” è un indice di riflettività. Il ghiaccio nell’Artico, così come nell’Antartico, riflette una quantità straordinaria di luce solare nello spazio. Si tratta di un fattore molto significativo nel cercare di configurare il clima terrestre. Nell’Artico, il ghiaccio, soprattutto il ghiaccio marino, si sta sciogliendo, e questo fenomeno sta modificando la riflettività della Terra (chiamata anche albedo planetaria – NdT). Viene assorbito maggior calore; ciò causa ulteriore scioglimento del ghiaccio marino, e così via. Questo è un perfetto esempio di “feedback positivo”: un mutamento relativamente lieve al sistema si sta amplificando in un altro più grave. Si è a conoscenza di diversi feeback positivi nel sistema climatico, e molto probabilmente ce ne sono altri che non sono ancora stati identificati. Ognuno è motivo di preoccupazione.

AMY DAVIDSON: Quanto importante è il contributo della scienza? Sentiamo spesso dire, almeno negli stati Uniti, che ci sono visioni contrastanti.

ELIZABETH KOLBERT: C’è un consenso piuttosto ampio nella comunità scientifica sul fatto che il riscaldamento globale sia già in atto. Sul fatto che esistano punti di vista dissonanti, di solito le divergenze riguardano il modo in cui il processo si svilupperà. È comprensibile. Il clima colpisce praticamente ogni sistema naturale terrestre, e questi sistemi a loro volta hanno effetti sul clima. Pertanto, fare previsioni può risultare molto complicato. Abbiamo un solo pianeta, per cui è impossibile svolgere un esperimento controllato. Trovo che focalizzarsi sul disaccordo, anziché sul livello di consenso, sia essenzialmente fuorviante. Se dieci persone ti dicessero che la tua casa è in fiamme, chiameresti i pompieri. Non ti intesserebbe sapere se qualcuno di loro pensa che l’abitazione si sarebbe incenerita in un’ora mentre altri pensano che ci sarebbe voluto un giorno intero.

AMY DAVIDSON: Un aspetto particolarmente inquietante emerso dal tuo lavoro è sapere che molti scienziati tradizionalmente inclini alla moderazione sono in allarme. Che genere di divario esiste tra l’opinione di un esperto e quella generale sul cambiamento climatico?

ELIZABETH KOLBERT: Ottima domanda. Credo ci sia un divario sorprendentemente significativo – si potrebbe persino dire spaventosamente grande – tra le opinioni della comunità scientifica e quelle della comunità “profana” sul riscaldamento globale. Come hai fatto notare, ho parlato con molti scienziati di indole molto moderata e freddamente analitici i quali, in sostanza, hanno posto il problema della fine del mondo. Ritengo esistano diverse ragioni del perché il loro messaggio non sia trapelato. Una di queste è che gli scienziati tendono, come gruppo, ad interagire molto più tra loro che con il pubblico generale. Un’altra ragione è che c’è stata una campagna di disinformazione molto ben finanziata, con lo scopo di convincere la gente che esiste ancora disaccordo scientifico sul problema – quando invece, come menzionato prima, siamo in presenza di un consenso piuttosto ampio. La terza ragione sta nel fatto che il clima opera secondo tempistiche proprie. Ci vorranno diversi decenni perché il riscaldamento, già inevitabile, venga avvertito. Le persone tendono a concentrarsi solo sul presente. Il problema è che, una volta che il riscaldamento globale diverrà percepibile nella vita di tutti i giorni, sarà troppo tardi per impedire mutamenti di maggiore portata e potenzialmente catastrofici.

AMY DAVIDSON: Se siamo stati noi esseri umani ad aver causato il cambiamento climatico, saremo anche in grado di arrestarlo?

ELIZABETH KOLBERT: Non possiamo fermare il cambiamento climatico. Questo perché il biossido di carbonio è un gas con una vita media di lunga durata. Ciò che davvero possiamo fare è mitigare il mutamento climatico riducendo le emissioni. Più aspettiamo a farlo, più il futuro sarà compromesso.

AMY DAVIDSON: Gli essere umani hanno reagito alle sfide per millenni. Nel corso dei secoli, abbiamo avuto a disposizione molti meno strumenti tecnologici rispetto a quelli che possediamo ora. Perché non dovremmo essere ottimisti sulle nostre capacità di affrontare il cambiamento climatico e adattarci ad esso?

ELIZABETH KOLBERT: Certamente spero riusciremo ad affrontare il mutamento climatico. Mio figlio più grande ha dieci anni, e per il suo bene mi piacerebbe molto pensare che saremo in grado di affrontare questa sfida. È comunque difficile per me essere ottimista. Gli scienziati stanno mettendo in guardia sui pericoli del riscaldamento globale da più di venticinque anni, e nel frattempo abbiamo incrementato il nostro utilizzo energetico — e con esso la nostra produzione di gas serra — drasticamente. Per quanto riguarda il concetto di adattamento, è una buona idea, e certamente sarà necessario; la quantità di calore che è già inevitabile è piuttosto significativa, e non si potrà fare altrimenti che cercare di convivervi. Si arriverà ad un punto, però, in cui i cambiamenti diventeranno così importanti da risultare estremamente difficile adattarvisi; un innalzamento dei livelli del mare di cinque piedi (circa 1.5 metri – NdT), per esempio, sommergerebbe diverse aree della Florida. Se immaginiamo questo genere di scenario svilupparsi per l’intera Terra, le prospettive non sono incoraggianti. Inoltre, come un climatologo mi ha fatto notare, se da un lato oggi disponiamo di molta più tecnologia rispetto al passato, d’altra parte siamo anche più efficienti in termini di capacità di distruzione.

 

Il libro di Elizabeth Kolbert, Cronache da una catastrofe – Viaggio in un pianeta in pericolo: dal cambiamento climatico alla mutazione delle specie, è appena stato pubblicato in Italia da Nuovi Mondi Media.


Fonte: The New Yorker
Traduzione a cura di Arianna Ghetti per Nuovi Mondi Media