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Le favole dei media per la prossima guerra

di Norman Solomon - 06/10/2006


Oggi, se lo stato dei diritti umani in Iran è senz’altro condannabile, le condizioni degli stessi in molti governi favoriti da Washington non sono migliori. Negli Usa – e non solo – i media dovrebbero pensare alle proprie contraddizioni invece che fomentare gli istinti bellicosi

L’edizione del 25 settembre della rivista Time dimostra come i mezzi di informazione Usa si stanno attrezzando per un attacco militare all’Iran.

Il titolo della copertina raffigurante il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad è “Appuntamento con una mente pericolosa”. Il sottotitolo, a caratteri cubitali, lo definisce “l’uomo la cui spavalderia istiga la guerra con gli Stati Uniti”. Il secondo paragrafo termina così: “Nonostante in foto il presidente iraniano venga spesso ripreso in gesti di pace, il suo comportamento potrebbe far conoscere al mondo una nuova guerra”.

Quando il principale settimanale statunitense dedica cinque pagine a una guerra aerea contro l’Iran, come il Time ha fatto, è chiaro che le ruote della nostra intricata macchina di guerra girano sempre più veloci verso l’ennesimo attacco preventivo contro un paese straniero.

Ahmadinejad è salito in cima alla lista dei nemici di Washington – e dei media americani. Negli ultimi vent’anni tra questi hanno figurato anche Manuel Noriega, Saddam Hussein e Slobodan Milosevic; ognuno ha ricevuto un consistente svilimento estensivo, apripista per l'attacco militare su larga scala del Pentagono.

Ogni volta che il presidente degli Stati Uniti decide di avviare o intensificare un blitz mediatico contro un leader straniero, la corrente principale dell’informazione made in Usa ha regolarmente accusato i sintomi dell’isterismo. Ma la Casa Bianca si è dimostrata abile anche nel mantenere, quando considerato opportuno, il silenzio sulle cattive azioni di alcuni tiranni stranieri.

Prendete per esempio il dittatore libico. Per oltre un terzo di secolo il colonnello Muammar Gheddafi è stato un despota il cui registro di repressione, totale, ha fatto impallidire Noriega o Milosevic. Ciononostante, dopo il patto con l’amministrazione Bush nel dicembre 2003, il silenzio di Washington rispetto al dispotismo di Gheddafi è stato imbarazzante.

Quando Gheddafi ha pubblicamente festeggiato il 37esimo anniversario della sua dittatura, poche settimane fa, ha dichiarato in un discorso alla televisione di Stato: “I nostri nemici in Libia per ora sono stati annientati. Ma dovete essere pronti a eliminarli di nuovo se dovessero ritornare”. Il New York Times ha recentemente notato che il regime di Gheddafi “criminalizza la creazione di partiti di opposizione”.

Oggi, se lo stato dei diritti umani in Iran è senz’altro condannabile, le condizioni degli stessi in molti governi favoriti da Washington non sono migliori. Negli Usa – e non solo – i media dovrebbero pensare alle proprie contraddizioni invece che fomentare gli istinti bellicosi. Purtroppo, così tanti giornalisti autorevoli ed esperti hanno fatto propria l’agenda geopolitica di Washington a tal punto che il giornalismo continua a marcire dal suo interno. Che tale tendenza continui a svilupparsi senza difficoltà non fa che testimoniare come il bipensiero orwelliano sia ormai la norma.

Non si tratta di temi concernenti la professionalità, non più di quanto le preoccupazioni relative alla salute pubblica siano temi di medicina. I media dovrebbero presto fungere da allarme in grado di informarci prima che gli eventi attuali – e quelli temuti – diventino immutabili fatti di storia.

Ma quando il sistema informativo nel suo complesso mette a repentaglio la libera diffusione delle informazioni e impedisce il dibattito allargato, il risultato è la parodia di una democrazia. Nient’altro che quello che è successo quattro anni fa in occasione della messa in scena mediatica per l’invasione dell’Iraq.

Ora i segnali d’allarme abbondano: l’amministrazione Bush ha nel mirino l’Iran. E l’impulso bellico, alimentato da dibattiti fuorvianti sullo sviluppo nucleare e sui diritti umani, è oggi più che mai sostenuto dalla stampa americana, che non perde occasione per dipingere il presidente Usa come fosse l’ultimo a volere una guerra contro l’Iran.

Il Time riporta che “dal Dipartimento di Stato alla Casa Bianca, fino agli alti ranghi dei comandi militari, esiste una trasversale e crescente sensazione secondo cui un confronto con l’Iran… sarebbe pressoché inevitabile”.

Lo stesso tipo di macchinazione mediatica – anche assumendo come autentico il desiderio di Bush di evitare la guerra – imperversava nei mesi precedenti all’invasione dell’Iraq. Quanto più i media raccontano favole tanto più diventano parte integrante dell’apparato bellico.

L’ultimo libro di Norman Solomon è “War Made Easy: How Presidents and Pundits Keep Spinning Us to Death”, pubblicato da Wiley nel 2005 ed edito in Italia da Nuovi Mondi Media con il titolo “MediaWar. Dal Vietnam all’Iraq, le macchinazioni della politica e dei media per promuovere la guerra”. Solomon è fondatore e direttore esecutivo dell’Institute for Public Accuracy.
Norman Solomon è inoltre autore dell'
introduzione a 'Censura 2006 – Le 25 notizie più censurate'.

Fonte: Common Dreams
Traduzione a cura di Elena Mereghetti per Nuovi Mondi Media