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Afghanista: se cinque anni all’Amministrazione Usa sembran pochi....

di Roberto Zavaglia - 12/10/2006

L’accorata richiesta del generale James Jones, capo delle operazioni Nato in Afghanistan, di un  rinforzo di almeno 2.500 soldati, è un’ammissione di sconfitta. Mercoledì scorso, comunque, i ministri della Difesa dell’Alleanza Atlantica riuniti in Belgio non sono riusciti, per il momento, a convincere nessun Paese a inviare altri militari. La sconfitta non è militare – i talebani, almeno per ora, non sono in grado di marciare su Kabul-  ma politica sì. A distanza di cinque anni dall’invasione del Paese, si ammette che le forze in campo sono in grave difficoltà nel contrastare una guerriglia sempre meglio organizzata.

  Eppure, sul terreno, oltre all’esercito del governo collaborazionista, ci sono 20.000 soldati statunitensi e 18.500 della Nato, appoggiati dall’intensa attività dell’aviazione che ha l’assoluto controllo dello spazio aereo. Questa teorica superiorità non ha impedito ai talebani di espandersi anche fuori dalle loro roccaforti del sud, come anche l’attacco ai soldati italiani nella provincia occidentale di Farah e gli stessi attentati a Kabul dimostrano. La missione Medusa per scacciare la guerriglia dal sud sta incontrando una resistenza che gli stessi ufficiali della Nato non esitano a definire del tutto imprevista. Ormai, non si tratta più di scaramucce o di attacchi mordi e fuggi. Nell’ultimo mese e mezzo i presunti talebani uccisi sono stati centinaia, anche se in molti casi si trattava di civili colpiti dai bombardamenti aerei, mentre i caduti britannici e canadesi, i due Paesi più impegnati nell’operazione, sono una cinquantina.

  Che la resistenza sia una sorpresa per gli uomini dell’Alleanza Atlantica appare comprensibile se si pone mente a come era stato dipinto il regime talebano dai politici e dai media occidentali. Si diceva che gli “studenti di teologia” avevano preso il potere grazie alle divisioni politiche dell’Afghanistan e riuscivano a mantenerlo solo con una durissima repressione nei confronti di una popolazione che gli sarebbe stata totalmente ostile. Ora scopriamo che, in tutto questo tempo, i più potenti eserciti occidentali non sono venuti a capo di bande di giovani fanatici, totalmente avulsi dal contesto in cui agiscono. E’ ovvio che la verità è diversa, perché nessuna guerriglia può reggere il peso di uno scontro con forze enormemente meglio armate se una parte consistente della popolazione non le offre la propria collaborazione. Ancora una volta, la guerra è stata preparata e accompagnata da una campagna di disinformazione totale.

  Si ricorderà come Bush, durante i primi giorni dell’invasione, proclamasse che gli statunitensi non volevano fare una guerra contro l’Afganistan, ma solo liberarlo da un governo di delinquenti che proteggeva i terroristi di Al Qaeda, autori degli attentati dell’11 settembre. Il presidente Usa promise un enorme piano di aiuti per favorire la ricostruzione del Paese. Una volta scacciato il regime oscurantista, l’Afghanistan sarebbe passato dalle “tenebre del Medioevo” alle sicurezze della modernità, grazie alla costruzione di scuole, strade, ospedali e infrastrutture di ogni genere. Peccato che oggi gli osservatori indipendenti ci descrivano una nazione con regioni ridotte alla fame, in cui quasi niente funziona e un bambino su quattro non sopravvive oltre i cinque anni. Nel campo dell’istruzione i soldi dei contribuenti Usa sono serviti per costruire, a Kabul, una sola università, privata e, ovviamente, a pagamento.

   Un fiume di denaro è stato comunque, almeno teoricamente, stanziato dagli Stati Uniti, ma gli afgani ne hanno visto solo alcuni rivoli. L’Usaid, l’agenzia Usa per lo sviluppo internazionale, opera, infatti, in maniera peculiare. Innanzitutto stabilisce che il 70% dei finanziamenti concessi venga impiegato in beni e servizi forniti da aziende statunitensi, anche quando le imprese locali potrebbero produrli a prezzi molto inferiori. Inoltre, la strapagata assistenza tecnica si mangia il 47% degli “aiuti” mentre la Svezia, per esempio, vi destina solo il 4%.  Se ha ragione la Ong “Action Aid”, la quale considera che su un dollaro stanziato 86 centesimi non vanno a beneficio dei destinatari, il mistero degli aiuti scomparsi si chiarisce facilmente. Come si comprende che l’apparato industriale Usa veda di buon occhio lo scatenamento di nuove guerre: la chiacchieratissima Halliburton, in Iraq, è solo la punta dell’iceberg.     

  Se cinque anni all’Amministrazione Usa sembran pochi, ci si chiede quanto debba durare l’esportazione della democrazia. Si dirà che, almeno, ci sono state le elezioni e questo è vero, ma se il loro presunto e strombazzatissimo successo fosse stato reale, oggi una gran parte della popolazione non guarderebbe con sempre maggiore ostilità alle truppe di occupazione. Una delle lezioni dell’Afghanistan, invece, è che le forze occidentali possono invadere facilmente un Paese remoto e deporne il governo, ma non riescono a farsi accettare dalla popolazioni né a sconfiggere definitivamente la guerriglia animata anche da orgoglio patriottico. Ciò accade quando la nazione invasa ha una struttura sociale e culturale estremamente diversa dall’Occidente. In Iugoslavia, una nazione più simile, la sconfitta non ha scatenato la rivolta armata dei cittadini. Radere al suolo, invece, un Paese abituato a fare meno della gran parte delle cose che noi riteniamo indispensabili non garantisce la vittoria definitiva contro uomini abituati a vivere di pochissimo. Ma la irriducibilità di un popolo al loro sistema di valori risulta sempre incomprensibile agli strateghi del pensiero unico.