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Iraq, una discarica petrolifera a cielo aperto

di redazione - 13/10/2006

 
Le notizie di guerra hanno finora oscurato un altro aspetto della tragedia in corso in Iraq.


Le notizie di guerra hanno finora oscurato un altro aspetto della tragedia in corso in Iraq. Si tratta del petrolio, più precisamente del prodotto di scarto che resta dopo la raffinazione ed è chiamato black oil, «petrolio nero». Milioni di barili di questo scarto sono stati scaricati negli ultimi due anni in una conca montagnosa molto prossima al fiume Tigri, nella provincia di Tikrit nel nord del paese, e poi sono stati incendiati.



Ne dava notizia ieri il New York Times, citando tra l'altro un ingegnere ambientale iracheno che ha fatto un sopralluogo nella zona della singolare discarica: «La descrive come una sorta di palude nera dove il terreno saturo di bitume e grandi pozze di petrolio ricoprono diverse valli». Le fiamme in questo momento sono spente, ma l'ingegnere, Ayad Younis, riferisce che le nuvole di fumo «erano così spesse che toglievano il respiro e impedivano la visibilità», e sono arrivate fino a 40 miglia sottovento fino alla città di Tikrit, capitale provinciale. Definire una simile discarica un «rischio ambientale» è un eufemismo: in alcuni punti la distesa di bitume dista solo poche centinaia di metri dal Tigri e ne ha già contaminato le acque, oltre a percolare nelle falde. In quella zona si conta una trentina di villaggi, su entrambe le sponde del Tigri, oltre a diverse famiglie di pastori mobili; tutti traggono l'acqua per vivere da pozzi o dal fiume stesso.

La notizia è sconcertante, anche per un paese in situazione di guerra come è l'Iraq. La zona disastrata si chiama Makhul. E' là che scarica i suoi reflui la raffineria di Baiji, principale impianto nell'Iraq settentrionale. Il quotidiano newyorkese spiega che circa il 40% del petrolio raffinato a Baiji diventa «petrolio nero», sostanza pesante e viscosa; impianti più moderni lo potrebbero ulteriormente trasformare in carburante di grado minore, kerosene eccetera (in effetti le raffinerie di paesi industrializzati hanno molto meno scarto dei decrepiti impianti iracheni). Nel 2004 circa 3 milioni di barili di quel bitume sono finiti nelle valli di Makhul, e quantità analoghe nel 2005, e in questi primi mesi del 2006: l'obsoleta raffineria di Baiji sforna circa 90mila barili al giorno di prodotto raffinato, e questo fa circa 36mila barili al giorno di black oil (così quantificano le autorità Usa a Baghdad, citate dal quotidiano newyorkese).

Dove mettere questa massa di roba? I manager della North Oil Company, la compagnia (statale) che gestisce la raffineria di Baiji, hanno risolto la cosa buttando tutto in quella conca montagnosa (attraverso un condotto costruito allo scopo), e dandogli fuoco. Si sono però trovati a fronteggiare la protesta delle autorità locali. Il mese scorso il governatore della provincia di Tikrit, spinto dalle proteste dei villaggi della zona, ha formato un «comitato tecnico» per fare il punto della situazione; questo comitato ha concluso che quella discarica è un disastro ambientale e mette a serio rischio la popolazione: «I rifiuti là sono impossibili da trattare, perché il terreno è roccioso e pieno di grotte naturali, che permettono ai reflui di percolare e raggiungere le falde acquifere, da cui si approvvigionano tramite pozzi le città vicine», ha dichiarato al giornale americano il governatore di Tikrit, Hamad Hmoud al-Qaisi. Il governatore ha fatto proteste ufficiali, che sono infine giunte al ministero del petrolio, ed è per questo che lo scorso finesettimana gli addetti della raffineria hanno smesso di incendiare gli scarti petroliferi. Ma non hanno smesso di scaricarli tra le montagne di Makhul, dunque c'è una tregua nelle nuvole di fumo nero ma non nell'accumulo di bitume.

Trovare una soluzione è urgente, dicono al ministero del petrolio, o altrimenti la raffineria deve sospendere il lavoro. Ma la storia della discarica selvaggia ha creato un certo imbarazzo nel governo iracheno, e ancor più dovrebbe crearne tra le autorità Usa perché non dice nulla di buono sulla «ricostruzione» delle infrastrutture civili del paese invaso tre anni fa. Che fare? Una volta l'Iraq esportava il black oil verso impianti di altri paesi che ne estraevano carburante minore, ma ha dovuto smettere dopo la prima guerra del Golfo (1991) e il conseguente embargo; dal '92 ha tentato varie soluzioni e infine ha optato per reiniettare i reflui nei pozzi di petrolio della regione di Kirkuk. Ora in teoria potrebbe riprendere a esportarlo, ma difendere la rete di oleodotti è già un problema abbastanza complicato per le autorità irachene e americane, mentre esportare 35mila barili al giorno di black oil via strada richiederebbe 150 camion cisterna al giorno: impensabile. Reimmetterlo nei pozzi è un costo che le nuove autorità non vogliono accollarsi. Così il disastro ambientale dev'essergli sembrato «inevitabile».