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Cuori verdi (intervista a Edurado Zarelli)

di Carlo Gambescia int. Eduardo Zarelli - 28/07/2007

 

 

 

Carlo Gambescia ha intervistato per  “Italicum” Eduardo Zarelli, docente, saggista, editore (Arianna Editrice), da anni,  fortemente impegnato nella battaglia culturale per una nuova visione a tutto campo dell’ ecologia

 

L’ecologismo è di destra o di sinistra?

La risposta potrebbe risultare banale, vale a dire l’ecologismo non è né di destra né di sinistra, oppure ulteriore alla “destra” e alla “sinistra”, comunque critico dell’occidentalizzazione del mondo…

E allora?

In realtà, in particolar modo in Italia, l’ecologismo è “ambientalismo”, strumentalizzato dai partiti politici, in primis quello “Verde”, che manifesta un indistinto progressismo filantropico-naturalistico del tutto funzionale alla civilizzazione industriale. Gli aderenti ai movimenti verdi sono generalmente di due tipi. Alcuni provengono dal radicalismo di sinistra, collettivista o libertario, comunque utilitaristico, di cui rinnegano la carica rivoluzionaria mantenendo l’abilità e l’opportunismo politico, guidando quindi gli “altri” che sono legati al mondo dell’associazionismo naturalistico, conservativo, impegnati lodevolmente da molto tempo in attività di difesa dell’ambiente, di protezione delle specie animali, etc. Sotto l’influenza dei primi, i verdi sono posizionati genericamente a sinistra, alleati dei partiti democratici o socialdemocratici. In compenso la destra è sostanzialmente disinteressata alle conseguenze della razionalità economica sulla natura, anzi per la verità, in quasi tutte le sue espressioni rivendica un prometeismo all’insegna di una malintesa “volontà di potenza”, che nella concretezza significa dare libero sfogo, volenti o nolenti, allo spirito selvaggio del capitalismo. Insomma, la sinistra e la destra si superano nell’incomprensione della centralità epocale della questione ecologica…

E su cosa si fonda questa “centralità epocale”?

Si basa sulla constatazione della rottura del rapporto tra cultura e natura: un problema di civiltà già avvertito dal “pensiero della crisi” novecentesco, con la dicotomia tra Kultur e Civilisation, vita e meccanizzazione. Su questa linea di pensiero, l’ecologismo trascende necessariamente le categorie di destra e sinistra nella misura in cui – e questa sarebbe la sua caratteristica politica più originale – esso è allo stesso tempo intrinsecamente conservatore e profondamente rivoluzionario: intrinsecamente conservatore poiché intende prima di tutto preservare il patrimonio naturale, profondamente rivoluzionario in quanto implica un completo cambiamento di paradigma in rapporto al modello di civilizzazione dominante. In quanto forza politica il movimento ecologista dovrebbe posizionarsi al di fuori dello scacchiere istituzionale e del giuoco dei partiti. Esso dovrebbe inoltre prendere atto del fatto che nell’attuale sistema, i partiti politici inibiscono allo sviluppo e alla messa in opera delle idee. L’ecologismo, per sua vocazione profonda, dovrebbe scaturire dalle contraddizioni nella vita quotidiana della gente, rianimando la dimensione pubblica della vita sociale, dedicandosi a ricomporre il legame sociale sotto l’aspetto della vita locale e dei principi di reciprocità e sussidiarietà comunitaria. In ultima analisi, questa posizione “ecologista” appare la più adeguata a cogliere una verità fattuale. Sia la lotta di classe che il suo antidoto interclassista sono modalità ideologiche legate al Novecento, alla modernità, alle sue forme di produzione economica e sociale. Come ben argomenta Costanzo Preve, il capitalismo diffuso, il liberalismo di massa, è post-borghese come post-proletario e costituisce la base materiale della distinzione tra destra e sinistra, così come della forza di attrazione intellettuale delle conseguenti narrazioni ideologiche. Non sembri quindi peregrino il nostro continuo richiamo localista, perché non è un minimalismo ma un paradigma per comprendere la tarda modernità. Nella globalizzazione realizzata, il pensiero critico vede l’universale da un punto di vista locale, territoriale.

Può tratteggiare, brevemente,  le caratteristiche del pensiero ecologista contemporaneo? Magari con riferimento a qualche autore particolarmente importante?

 

L’ecologia nasce nella seconda metà del XIX secolo su basi positiviste, definendosi come la totalità della scienza delle relazioni dell’organismo con l’ambiente. Indipendentemente dall’evoluzione culturale del termine, il calco scientifico delle origini si perpetua nell’ambientalismo contemporaneo. L’osservato è distaccato dall’osservatore, l’uomo dualisticamente preserva se stesso senza mutare l’approccio relazionale con la natura.

 

Si tratta di  un punto fondamentale.

 

Certo.  Soprattutto per comprendere la contraddittorietà dell’ecologismo. Tutto passa dal modo di intendere la “natura” in senso ontologico (il suo essere in quanto tale) e assiologico (il suo bene in funzione dei propri fini), relativamente al concetto di “ambiente”. La “natura” ha una complessità relazionata vivente che la eleva a un significato superiore alla semplice somma delle parti di cui spiega il nesso. La radice greca del termine phùsis indica la natura non come la somma delle cose naturali (flora, fauna, mondo organico ed inorganico) ma come il principio di manifestazione che ne determina la generazione ed il movimento. Il concetto inerente al termine ambiente, invece, è “ciò che sta attorno” (ambiens, andare attorno), intorno all’uomo, ovviamente, che delimita il campo dei fenomeni a ciò che gli serve, che può utilizzare. La natura ridotta ad ambiente intrattiene con la cultura un rapporto meramente funzionale, fino all’artificio nichilistico della tecnocrazia contemporanea, cui  l’ambientalismo politico è subalterna.

Storicamente, la diffusione sociale e politica dell’ecologismo si avrà tra gli anni sessanta e settanta del novecento, quando le conseguenze dell’inquinamento si faranno esplicite con il consumismo di massa allargato all’intero occidente. L’autrice di riferimento fu Rachel Carson, con il "grido" della "primavera silenziosa" inerente alla morte dei suoni del vivente nei campi monoculturali dell’agricoltura industriale, irrorati di antiparassitari. Una vera svolta culturale e di consapevolezza esistenziale si avrà però tra gli anni settanta e gli anni ottanta con il radicalismo ecologista la cosiddetta ecologia del profondo. È un riferimento generico, che accomuna pensatori eterogenei come Wendel Berry, Edward Goldsmith, Barry Commoner, Arne Naess, Gary Snyder.

 

Può approfondire questa corrente di pensiero?

 

Gli autori appena citati, pur con sensibilità diverse, hanno avuto il merito di sottolineare il “valore intrinseco” della natura, collocando l’uomo nella natura, criticando la civilizzazione tecno-scientifica dell’habitat. L’ecologia profonda oltrepassa l’approccio scientifico fattuale, per raggiungere la consapevolezza del sé e della saggezza della manifestazione naturale. L’uomo, olisticamente, è inteso come parte di un tutto relazionale. L’implicazione di questo principio è l’ecocentrismo, secondo cui la natura va protetta di per sé, per il suo valore intrinseco, indipendentemente dall’utilità strumentale o intergenerazionale. Se arrechiamo danni alla natura, danneggiamo noi stessi. Il tipo di approccio alla realtà, che se ne ricava, è radicale: bisogna interamente ripensare l’attuale società, le forme culturali e il posto dell’uomo nella natura. Occorre agire sulle cause, invece che sugli effetti.

 

Interessante…

 

Sicuramente. Non c’è bisogno di fare nulla di nuovo, basta riattualizzare qualcosa di molto antico, di arcaico: la comprensione della saggezza della Terra e degli equilibri relazionali ecosistemici, la consapevolezza del rapporto di simbiosi omeostatica del vivente. “Andare all’origine delle cose” significa, di conseguenza, decostruire la macchina tecnomorfa creata dallo scientismo, superando l’approccio parziale e riduzionista, immedesimandosi ontologicamente nella manifestazione dell’essere

Le forme più radicali di tale approccio arrivano ad immaginare la preservazione della natura come sua inibizione all’uomo, riproponendo in forma complementare opposta il cartesianesimo, quasi che non esistesse alcun rapporto possibile con la natura, se non quello dello sfruttamento meccanicistico o della contemplazione ascetica. In realtà, il problema è praticare la via indeterminata del giusto mezzo, all’insegna del riequilibrio olistico tra cultura e natura. Le stesse tematiche più oltranziste, legate alla wilderness, parlano dell’incontaminato come richiamo all’elementare psicologico e istintuale perduto dall’uomo civilizzato, come risorsa per la ri-connessione con la comunità del vivente, più che di un solipsismo naturalistico. Il rispetto del vivente non implica l’eguaglianza indifferenziata tra uomo, mondo animale, mondo vegetale e mondo minerale, ma la consapevolezza della diversa ma relazionata manifestazione dell’essere. 

 

 Si può considerare vicino all’ecologismo, un intellettuale del calibro di Alain de Benoist?

 

Ovviamente andrebbe richiesto direttamente ad Alain de Benoist…

 

Infatti pensiamo di tornare a intervistarlo… Ma per il momento abbiamo lei  “sotto tiro”. E  approfittiamo della sua conoscenza,  non solo intellettuale,  del pensatore francese. .

 

 Mah… Io posso solo approssimare una risposta sulla scorta della mia conoscenza personale ed intellettuale del pensatore, rimandando direttamente ai suoi scritti per una lettura coerente ed estesa dei suoi contenuti.

Alain de Benoist è sicuramente molto sensibile alla critica ecologista della società dei consumi. La sua visione pluralistica e differenzialista nasce per reazione all’omogeneizzazione totalitaria della modernità. La difesa delle identità culturali e della dignità della persona, aggredite dall’omogeneizzazione tecnologica e dalla mercificazione utilitaristica fa tutt’uno con l’esortazione a modelli di sobrietà etica e sostenibilità economica.

 

E dal punto di vista spiccatamente filosofico?

 

Beh.. Da questa angolazione ritengo che de Benoist tenda a differenziarsi da un indistinto “biocentrismo” panteista che risalta nelle tesi dell’ecologia del profondo e, più generalmente, nelle posizioni di un radicalismo naturalistico. Non introducendo alcun elemento di differenziazione all’interno del mondo vivente, ossia nel cosmo, esso tende, in effetti, a cancellare tutte le specificità umane per riversarsi in una nuova forma di universalismo astratto, e sappiamo quanto de Benoist ritenga centrale la dimensione “politico-antropologica” dell’agire umano. Il semplice fatto che l’uomo sia in grado di porsi il problema delle sue responsabilità nei confronti della natura dimostra che egli occupa un posto particolare, e non indistinto, nel mondo vivente. Nessun’altra specie è in grado di porsi un tale problema. L’uomo se lo pone non tanto perché egli è il solo a mettere in pericolo la natura, quanto perché è il solo a cogliere le remote conseguenze delle proprie azioni grazie a una coscienza riflessa che costituisce in lui una "seconda natura" e la fonte della sua cultura sociale. Denunciare l’antropocentrismo, e con esso l’idea che la natura sia altro da una risorsa interamente destinata all’utilitaristico desiderio umano, è dunque certamente necessario, ma ignorare le modalità specifiche della presenza umana nel mondo ci fa cadere nell’eccesso opposto. In tal senso credo si possa leggere l’esplicita e dichiarata riconoscenza di de Benoist con il pensiero dell’ultimo Heidegger, nella misura in cui esso porta a riconoscere allo stesso tempo il primato del dato naturale e la sua alterità culturale.

 

Può essere più chiaro…

 

La "natura" non è né la stessa cosa che l’uomo, né qualcosa che si oppone all’uomo. Essa è, si potrebbe dire, l’Altro dall’uomo - questo Altro che partecipa della definizione dell’uomo senza riassumerlo interamente. La cultura non esiste senza natura, ma al tempo stesso se ne differenzia appropriatamente finché ne riconosce la matrice. Tale posizione mi trova concorde, vi sono però alcune implicazioni, per quanto limitate, che invece colgo con minore entusiasmo. In particolar modo vi è una sottolineatura evoluzionistica delle capacità di adattamento dell’uomo che non a caso portano de Benoist a raccogliere con una certa disinvoltura le implicazioni delle biotecnologie.  

 

Vuole parlare del suo personale incontro con il pensiero ecologista?

 

È nato come naturale sbocco del mio personale retroterra culturale. Le civiltà tradizionali, le culture preletterarie indigene e le filosofie sapienziali di Oriente e Occidente hanno nutrito la mia formazione e mi hanno portato a cercare una posizione esistenziale socio-politica capace di contestare il dettato razionalista, riduzionistico-scientista dominante. Negli anni ottanta incontrai il paradigma epistemologico relazionale ed olistico descritto ne Il Tao della fisica o La rete della vita da Fritjof Capra. Quest’ultimo, insieme a Gregory Bateson, rappresentano questa sintesi culturale tra spiritualità e conoscenza, che pone in palese crisi le certezze della modernità a partire proprio dai modelli scientifici. Questo “ordine nascosto”, di tipo olista, riprende palesemente quello ritualizzato nelle culture sacrali, piuttosto che dai "mistici” orientali, taoisti, induisti, buddisti e occidentali, come Meister Eckhart o di Hildegard von Bingen. Ma la stessa storia del pensiero occidentale ha una traccia carsica ma continuativa legata alla ontologia naturale che va dai presofisti agli stoici, dal simbolismo rinascimentale del Cusano, Ficino, Mirandola, lo stesso Bruno, al romanticismo con von Humboldt, Göethe, Schelling, Herder, tramite quel mondo animato di Leibniziana memoria…

 

Si fermi un attimo, perché sto perdendo il filo…

 

Le piace scherzare… Ma i presupposti di cui sopra hanno la forza di insidiare due assiomi dell’ideologia del progresso: la concezione lineare del tempo e l’ottimismo deterministico. Non solo, quindi, una critica del nichilismo della tecnica e del relativismo individualistico, ma anche del postulato economico della crescita illimitata, di un modello di sviluppo edonistico, massificante, insostenibile. Come ho prima detto, su queste basi mi sembra di cogliere i termini per una coerenza intellettuale e un risvolto nell’impegno culturale adeguato ai tempi.

 

Lei è un editore. Quali difficoltà si incontrano, appunto sul piano editoriale, quando  ci si impone, come  nel suo  caso, l’approfondimento sistematico, delle tematiche ecologiche?

 

Difficoltà molteplici. Innanzi tutto di posizionamento politico-culturale. Infatti, come anche le ben sa, praticare quella “terra di nessuno” ulteriore alla “destra” e alla “sinistra”, porta grande libertà “teoretica”, ma grandi difficoltà pratiche. La sinistra ti considera di “destra”, così come la destra ti considera di “sinistra”.

 

Non me ne parli…

 

Ecco, aggiungiamo che il taglio dei temi e degli autori è spesso visto con sospetto dall’ambientalismo nostrano che, come detto, è tra i più condizionati e miopi del continente. Si badi bene che questo non rientra semplicemente nel lecito dibattito delle idee, perché noi abbiamo coscientemente scelto questa strada impervia, ma ha conseguenze in termini di visibilità mediatica, promozionale e collocamento commerciale.

 

Dopo di che…

 

Oltre a ciò, vi sono aspetti strutturali della industria libraria in Italia che arrecano oggettive difficoltà alla produzione non conformista e artigianale, come quella della Arianna editrice. Domanda e offerta tendono alla mercificazione e banalizzazione dei contenuti. Tra novità e ristampe ogni giorno escono quasi ottanta titoli che raggiungono librerie asfittiche sempre più “edicolizzate” che non hanno il tempo commerciale e la volontà gestionale per metabolizzare culturalmente i libri. In realtà è un eccesso dovuto anche alle molteplici stupidaggini che sono stampate e il mercato, non la mercificazione, ha il diritto di determinare cosa è interessante da leggere o meno. Il problema cioè, non è in termini di sovvenzioni, così come rivendica e ottiene la carta stampata giornalistica, ma di avere regole certe, eque e rispettate. In ultima analisi, gli editori “puri” sono una minoranza che non ha gli strumenti per ribaltare i rapporti di forza con una editoria espressione di gruppi economici che condizionano il mercato monopolisticamente e questo è un problema politico di democrazia e pluralità di espressione. Quello che si può fare passa per la forza ostinata dell’autonomia più completa da ogni lusinga compromissoria e un catalogo accorto promosso attraverso mezzi a basso costo gestionale come internet. Il resto lo fa qualche titolo più azzeccato di altri, il passaparola e i librai intelligenti. Comunque si riesce semplicemente a sopravvivere, anche se in modo dignitoso e speriamo non velleitario.

 

Ecco una domanda che piace sempre gli editori. Vuole parlare del suo catalogo?

 

L’Arianna editrice nasce nel 1999 e rinasce nel 2005 con un accordo distributivo commerciale con il gruppo editoriale delle Macro edizioni. Questo mutamento, reso necessario per la sopravvivenza economica della editrice, non ne muta i lineamenti culturali. Il cambiamento è invece osservabile graficamente perché l’aspetto delle copertine, considerato marketing, è passato alle Macro edizioni. Altro mutamento è di offerta editoriale: oltre alla saggistica di riflessione e approfondimento, il nuovo corso porta un tentativo di realizzare volumi di informazione indipendente, quindi più fruibili per un pubblico meno specialistico, ma non meno esigente nella rigorosità con cui sono trattati i temi proposti. Fuori da schemi e confini ideologici,  che limiterebbero, come detto, la nostra libertà di scelta, indipendenza di giudizio, offriamo un ampio spettro di autori non conformisti, che si sforzano di percorrere e proporre vie inusuali e non ortodosse, tra cui ricordiamo Alain De Benoist, Aldo Sacchetti, Amitai Etzioni, Bernard Charbonneau, Charles Champetier, Costanzo Preve, Edward Goldsmith, Gary Snyder, Helena Norberg-Hodge, Jerry Mander, Kirkpatrick Sale, Knut Hamsun, Luisa Bonesio, Marco Cedolin, Marco Della Luna, Marianne Debouzy, Maude Barlow, Miklos Veto, Pitirim A. Sorokin, Serge Latouche, Steven Gorelick, Tony Clarke. Per questo ci identifichiamo con un modello comunitarista,  proponendo relazioni sociali antiutilitaristiche, basate sulla partecipazione e il dono, l'autosufficienza economica e finanziaria,  la sostenibilità e rinnovabilità energetica, le tecnologie appropriate.

 

Per riassumere…

 

La nostra proposta editoriale si propone di offrire gli strumenti per scoprire le cause che hanno prodotto l'attuale stile di vita dissipativo e consumista e, contemporaneamente, esplorare le possibili soluzioni ecologiche legate a un paradigma olistico. Per visionare il catalogo aggiornato, vi consigliamo di visitare il sito www.ariannaeditrice.it.

 

Ma  torniamo sui nostri passi. Quali rapporti tra ecologia, civiltà, cultura, per usare l’ insuperata terminologia spengleriana?

 

Ricollegandomi alla mia sommaria descrizione della bontà delle tesi sostenute dall’ecologia del profondo, devo perciò subito chiarire, che tali argomentazioni sono in chiaro contrasto con l’ambientalismo scientifico e politico, che sostiene invece la modificabilità riformistica del sistema liberal-capitalista, ipotizzando il cosiddetto  “sviluppo sostenibile”. Tale teoria mira a correggere lo sviluppo classico, ma è incapace di considerarlo la causa profonda della crisi ecologica. Senza rimettere in discussione l’immaginario dell’homo oeconomicus, è illimitabile l’accumulo la voracità mercantile e l’accumulo capitalistico. L’ecologia del profondo o, per meglio dire, a questo punto, olistica, consapevole che il degrado antropico dell’ambiente è da ricercare nelle cause del modo di produzione, e non nei suoi effetti perversi. Coerente con il presupposto filosofico dell’appartenenza dell’uomo alla natura, propone una metanoia, una inversione di marcia verso un modello socio-economico, che rinserri l’economico nel sociale, e la sobrietà come vincolo alle necessità economiche. Questo è possibile in forme consensuali di democrazia comunitaria, con un principio di sovranità che oltrepassi il contrattualismo individualistico…

 

E in che modo?

 

E’ necessaria una  politica che parta dalla base, e che  implichi la sovranità condivisa, la partecipazione, il principio di sussidiarietà, il rispetto dei corpi intermedi e delle libertà fondamentali, la costituzione a ciascun livello di un equilibrio fra la deliberazione e la decisione. E tutto ciò, a dimensione locale. Il controllo democratico partecipativo del potere corrisponde comunitariamente ad un territorio condiviso. Il principio di reciprocità si evidenzia nelle identità di gruppo, ove è preminente l’aspetto simbolico-comunitario della relazione sociale. Tra i singoli, i rapporti sono regolati da forme generali di giustizia distributiva ispirate al dono e alla complementarietà. In tale contesto, norme e scambi sociali, fondati su consuetudini morali, legano organicamente l’economico all’istituzione sociale, comunitaria, quindi etica. La sobrietà dello stile di vita rafforza la ricostruzione del legame sociale e la sua capacità di esprimere peculiarità nello sviluppo autosostenibile riferito ai principi di “ciclicità” e di “limite”, insiti nella omeostasi della natura.

 

Si potrebbe riportare  il sistema da lei delineato sotto la “rubrica” federalismo?

 

A voler essere più precisi, si potrebbe parlare di  federalismo intercomunitario, situato in un “grande spazio” continentale, come una risposta credibile e concreta alla crisi di legittimità delle democrazie procedurali occidentali, che invece si alimentano in una perversione degli interessi economici fino all’involuzione tecnocratica ed oligarchica, che va di pari passo con la onnipervasiva mercificazione del vivente.

 

Ma  torniamo al concetto di  civiltà….

 

Qui il problema centrale ruota intorno alla tecnica. La meditazione di Martin Heidegger in merito è ancora di straordinaria attualità in quanto tende a configurarsi come un pensiero non tecnico sulla tecnica, avente per oggetto l’essenza non-tecnica della tecnica.

Heidegger distingue tra due tipi di tecnica: la tecnica pro-duttiva, che è rappresentata da quella degli antichi Greci, la quale favorisce il corso/flusso della natura, senza forzarla, sfruttandone l’energia senza ostacolarla; la tecnica pro-vocativa, rappresentata da quella moderna, che sfrutta la natura forzandola, in quanto trae fuori dalla natura energia da accumulare e da impiegare.

L’essenza della tecnica è quindi Gestell (porre insieme), Heidegger intende con questo termine la totalità del porre tecnico, e la totalità, in questo contesto, asservita alla volontà di potenza dell’uomo, lo spinge a porre le cose come oggetto di manipolazione, e in tal modo l’uomo cerca di manipolare sempre più gli oggetti, entrando in un circolo senza fine. Ma Heidegger ritiene che anche la tecnica sia disvelamento, in quanto porta alla luce qualcosa che prima era celato, e in quanto disvelamento il Gestell non dipende da un’iniziativa dell’uomo, ma dall’essere e dal suo destino. Lo smarrimento dell’essenza della tecnica è dovuto all’atteggiamento dell’uomo, il quale considera unico modo di disvelamento nichilistico il Gestell, senza comprendere che quello è solo una modalità di disvelamento. Attraverso questa considerazione, l’uomo si assoggetta alla modalità in cui l’essere in quanto tale non è più nulla, perciò egli rinuncia alla sua essenza di pastore dell’essere e custode della verità, perdendone l’essenza. Al tempo stesso, proprio perché la tecnica è disvelamento, se ritrova l’appropriatezza all’essere, si manifesterà in modo veritativo.

Quando si evoca una metanoia, un mutamento paradigmatico per ricomporre il divorzio tra natura e cultura, stiamo parlando più o meno consapevolmente in termini affini alla riflessione Heideggeriana sul nichilismo occidentale.

 

E  quanto al rapporto tra “americanismo” e pensiero ecologista?

Il termine “americanismo” descrive le modalità dell’espansionismo politico, economico e culturale statunitense. Dato che l’occidentalizzazione passa per il protagonismo storico di questa super-potenza, non è difficile concludere che anche da un punto di vista ecologico, gli equilibri ambientali, energetici e socio-economici del pianeta sono aggrediti dagli interessi di un modello unilaterale, motivato da un sentimento universalistico e da una pervicace autogiustificazione morale umanitaria. Da questo punto di vista, le cose sono chiare: il principale nemico dell’autodeterminazione dei Popoli, sul piano politico e geopolitico, sono gli Stati Uniti di America. Questo però potrebbe essere considerato contraddittorio con la sequenza di citazioni anglosassoni ed esplicitamente americane che abbiamo fatto nel corso di questa intervista per accreditare la bontà del pensiero ecologista. In tal senso il peggior errore dei critici dell’occidentalizzazione del mondo consisterebbe nell’assimilare il principale nemico ad un nemico assoluto. Quell’errore o modo di pensare appartiene alle menti totalitarie (o religiose). Credere che il principale nemico è un nemico assoluto significa prendere una perversa via moralistica, in cui il nemico diventa necessariamente un colpevole che bisogna  vincere e poi punire, il simbolo di un male che è necessario eliminare, distruggere perché “inumano”.

Ma questo è un ragionamento tipicamente americano…

Giusto.  E’ così che ragionano gli Americani, che si sentono vessilliferi del “bene universale” e per i quali la guerra si apparenta sempre alla crociata, alla conquista, alla distruzione di chi si oppone al “destino manifesto” della libertà. Niente costringe gli oppositori dell’ideologia “americana” e le sue paranoie titaniche ad agire allo stesso modo. Anche se gli Stati Uniti sono il nemico numero uno, non ha senso demonizzarli.Vi è una tradizione populista americana - con nomi poco noti in Europa come Henry George e Brook Adams - critica sia del socialismo che del liberalismo, avversa al progressismo, il razionalismo e il gigantismo statunitense, in nome delle virtù popolari. Cristopher Lasch recupera nella sua lettura caustica della decadenza dei costumi “liberal” questa tradizione, quando parla della “cattiva modernità” liberale e di una “buona modernità” come emancipazione dei popoli con una produzione su piccola scala, una democrazia diretta locale con virtù quali temperanza, pietà, indipendenza d’animo e amore per il lavoro ben fatto. Nello specifico ecologista si pratica e ripropone la buona custodia della terra (steawardship) come componente essenziale della libertà umana e della giustizia sociale. Dalle virtù civiche del “repubblicanesimo proprietario” di Thomas Jefferson, così caro a Ezra Pound, al “trascendentalismo” di Emerson ed Henry D. Thoreau, dal naturalisimo pionieristico di John Muir al conservazionismo di Aldo Leopold, c’è parte del retroterra culturale a cui attingono le “virtù rurali” di Wendel Berry; il bioregionalismo di Peter Berg e di Kirkpatrick Sale; il ritorno alla selvaticità (wildersness) di Gary Snyder. Forse la vastità e la profonda bellezza dei paesaggi unite alla saggezza della cultura pellerossa, hanno insinuato fin dalle origini nello spirito americano - prometeica esaltazione della modernità conquistatrice di un “eterno” West trasposto nell’idealtipo della Frontiera - un particolare richiamo interiore alla natura come riferimento sostanziale della civiltà. Poiché lo stile di vita edonistico statunitense è divenuto il maggior fattore di distruzione degli equilibri naturali, il ruolo di questi pensatori contemporanei si è fatto più gravoso e contraddittorio rispetto a quello dei loro predecessori. Poiché la società americana ha scelto l’espansionismo unilaterale, essi si pongono in termini rigorosamente critici.

Interessante.  Può fare qualche altro nome in particolare?

Beh, c’è  Aldo Leopold - fondatore, tra l’altro, della Wilderness Society e morto 50 anni fa mentre tentava di domare un incendio nella prateria che minacciava la sua fattoria - nel suo Almanacco di un mondo semplice riproduce immagini semplici ed essenziali tratte dall’esperienza del mondo naturale. La sua è una commovente descrizione dei mutamenti che la natura subisce nel corso di un anno, con il fiorire e lo sfiorire della vegetazione e il conseguente comportamento degli animali: la ciclicità delle quattro stagioni come analogia della spirale dell’esistenza umana. Questa parte narrativa sfocia quindi nelle riflessioni sul rapporto uomo-natura, delineando quell’originale prospettiva biocentrica, in cui il sapere ecologico si allea all’etica e all’estetica; prospettiva, questa, che ha esercitato un influsso decisivo sull’ecologia del profondo. Leopold, evidenziando i fallimenti del “protezionismo” ambientale, parte dal presupposto che la “Terra è un organismo” e che, solo sentendola come una “casa comune” a cui apparteniamo, potremo servircene con il dovuto rispetto. Il degrado della bellezza della natura corrisponde alla riduzione della sua complessità, diversità, stabilità: quell’equilibrio, che ne sostanzia in profondità la pienezza vitale e simbolica.

E poi…

Un sicuro erede di questo atteggiamento interiore è il già citato Wendell Berry, poeta, scrittore, saggista, professore di letteratura all’Università del Kentucky, ma, soprattutto, agricoltore. Il suo approccio alla repentina degradazione ambientale, culturale e umana della società industriale inizia nei primi anni Sessanta. A differenza di molti pensatori e letterati di quell’epoca, per la maggior parte legati alla Beat Generation, alcuni dei quali (come Gary Snyder) suoi strettissimi amici, Wendel Berry non vaga per il paese alla Easy Rider. La sua protesta contro il consumismo non persegue una apolide recisione delle radici; al contrario il suo contributo è rivolto alla riscoperta delle fonti della cultura occidentale, che l’industrialismo progressista ha soffocato. Rivisitando le grandi opere della letteratura europea, dall’Odissea alla Divina commedia al Paradiso perduto di Milton, insieme al Vecchio e Nuovo Testamento, Berry rintraccia i presentimenti del tragico destino occidentale. La sua poesia e la sua letteratura non hanno nulla di estetizzante o intimistico, ma si rivolgono comunque all’anima contemporanea straziata dalla mancata identità personale e sociale. Non indulgono alla nostalgia ma forniscono a politici, economisti e uomini della strada, delle indicazioni pratiche e della intelligenza tecnica e storica sedimentata dalle sobrie virtù civiche comunitarie. Con i piedi per terra è l’emblematico titolo di una sua raccolta di testi.

Ne vuole parlare?

Nella raccolta gli argomenti spaziano dall’improprio primato dell’economia industriale, al fallimento “specialistico” dell’istruzione universitaria, al nostro rapporto con gli strumenti della tecnologia e con la natura selvaggia. Il problema della coerente e pratica applicazione della coscienza personale e comunitaria nella vita di ogni giorno è quello centrale di ogni uomo. Quando una società nega questa esigenza, separandosi dalla propria tradizione, regredisce nell’anomia individualistica e nel degrado culturale, nonostante la patinata veste di prodigi tecnologici e successi materiali di cui si riveste. Berry si richiama, in controtendenza, ad una prospettiva di radicamento etico del quale l’economia può, e quindi deve, essere uno strumento. Nell’interpretare l’evoluzione del modello economico statunitense immagina retoricamente come sarebbe stata la società, se nel secondo dopoguerra si fosse dato il giusto peso alle comunità rurali rispetto alla crescita esponenziale del prodotto interno lordo, se si fosse investito nella qualità della vita con lo stesso impegno impiegato per dispiegare il complesso militare-industriale più potente del mondo. Domanda oggi quanto mai pertinente e drammaticamente attuale. La ricaduta localistica del pensiero di Wendel Berry è presa alla lettera dal movimento bioregionalista americano…

Bioregionalista, il termine sembra suonare bene…

La parola bioregione si compone semanticamente di bio, la parola greca che significa vita e “regione” che deriva dal latino regere, cioè governare. La vita che si autogoverna nel limite biotico di un territorio. Un territorio abitato, un luogo definito dalle forme di vita che vi si svolgono, piuttosto che dall’artificio della razionalizzazione; una regione governata dalla natura. Tutto ciò è credibile solo coltivando una rinata sensibilità per la specificità dei luoghi e delle culture, una lealtà politica verso il territorio in cui si vive, unite a pratiche economiche e sociali sostenibili, cioè radicate nella particolarità del territorio e delle sue tradizioni, espresse dalla sensibilità delle comunità locali. La pluralità delle identità comunitarie evita i rischi di accentramento del potere e quindi di colonialismo o imperialismo. La complementarietà e lo sviluppo di una fitta rete di relazioni intercomunitarie - tra cui la sussidiarietà e l’interdipendenza - possono definire con sufficiente approssimazione l’intento di un “federalismo ecologista”. Il problema di fondo è di ripensare pluralisticamente il mondo fuori dall’universalismo monistico e dall’etnocentrismo occidentale rispetto al quale tutto ciò che è “diverso” diventa barbarie, periferia retrograda da “modernizzare”.

E per quel che riguarda il rapporto tra ecologia e   mondo islamico….

Buona domanda. Collegando l’Islam alla modernità e alla critica ecologista, mi verrebbe quasi da invertire la logica che ho adoperato nella risposta precedente. Il fatto che l’Islam si presenti, o sia presentato, genericamente come avversario della modernità non ne fa in quanto tale un “amico” del pensiero critico dell’occidentalizzazione.

Non è questa la sede per cogliere il rapporto tra i monoteismi e la natura. Mi limito a dire che a differenza del politeismo e dell’emanazionismo ilomorfico, il creato è dato all’uomo per un destino finalistico ed escatologico. Questo ingenera di per se un dualismo tra spirito e manifestazione. Il senso del limite è qui imposto su un piano morale più che di equilibrio cosmogonico, ma è pur sempre un limite. In tal senso è interessante ricordare il rapporto tra conoscenza scientifica ed Islam. Storicamente non c'era autorità religiosa che impediva l'attività scientifica, dal momento che le relazioni tra fede e ragione (si pensi ad Averroè e, soprattutto ad Avicenna) non erano conflittuali. Perciò l'attività scientifica non si è mai totalmente separata dalle considerazioni etiche; in terra d'islam i limiti restavano, mentre l'Occidente, per accedere al dinamismo che conoscevano i musulmani, aveva dovuto liberarsi di tutto l'intralcio dogmatico e per estensione morale. Questo può spiegare come, a partire dal XII secolo, ma più chiaramente dal Rinascimento, la scienza conosca un tale progresso in Europa: si sviluppa ormai senza riferimento religioso o in modo totalmente autonomo davanti ad un mondo divenuto oggetto di conoscenza, oggetto di dominio. Mai questo tipo di rapporto è prevalso nell'islam perché il limite dell'etica è rimasto molto radicato e perché il mondo, certamente "oggetto" di conoscenza, è rimasto comunque "soggetto", testimone di una creazione da rispettare. All’oggi la sfida tra Islam e modernità è di grande portata non solo per le implicazioni drammatiche sotto gli occhi di tutti, ma perché il mondo musulmano se perseguirà per emulazione lo stesso sviluppo dell'Occidente, tradirà tutti i suoi riferimenti.

 

Un bel rischio. O no?

 

Purtroppo è  l’implicazione universalistica di ogni monismo, religioso o laico che sia, che comporta il fondamentalismo. Il dialogo è possibile se si fa fra “diversi” non fra simili, pretendendo che il ‘diverso’ non sia più tale e si omologhi all’altro. Questo vale per tutti i portatori di una identità, che ha valore in sé, non perché la si impone

agli altri.  

 

 Decrescita. Non si può non chiudere l’intervista con una domanda  su un tema così attuale. O no?  

 

La decrescita è un’idea che si basa sulla constatazione lo sviluppo produttivo non può essere illimitato. Essa individua due problematiche fondamentali: la prima riguarda lo stato di salute del pianeta ed in particolare il surriscaldamento dell’atmosfera, lo scioglimento delle calotte polari che ne consegue, con le annesse catastrofi naturali sempre più gravi e frequenti. Il secondo grande problema è il progressivo esaurimento delle materie prime presenti sul nostro pianeta, soggetto all’intenso sfruttamento di due secoli di industrializzazione, e, soprattutto, della principale risorsa energetica disponibile, il petrolio. Pertanto quello della decrescita è un pensiero che si pone in termini critici di fronte alla modernità ed al paradigma dello sviluppo ad ogni costo, laddove spesso non se ne riconoscono i limiti e le conseguenze molto negative che ne possono derivare.

 

Qui  sarebbe interessante soffermarsi su  Latouche.

 

Serge Latouche, uno dei pensatori più accreditati della decrescita, la presenta efficacemente allorché sostiene che si tratta di un problema di mentalità: egli ha coniato un’espressione molto efficace, che spiega come il suo fine sia “decolonizzare l’immaginario occidentale”, uscendo dal dogma ideologico dello “sviluppo”. La critica al mondo attuale che pone il pensiero della decrescita, non riguarda soltanto i suoi aspetti concreti e “fattuali”, come quelli ecologici ed economici. Riguarda invece anche l’impianto ideologico della civiltà occidentale nella misura in cui si invitano le persone ad uscire dal ciclo infernale della produzione e del profitto a qualunque prezzo… ad uscire insomma dal mondo della razionalità mercantile.

 

Non sarà  un’impresa facile

 

Uscire dall’immaginario economicista dominante significa cogliere la misura dei propri comportamenti, dominare se stessi, coltivare attraverso l’essere la libertà, la virtù relazionale e la creatività personale, di contro alla cupidigia istintuale dell’avere e ai meccanismi eterodiretti ingegnati dalla società dei consumi grazie al fraintendimento del concetto di felicità.  

Hybris, per il pensiero greco, è ogni situazione in cui si assiste a un oltrepassamento del giusto, a una prevaricazione a cui va contrapposta una esistenza sobria, autoregolata al minimo dei bisogni e dei consumi, in armonia con la natura. Conseguentemente bisogna modificare radicalmente la prospettiva su un diverso paradigma, che si poggi sulla “riduzione di scala” dei modi di produzione – a partire dalle corporation transnazionali – e sul “decentramento” della produzione alimentare, dei trasporti e dell’approvvigionamento energetico. Riduzione di scala e decentramento si realizzano solvendo la tecnocrazia amministrativa in partecipazione decisionale vincolata alla sussidiarietà. Caratteristica antieconomica degli apparati è di autosostenersi, a discapito dell’efficienza e dell’ambiente sociale e naturale in cui gli stessi operano…

 

Concludendo?

 

Il superamento della mercificazione e della massificazione totalitaria del liberismo passa per la riduzione del mercato globale a mercati locali, con scambi di reciprocità dei prodotti d’uso, dato che solo la produzione locale può raggiungere la sostenibilità dei cicli energetici e dello smaltimento dei rifiuti. Analogamente, bisognerà trasferire lo scambio economico da un piano globale e competitivo ad uno reciprocitario e relazionale, che riproduca, attraverso il dono, la socializzazione dell’economico.

 

(a cura di Carlo Gambescia)