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La valanga degli spot che ossessiona le vostre vite...

di Carla Ravaioli - 15/10/2006

 
A Strasburgo si discute la direttiva europea che vuole alzare i tetti pubblicitari

Avete mai pensato che la valanga degli spot che ossessiona le vostre vite, siete voi a pagarla?

Dunque il parlamento europeo è impegnatissimo a elaborare una nuova direttiva che promuova “una fiction tv costruita in funzione della pubblicità di un prodotto” (Angela Mauro, Liberazione, 8 ottobre).

Come prima reazione vien fatto di domandarsi: ma che altro è, che altro è stata finora, la tv? Che altro è la stragrande maggioranza dei programmi tv, notoriamente confezionati in modo da renderli attraenti per il più vasto pubblico possibile, e pertanto al massimo appetibili e monetariamente apprezzabili dai maggiori inserzionisti? Che cosa ancora offrire al mercato più che inni a gelati e cochecole prorompenti nel bel mezzo di dibattiti politici, di reportages di guerra o di terrificanti alluvioni, riportando ogni discorso al livello della merce?

Eh no. A Strasburgo si ritiene di poter far di meglio. Non solo concepire spettacoli, giochi e trame, perfettamente omologhi all’ideologia del consumo, così da ospitarne senza stridori né rotture di senso l’indefettibile ottimismo degli spot, come già di regola accade. Inventarsi storie che senza più pudori o infingimenti mirino a vendere un determinato prodotto (che so, una tormentata vicenda d’amore che solo un certo satellitare condurrà a lieto fine? Lui che langue per un solo sguardo, e lei che tiene duro finché non lo vede a cavallo di quella superpotente moto? Lui che la tradisce e fa bene, perché solo questo può toccare a una donna che non veste Armani?): è quanto propone, e fermamente sostiene, un buon numero di parlamentari europei. Non pochi anzi rincarano la dose, e trovano che venti minuti tra una raffica di spot e l’altra siano troppi, che tre ore di pubblicità al giorno siano poche, che più flessibilità (anche qui) sia indispensabile. Eccetera.

Per fortuna a Strasburgo non manca, ed è al lavoro, un robusto drappello di resistenti, molti dei quali delle sinistre italiane. Qualche correzione già sono riusciti a farla approvare e, a leggere le dichiarazioni di Roberto Musacchio, Giovanni Berlinguer, Giulietto Chiesa, c’è da credere che i promotori della direttiva non avranno vita facile. Ma forse questa potrà essere anche una grande occasione per le sinistre, non solo nostre, per confrontarsi con un tema come la pubblicità, che tradizionalmente è stato scarsamente considerato, o addirittura ignorato, come d’altronde tutto quanto aveva attinenza con il consumismo, questa perversione del consumo di massa, di cui solo Enrico Berlinguer seppe avvertire la reale pericolosità. E lo disse pubblicamente e dettagliatamente nel gennaio del ’77, nel suo famoso quanto avversato (dai comunisti non meno che da tutti gli altri) discorso sull’austerità in cui, con l’acume di un grande sociologo oltre che col piglio di un grande politico, parlò di insania consumistica, di inaccettabile sperpero, di bisogni artificiosamente indotti, di individualismo sfrenato. E di fatto, pur senza nominare la pubblicità, ne descrisse con lucida e perfino profetica esattezza caratteristiche e funzioni.

Dal ’77 a oggi il mercato pubblicitario è diventato uno dei più forti e potenti del mondo, caratterizzato da un costante aumento, sempre superiore e a volte enormemente superiore a quello del prodotto mondiale. Per limitarmi a qualche dato (www. zenithoptimedia. com): nel 2005 la spesa pubblicitaria mondiale è stata di 404.108 milioni di dollari con un aumento del 4,9 rispetto al 2004; per quest’anno il saldo previsto è di 429.373 milioni di dollari con un aumento del 6,9; per i prossimi due anni si presumono aumenti del 5,6 e del 5,3. Ma il vero boom si è verificato a fine secolo: nel 2000 la spesa mondiale destinata ai “consigli per gli acquisti” è stata complessivamente del 10,8% superiore a quella del ‘99; in particolare tra il 1999 e il 2001 è stato il Sud del mondo a registrare una vera esplosione pubblicitaria, con + 200% in India e Sud Corea, + 300% in Thailandia, + 600% in Indonesia, + 1000% in Cina. Negli stessi anni in Italia, mentre l’aumento del Pil non superava il 2%, la spesa in pubblicità aumentava del 10,4 e del 12,8.

Poche cifre che bastano a dire come la pubblicità sia oggi un gigantesco affare, capace di vita propria e di spettacolare prosperità anche quando l’intera economia è in crisi, e tuttavia all’intera economia strettamente connesso, in quanto interfaccia tra produzione e distribuzione, strumento principe di alimentazione dei consumi, di conquista di nuovi mercati e dunque di crescita produttiva, insomma insostituibile segmento dei meccanismi di accumulazione di plusvalore; come sia dunque un grave errore della politica, in particolare di sinistra, trascurarne la presenza e il peso. Tanto più che la sua non è una funzione meramente meccanica: per risultare efficace la pubblicità deve colpire la psicologia, la sensibilità, la fantasia degli utenti, e agire sull’inconscio, non solo suscitando bisogni mai prima avvertiti, ma imponendone la soddisfazione come una sorta di dovere esistenziale, e addirittura, in nome dello sviluppo, come un dovere civico. A tal fine necessariamente puntando all’omologazione dell’audience ai valori del mercato, del produttivismo, del modello economico oggi vincente nel mondo, vale a dire impegnandosi a conservare e rafforzare l’ordine culturale esistente, ad esso funzionale e omogeneo.

Tutto ciò le sinistre in genere lo hanno considerato assai poco, come un discorso in qualche modo pericoloso per lo “sviluppo”, obiettivo storico rimasto prioritario e fermamente perseguito anche in un mondo che andava rapidamente trasformandosi e sempre meno rispondendo positivamente alle tradizionali politiche in difesa del lavoro. Ma fatti come la direttiva europea sulla pubblicità televisiva, che nel modo più plateale dicono quale sia la vera funzione (da sempre, ma oggi più che mai) attribuita ai mezzi di comunicazione di massa, interamente consegnati alle esigenze del mercato, anzi trasformati in agenzie del mercato stesso, forse possono riaprire il dibattito. Magari ripartendo dalle parole di Enrico Berlinguer: “Bisogna uscire, sia pure gradualmente, dai meccanismi e dalla logica che ha presieduto allo sviluppo italiano, dai suoi pseudovalori e persino dalle abitudini che esso ha creato (…) recidere alla base la possibilità di continuare a fondare lo sviluppo economico italiano sul dissennato gonfiameno del consumo privato (…) La politica di austerità deve essere diretta sia contro l’insania consumistica sia contro il tentativo di far sì che l’uscita dalla crisi sia pagata solo dalla classe operaia e dai lavoratori”. Così diceva Berlinguer quasi trent’anni fa, convinto che i lavoratori potessero difendersi senza, anzi contro, produttivismo e consumismo.

Leggo che la direttiva europea in discussione ha suscitato sane rivolte anche all’interno dell’associazionismo di base, e che l’assessore alle politiche culturali della provincia di Roma, Vincenzo Vita, sta pensando a un convegno sulla materia. Credo potrà essere un momento importante non solo per correggere e orientare la direttiva in questione, ma anche per altri obiettivi di più largo respiro. Innanzitutto per promuovere un approfondito confronto sulla funzione della pubblicità e in genere sul rapporto tra mass media e pubblico, sulla sua realtà e la sua storia, per più versi intrecciata con la storia delle sinistre. L’occasione sarà inoltre quanto mai utile anche per una riflessione della Sinistra Europea sul compito che si è data: assumendo il dibattito in corso a Strasburgo come misura del livello di passiva assimilazione dei popoli europei al modello neoliberista, e delle necessarie strategie per affrontarlo.

Forse sarebbe anche la volta buona per dire alla gente che poco o tanto, consapevolmente o no, finisce per cedere alla seduzione pubblcitaria: avete mai pensato che la valanga di comunicati commerciali che ossessiona le vostre vite, siete voi a pagarla? Lo sapete che quando spendete diciamo 2 euro per un detersivo, in realtà comperate non più di 30-40 centesimi di detersivo e circa un euro di pubblicità? Che la pubblicità incide ancor più pesantemente sul prezzo di bibite, profumeria, paste alimentari? E che siete sempre voi a pagare? Non so se rendere note le cifre esatte (difficilissime oggi da conoscere) che spendiamo in pubblicità, cambierebbe i comportamenti dei consumatori. Ma farglielo sapere non mi pare che comunque sarebbe male.