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Il nocciolo della questione è l'identità

di Francesco Lamendola - 22/10/2018

Il nocciolo della questione è l'identità

Fonte: Accademia nuova Italia

Il nocciolo della questione, the Hearth of the Matter, come dicono gli inglesi, è l'identità. Tutti i problemi e tutte le questioni si riconducono a questo: sapere chi si è. Identità significa consapevolezza, e consapevolezza significa padronanza di se stessi e capacità progettuale riguardo ai mezzi e ai fini che ci si prefigge nella vita. Senza dubbio vi sono molte persone le quali non si prefiggono un bel nulla e che scelgono a caso, di volta in volta, i mezzi da adoperare per fare questa o quella cosa, ma ciò significa una cosa soltanto: che tali persone hanno obliato la loro identità - o, peggio, che non l'hanno mai avuta. L'identità, infatti, è sia l'impronta che si riceve dal mondo esterno, fin dal concepimento (e non dalla nascita, questo è ormai assodato), sia la sua rielaborazione in chiave personale. Pertanto, noi siamo sia il frutto di ciò che - per dirla col buon vecchio Taine - la razza (intesa come eredità genetica) l'ambiente e il momento storico hanno fatto di noi, sia di ciò che noi abbiamo deciso (o cui abbiamo rinunciato) di essere. Se avesse ragione Taine, se avessero ragione i positivisti, i materialisti e i deterministi, noi saremmo solo il frutto di cose che non dipendono da noi, ma, apparentemente, dal caso, o forse dal destino; se  invece, come noi crediamo, ha torto, allora diventa decisivo il fatto che noi assumiamo coscienza di noi stessi, che decidiamo che cosa vogliamo essere, e che rielaboriamo i dati esteriori della nostra vita per indirizzarli verso una meta da noi stessi determinata. Nel primo caso, si vive sostanzialmente a caso, senza speranza, zimbelli del caso o del destino, e con la prospettiva di scivolare, infine, nel nulla; nel secondo, si concepisce la vita come una chiamata, si valutano i fattori che giocano a favore o contro di essa, e si sceglie se si vuol rispondere positivamente o negativamente nei suoi confronti. Sono due maniere radicalmente diverse di vivere la vita, alle quali corrispondono quasi due forme differenti di umanità. Solo nel secondo caso la vita diviene qualcosa di dinamico, e cioè una evoluzione (o, al limite, una involuzione); nel primo caso, essa è e rimane qualcosa di statico, che non ci insegna nulla, perché non vi è in essa nulla da imparare, tranne le abilità necessarie a barcamenarsi nella foresta della contingenza, senza però arrivare mai a intravedere il cielo, al di sopra delle chiome degli alberi. E vivere nel folto della foresta, senza mai uscirne, equivale a vivere senza capire nemmeno se è giorno o notte, se è mattino o sera, cioè, fuori di metafora, se ci troviamo sul sentiero giusto, o no; se stiamo andando verso la luce o verso le tenebre sempre più fitte.

Una vita nella quale non ci si pone in atteggiamento discente è una vita nella quale si ripetono sempre le stesse dinamiche, e perciò anche gli stessi errori. Al tempo stesso, una persona che vive senza sviluppare e senza coltivare la propria identità è molto più facilmente manipolabile di una persona che lo fa; estendendo il ragionamento alle società, ai popoli e alle nazioni, appare chiaro che qualcuno ha interesse a inibire il senso della identità personale e collettiva, perché la società destrutturata e i popoli ridotti a masse dì'individui egoisti e narcisisti, sono solo bestiame da macello nelle mani di chi tiene le redini del gioco. Le redini del gioco sono nelle mani della grande finanza, il cui potere, negli ultimi cento anni, è cresciuto in misura esponenziale, e che sono giunti, oggi, a controllare la quasi totalità dell'informazione e anche di ciò che va pomposamente sotto il nome di cultura. Come esiste l'identità delle persone, infatti, esiste anche l'identità dei popoli; e sia l'una che l'altra sono sotto attacco da parte di quei poteri globalisti che vorrebbero fare tabula rasa di ogni identità, perché le identità sono definite dalle differenze, così come gli Stati sono definiti dei confini che li separano dagli altri Stati. Uno Stato che non abbia dei veri confini, non è più un vero Stato (ed è precisamente quel che ci sta accadendo, oggi, come Italia e come Europa, di fronte all'invasione massiccia di migranti e falsi profughi), così come un popolo senza differenze - etniche, linguistiche, culturali, religiose, perfino gastronomiche - non è più veramente un popolo, ma una massa confusa d'individui, privi di quelle individualità che rappresentano gli anticorpi necessari a contrastare quella forma di patologia tumorale che è la mondializzazione. Se non c'è più una cucina napoletana, una cucina bavarese, una cucina greca, resta solo McDonald's, resta solo un mondo dove tutti mangiano hamburger e patatine fritte. Si estenda questo ragionamento al cinema, alla letteratura, alla musica, al teatro, alla televisione, allo spettacolo, al tempo libero, allo sport, per non parlare della scuola, il luogo privilegiato dell'appiattimento e dell'omologazione, e si capirà quale sia la posta in gioco. Similmente, se un individuo non si sente se stesso neppure riguardo all'identità sessuale, ma considera una conquista di civiltà il fatto di poter cambiare sesso, o il proprio orientamento sessuale, qualora lo decida, e di pretendere che gli altri lo chiamino "lui" o "lei" secondo quel che egli decide soggettivamente, in barba alla propria identità biologica, allora viene a cadere anche uno dei fattori determinanti dell'identità in quanto tale, e subentra una realtà precaria, liquida, continuamente modificabile, indefinita e indefinibile, dove i ruoli sessuali mutano secondo un atto soggettivo della volontà. In un quadro di questo genere, viene meno, anche rispetto ai bambini, il concetto di "maschio" e "femmina", di "padre" e "madre", per non parlare del radicale stravolgimento che subisce il concetto di “genitorialità”, visto che basta affittare l’utero di una donna bisognosa e poi comprare il bebè, pagandolo in contanti per poi portarselo a casa, per divenire genitori anche in senso legale – almeno in alcuni Paesi, ma gli altri si adegueranno quanto prima, vista la tendenza generale. Oppure visto che fra poco si potrà scegliere su catalogo il bambino che si desidera avere, pagandolo da 75 mila a 120 mila dollari, con la tecnica degli ovuli e degli uteri in affitto, coinvolgendo una sola donna oppure due, una per i gameti e l’altra per l’utero, mentre al “cliente” – che sia una coppia eterosessuale, una coppia omosessuale o anche un single - resta solo da consegnare lo sperma, e il gioco è fatto, cioè, la merce viene consegnata a domicilio, chiavi n mano, aggirando tutte le leggi in contrario.

Dunque, riassumendo. Oggi è in corso una partita decisiva fra le forze che mirano alla distruzione delle identità e quelle che, mediante una necessaria presa di coscienza, mirano a difenderla, preservarla e svilupparla: perché, come abbiamo visto, l'identità fa parte della consapevolezza, e la consapevolezza non è un elemento statico, ma dinamico, necessario all'evoluzione della vita. Tradizione e progresso sono i due corni della questione identitaria: è inconcepibile un progresso senza tradizione, ma anche una tradizione senza progresso. I due elementi devono trovare un equilibrio, almeno se si vuol realizzare una vita armoniosa, sia per il singolo che per la società. Chi nega la tradizione in nome del progresso è un barbaro, chi nega il progresso in nome della tradizione è un fossile. L'identità è il risultato del gioco dialettico fra i due elementi, entrambi necessari alla vita. Le forze interessate alla manipolazione degli uomini e dei popoli puntano le loro carte su un progresso senza tradizione, e, per giunta, su un progresso di tipo meramente materiale e quantitativo, specialmente il progresso tecnologico, mentre il vero progresso è innanzitutto un progresso della coscienza e quindi della spiritualità (fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e conoscenza, dice il padre Dante). Perciò, oggi, è relativamente facile, se si possiedono ancora due occhi per vedere, due orecchi per udire e una testa per pensare, individuare il nemico: il nemico è tutto ciò che va nella direzione di un progresso senza la tradizione e contro la tradizione; di una modernità che abolisce i confini, le regole e le differenze; di un filantropisimo e un umanitarismo a senso unico, che prescindono completamente dal dato della identità, per propagandare incessantemente un modello di individuo e di società che siano sostanzialmente intercambiabili, dove A è la stessa cosa di B, ma anche di C, D, E, ecc.; e dove, ecco il lato oscuro, e veramente diabolico, è la stessa cosa di non-A, non-B, ecc. In altre parole, la strategia di cui si serve il grande capitale finanziario, attraverso l'enorme macchina dei suoi servitori e dei suoi strumenti, per sottrarci l'identità, cioè la consapevolezza di noi stessi, e ridurci allo stato di piccoli narcisisti e consumatori compulsivi, cioè utili idioti passivi e totalmente manovrabili, mira a diffondere la post-verità: nulla deve più essere vero in senso assoluto, ogni verità deve  essere relativa, cioè deve essere rovesciabile nel suo contrario - in ultima analisi, deve scomparire, perché una verità relativa non è una quasi verità, ma è il contrario della verità. Ed ecco che la battaglia per difendere l'identità è una battaglia contro il relativismo, in tutte le sue forme, e spacciato sotto qualsiasi maschera. Fateci caso: i nemici dell'identità si riempiono la bocca con slogan dall'apparenza gradevole, o comunque suggestiva: abbattere muri, gettare ponti... ma la sostanza del discorso è che, abbattendo tutti i muri e gettando ponti ovunque, alla fine si distrugge ogni identità e si trasforma il mondo in un immenso campo di concentramento, i cui prigionieri non sanno di essere tali, ma lo sono, eccome. Anzi, non vi è condizione più infelice del prigioniero che non si rende conto della sua prigionia, dello schiavo che non vede le catene della sua schiavitù, perché quel prigioniero e quello schiavo non saranno mai sfiorati dal desiderio di recuperare la loro libertà. Evidentemente, stanno bene così.

Questo è il pericolo più grande: che si arrivi al punto di essere contenti della propria schiavitù, del proprio abbrutimento. Vivere in maniera inconsapevole è proprio dei bruti: essere uomini, infatti, nel vero senso della parola, cioè uomini liberi, significa essere consapevoli della propria identità: sapere chi si è. Considerate la filosofia, l'arte, la letteratura e la poesia del secolo che ci siamo lasciati alle spalle: sono una incessante variazione sul tema della perdita del'identità. Invece un paese ci vuole, come diceva Cesare Pavese: sì, un paese ci vuole per non regredire allo stato di bestie, o di schiavi. Che cosa saremmo noi, senza un paese, cioè senza una identità? Nient'altro che bestiame, creature irrilevanti. E precisiamo: il paese esteriore, quello della terra, dei parenti, del campanile, del lavoro, ma anche il paese interiore, quello dell'anima, fatto di radici, di ricordi, di memoria, di affetti. Se li abbiamo entrambi, siamo ancora uomini vivi; se no, è come se fossimo già morti: pronti per essere comprati o venduti in massa, al migliore offerente che si presenti sul mercato degli schiavi. Quello che più colpisce, oggi, parlando con i giovani, e anche con le persone fino a quarant’anni circa, è l’apparente indifferenza che dimostrano rispetto al loro paese natio, alle radici, ai genitori, ai parenti, e la disinvoltura con cui sono disposti a stabilirsi altrove, magari in Australia, senza troppi rimpianti, e, a volte, senza nessun rimpianto. Certo, è anche una questione di necessità lavorativa; tuttavia, non si può non notare che almeno una parte dei giovani che vanno all’estero a cercare lavoro, non lo fanno con lo stato d’animo di chi è costretto ad emigrare, ma lo fa con dolore e rammarico, conservando la speranza di tornare, non appena ciò sia possibile; ma, al contrario, con un senso di gioiosa avventura e quasi di liberazione, come se si fossero scrollati un peso di dosso, come se avessero finalmente reciso il cordone ombelicale e potessero così godersi tutto ciò che nella vita, fino ad ora, non hanno potuto avere. Bisogna guardar le cose in faccia: per molti giovani, espatriare in cerca di un’occupazione è una sofferta necessità, ma per altri è l’occasione sognata da sempre, la possibilità di spiccare il volo. Il pensiero di lasciare il paese, gli amici, la famiglia di origine non li rattrista troppo, o non li preoccupa per niente: la verità è che non si sono mai sentiti particolarmente legati al luogo di nascita o al luogo di residenza, alla casa, ai genitori e agli amici. La casa, la famiglia e la patria, per loro, sono i luoghi dove c’è lavoro, ma anche dove ci sono delle cose più stimolanti, progredite, moderne. Il paese dove sono nati, la chiesa ove sono stati battezzati, l’asilo e la scuola che hanno frequentato da bambini, il cimitero dove riposano i loro nonni, il campetto da calcio dove giocavano coi loro amici, tutte queste cose non sono tali da trattenerli neppure un istante, né cose la cui lontananza sarà motivo di nostalgia: non si sentono legati ad alcun luogo, ad alcun momento del passato. In altre parole, hanno perso le radici; e chi perde le radici, perde la propria identità, diventa un numero nella massa, una rotella anonima dell’ingranaggio mondiale. Ora, proprio questo è l’obiettivo dei padroni della grande finanza: ridurre gli abitanti del pianeta a una turba senza radici, senza identità, senza coscienza di sé. Meglio ancora se costoro non sanno più neppure se restare con il sesso che la natura ha dato loro, oppure cambiarlo, visto che la cosa, che un tempo pareva impossibile, ora è lì, dietro l’angolo. L’unica istituzione che, a livello mondiale, ma specialmente in Occidente, avrebbe potuto - e dovuto - contrastare questo processo di distruzione dell’identità, era la Chiesa cattolica, coi suoi duemila anni di tradizione, di esperienza e di saggezza accumulate, con la sua autonoma visione del mondo, radicalmente opposta a quella del relativismo edonista oggi prevalente. Era perciò necessario metter le mani anche su di essa, o almeno sul suo vertice, ponendo gli uomini “giusti” nei posti-chiave, in modo che anche lei si adoperasse attivamente per favorire i processi di decostruzione dell’identità, a cominciare dalle invasioni/migrazioni. E la cosa ha funzionato così bene, che ormai neppure un cattolico è ancora certo di essere cattolico, o di non esser diventato, senza saperlo, qualcosa d’altro...