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Abbasso lo sviluppo sostenibile! Evviva la decrescita conviviale!

di Serge Latouche - 02/11/2006




"Non vi è il minimo dubbio che lo sviluppo sostenibile sia uno dei
concetti più nocivi" Nicholas Georgescu-Roegen, (corrispondenza con
J. Berry, 1991).(1)

Viene definito ossimoro (o antinomia) una figura retorica consistente
nel giustapporre due parole contraddittorie, come "l'oscura
chiarezza", cara a Victor Hugo, "che viene giù dalle stelle...".
Questo espediente inventato dai poeti per esprimere l'inesprimibile è
sempre più utilizzato dai tecnocrati per far credere all'impossibile.
Così, una guerra pulita, una globalizzazione dal volto umano,
un'economia solidale o sana, ecc. Lo sviluppo sostenibile è una di
queste antinomie. Già nel 1989, John Pessey della Banca Mondiale
catalogava 37 diverse accezioni del concetto di "sustainable
development".(2) Il solo rapporto Brundtland (World commission 1987)
ne conteneva ben sei. François Hatem, che al tempo ne aveva
individuate 60, propose di suddividere le teorie al momento
disponibili sullo sviluppo sostenibile in due categorie: ecocentriche
e antropocentriche, secondo che avessero come obiettivo principale la
protezione della vita in generale (e quindi di tutti gli esseri
viventi, o quantomeno di quelli che non sono già condannati), o il
benessere dell'uomo.(3)

Sviluppo sostenibile, o come far durare lo sviluppo
Esiste quindi un'apparente divergenza dei significati
sostenibile/durevole. Per alcuni lo sviluppo sostenibile/durevole è
uno sviluppo rispettoso dell'ambiente. L'accento insiste quindi sulla
conservazione degli ecosistemi. Lo sviluppo in questo caso significa
benessere e qualità della vita soddisfacente e non ci si pone troppi
interrogativi sulla compatibilità dei due obiettivi, sviluppo e
ambiente. Questo atteggiamento è abbastanza diffuso tra i militanti
del mondo associativo e tra gli intellettuali umanisti. L'attenzione
verso i grandi equilibri ecologici deve arrivare fino a rimettere in
discussione certi aspetti del nostro modello economico di crescita,
addirittura del nostro stile di vita. Ciò potrebbe condurre alla
necessità di inventare un altro paradigma di sviluppo (ancora uno! Ma
quale? Non si sa).
Per altri, l'importante è che lo sviluppo in quanto tale possa durare
all'infinito. Questa è la posizione degli industriali, della maggior
parte dei politici e di quasi tutti gli economisti. A Maurice Strong,
che dichiarava il 4 aprile 1992: "Il nostro modello di sviluppo, che
porta alla distruzione delle risorse naturali, non può tenere.
Dobbiamo cambiare", fanno eco i propositi di Gorge Bush (senior): "Il
nostro livello di vita non è negoziabile".(4) Sugli stessi toni, a
Kyoto, Clinton dichiarava senza peli sulla lingua: "Non firmerò
niente che possa nuocere alla nostra economia"(5) Com'è noto, Bush
junior ha fatto di meglio...
Lo sviluppo sostenibile è come l'inferno, lastricato di buone
intenzioni. Non mancano esempi di compatibilità tra sviluppo e
ambiente a dimostrarlo. Evidentemente, l'attenzione all'ambiente non
è necessariamente contraria agli interessi individuali e collettivi
degli agenti economici. Un direttore della Shell, Jean-Marie Van
Engelshoven, si può permettere di dichiarare: "Il mondo industriale
dovrà essere in grado di rispondere alle attuali aspettative se
vuole, in modo responsabile, continuare a creare ricchezza in
futuro". Jean-Marie Desmarets, l'Amministratore Delegato di Total,
parlava allo stesso modo prima del naufragio dell'Erika e
dell'esplosione della fabbrica di fertilizzanti chimici di Tolosa...
(6) Con un certo senso dell'umorismo, i dirigenti di BP hanno deciso
che la loro sigla non avrebbe più dovuto leggersi "British
Petroleum", ma "Beyond Petroleum" (oltre o dopo il petrolio)...(7) La
coincidenza di interessi ben definiti può, effettivamente,
realizzarsi in teoria e in pratica.
Esistono industriali persuasi della compatibilità tra gli interessi
della natura e gli interessi dell'economia. Il Business Council for
Sustainable Development, cinquanta dirigenti di grandi imprese
rappresentati da Stephan Schmidheiny, consulente di Maurice Strong,
ha pubblicato un manifesto presentato a Rio de Janeiro poco prima
dell'apertura della conferenza del 92: Cambiare rotta, riconciliare
lo sviluppo dell'impresa e la protezione dell'ambiente. "Come
dirigenti d'impresa --proclama il manifesto-- condividiamo il
concetto di sviluppo sostenibile, che permetterà di rispondere alle
esigenze dell'umanità senza compromettere le opportunità delle
generazioni future".(8)
Ed è questa, effettivamente, la scommessa dello sviluppo sostenibile.
Un industriale americano esprime il concetto in modo molto più
semplice: "Vogliamo che sopravvivano sia lo strato di ozono che
l'industria americana".

Sviluppo tossico
Vale la pena guardare più da vicino, tornando ai concetti, per
verificare se la sfida ha ancora senso.
La definizione di sviluppo sostenibile del rapporto Brundtland tiene
conto solo della durevolezza. Si tratta di un "processo di
cambiamento per il quale lo sfruttamento delle risorse,
l'orientamento degli investimenti, i cambiamenti tecnici e
istituzionali avvengono in modo armonico e rinforzano il potenziale
attuale e futuro dei bisogni dell'uomo". Non ci si deve illudere,
tuttavia. Non è della protezione dell'ambiente che parlano i potenti -
 certi imprenditori ecologisti parlano persino di "capitale
sostenibile", il colmo dell'ossimoro! - ma prima di tutto dello
sviluppo.(9) Ed ecco la trappola. Il problema del concetto di
sviluppo sostenibile non è tanto nel termine sostenibile, che è tutto
sommato una bella parola, quanto nella parola sviluppo, che è
decisamente un "termine tossico".
A ben vedere sostenibilità significa che l'attività umana non deve
produrre un livello di inquinamento superiore alla capacità
dell'ambiente di rigenerarsi. Non è altro che l'applicazione del
principio di responsabilità del filosofo Hans Jonas: "Agisci in modo
che gli effetti della tua azione siano compatibili con la continuità
di una vita autenticamente umana sulla terra". Tuttavia, il
significato storico e pratico dello sviluppo implicito nel programma
della modernità, è fondamentalmente contrario alla sostenibilità così
concepita.
Si può definire lo sviluppo come un'impresa volta a mercificare i
rapporti tra le persone e con la natura. Si tratta di sfruttare, di
valorizzare, di trarre profitto dalle risorse naturali e da quelle
umane. La mano invisibile e l'equilibrio degli interessi ci
garantiscono che tutto procede per il meglio nel migliore dei mondi
possibili. Perché preoccuparsi? La maggior parte degli economisti,
che siano liberali o marxisti, sostengono una visione che permette
allo sviluppo economico di perdurare. Così l'economista marxista
Gérard d'Estanne de Bernis dichiara: "Non staremo qui a disquisire di
semantica, non ci chiederemo neanche se l'aggettivo "durevole"
(sostenibile) aggiunga qualche cosa alle definizioni classiche di
sviluppo, teniamo conto della realtà e parliamo come tutto il mondo
[...]. E' chiaro che sostenibile non rimanda al concetto di durata ma
a quello di irreversibilità. In questo senso, qualunque sia
l'interesse delle esperienze prese in considerazione, il fatto è che
il processo di sviluppo in paesi come l'Algeria, il Brasile, la Corea
del Sud, l'India o il Messico non si è rivelato "durevole"
(sostenibile): le contraddizioni irrisolte hanno spazzato via i
risultati degli sforzi compiuti e condotto a una regressione"(10).
Effettivamente, se si accetta la definizione di sviluppo indicata da
Rostow come "self-sustaining growth" (crescita auto-sostenibile),
l'aggiunta dell'aggettivo durevole o sostenibile al termine sviluppo
è inutile e costituisce un pleonasmo. Ciò è ancora più evidente nella
definizione di Mesarovic e Pestel.(11) Per loro è la crescita
omogenea, meccanica e quantitativa che è insostenibile, mentre una
crescita "organica" definita dall'interazione delle parti con
l'insieme è un obiettivo sopportabile. Storicamente questa
definizione biologica è precisamente quella dello sviluppo! Le
sottigliezze di Herman Daly, che tenta di definire uno sviluppo a
crescita zero non stanno in piedi, né in teoria, né in pratica (12).
Come sottolinea Nicholas Georgescu-Roegen: "Lo sviluppo sostenibile
non può in alcun caso essere separato dalla crescita economica. [...]
In verità, chi ha mai potuto pensare che lo sviluppo non implichi
necessariamente una forma di crescita?"(13).
Infine, si potrebbe affermare che aggiungere l'aggett ivo sostenibile
al concetto di sviluppo non significa certo rimettere seriamente in
discussione lo sviluppo esistente, quello che domina il pianeta da
due secoli, ma semplicemente concepirlo in un'accezione ecologica. E'
alquanto improbabile che ciò basti a risolvere i problemi.

La crescita zero non è sufficiente
Infatti, le caratteristiche durevole o sostenibile non rimandano allo
sviluppo "realmente esistente", ma al concetto di riproduzione. La
riproduzione sostenibile ha regnato sul pianeta più o meno fino al
XVIII secolo. Tra gli anziani del terzo mondo ci sono ancora
degli "esperti" di riproduzione sostenibile. Gli artigiani e i
contadini che hanno conservato buona parte dell'eredità ancestrale
nel modo di agire e di pensare vivono spesso in armonia con il
proprio ambiente; non sono predatori della natura(14). Ancora nel
XVII secolo, con gli editti sulle foreste, i regolamenti sugli
abbattimenti per la ricostituzione dei boschi, la coltivazione di
querce che ancora ammiriamo destinate alla costruzione di vascelli.
300 anni dopo, Colbert si dimostra un esperto di "sustainability". I
suoi provvedimenti sono il contrario della logica mercificatrice.
Ecco, si dirà, una forma di sviluppo sostenibile. Ma allora lo si
deve dire di tutti quei contadini che hanno piantato nuovi olivi e
nuovi fichi dei quali non avrebbero mai visto i frutti, pensando alle
generazioni future e questo senza esservi obbligati da nessuna legge,
semplicemente perché i loro genitori, i loro nonni e tutti coloro che
li avevano preceduti avevano fatto la stessa cosa(15). Ormai, neanche
la riproduzione sostenibile è più possibile.
Ci vuole tutta la fede degli economisti ortodossi per pensare che la
scienza del futuro risolverà tutti i problemi e che la sostituibilità
illimitata della natura attraverso l'artificio sia possibile. Come si
chiede Mauro Bonaïuti, possiamo davvero continuare a ottenere lo
stesso numero di pizze diminuendo sempre la quantità di farina e
aumentando il numero dei forni o quello dei cuochi ? E anche qualora
si dovesse riuscire a sfruttare nuove energie, sarebbe sensato
costruire "grattacieli senza scale né ascensori, esclusivamente sulla
base della speranza che un giorno trionferemo sulla legge di
gravità ?"(16).
Contrariamente a quanto sostenuto dall'ecologismo riformista d'un
Hermann Daly o d'un René Passet, lo status quo e la crescita zero non
sono né possibili, (né auspicabili...). "Noi possiamo riciclare le
monete di metallo usate, ma non le molecole di rame disperse
dall'uso"(17). Questo fenomeno, che Nicholas Georgescu-Roegen ha
battezzato la "quarta legge della termodinamica", è forse discutibile
in termini di teoria astratta, ma non dal punto di vista
dell'economia concreta. Dall'impossibilità che ne consegue di una
crescita illimitata non risulta, secondo lui, la necessità di un
programma di crescita zero, ma quello di una decrescita. "Non
possiamo -scrive-- produrre frigoriferi, automobili o aerei a
reazione 'migliori e più grandi' senza produrre anche dei
rifiuti 'migliori e più grandi'".(18) Quindi, il processo economico è
di natura entropica.
"La terra ha dei limiti - sottolinea Marie-Dominique Pierrot - e
trattarla come qualcosa che si possa sfruttare all'infinito
attraverso la mitizzazione del concetto di crescita, significa
condannarla a scomparire. Non si può invocare la crescita illimitata
e accelerata per tutti e allo stesso tempo chiedere che ci si
preoccupi delle generazioni future. Il richiamo alla crescita e la
lotta alla povertà costituiscono solo delle formule magiche e delle
parole d'ordine buone per tutte le stagioni. Si tratta dell'idea
magica della torta della quale basta aumentare le dimensioni per
nutrire tutto il mondo e che rende 'innominabile' la questione della
possibile riduzione delle parti di alcuni".(19).
La nostra ipercrescita economica oltrepassa già largamente la
capacità di carico della terra. Se tutti i cittadini del mondo
consumassero come gli americani medi i limiti fisici del pianeta
sarebbero già ampiamente superati.(20). Se prendiamo come indice
del "peso" ambientale del nostro stile di vita "l'impronta" ecologica
di questa categoria in termini di superficie terrestre necessaria,
otteniamo risultati insostenibili sia dal punto di vista dell'equità
nei diritti di sfruttamento della natura, che dal punto di vista
della capacità di rigenerarsi della biosfera. Prendendo in
considerazione i bisogni di risorse e di energia necessarie ad
assorbire i rifiuti e gli scarti della produzione e del consumo e
aggiungendoci l'impatto dell'habitat e delle infrastrutture
necessarie, i ricercatori del World Wide Fund (WWF) hanno calcolato
che lo spazio bioproduttivo pro capite dell'umanità è di 1,8 ettari.
Un cittadino degli Stati Uniti consuma in media 9,6 ettari, un
canadese 7,2, un europeo medio 4,5. Siamo quindi molto lontani
dall'uguaglianza planetaria e ancora di più da uno stile di
civilizzazione sostenibile, che si dovrebbe limitare a 1,4 ettari,
nell'ipotesi che la popolazione attuale resti stabile(21).

Uscire dall'economicismo
Possiamo discutere queste cifre, ma purtroppo sono confermate da un
numero imponente di indici (che sono d'altra parte serviti a
stabilirle). Per sopravvivere o durare è quindi urgente organizzare
la decrescita.
Se siamo a Roma e dobbiamo andare a Torino in treno e per sbaglio
abbiamo preso la direzione di Napoli, non basta rallentare la
locomotiva, frenare o fermarsi, bisogna scendere e prendere un altro
treno nella direzione opposta. Per salvare il pianeta e assicurare un
futuro accettabile ai nostri figli, non dobbiamo semplicemente
moderare le tendenze attuali, bisogna decisamente uscire dallo
sviluppo e dall'economicismo, così come dobbiamo uscire
dall'agricoltura a sfruttamento intensivo che ne è parte integrante,
per farla finita con le mucche pazze e le aberrazioni transgeniche.
La decrescita dovrebbe essere perseguita non soltanto per preservare
l'ambiente, ma anche per restaurare quel minimo di giustizia sociale
senza la quale il pianeta è condannato all'esplosione.
Sopravvivenza sociale e sopravvivenza biologica sono strettamente
connesse. I limiti del "capitale" natura non pongono soltanto un
problema di equità intergenerazionale nella suddivisione delle parti
disponibili, ma anche un problema di equità tra i membri attualmente
viventi dell'umanità. La decrescita non significa necessariamente un
immobilismo conservatore. L'evoluzione e la crescita lenta delle
società antiche si integravano in una riproduzione allargata ben
temperata, sempre in armonia con le esigenze della natura.
"La società tradizionale era sostenibile perché aveva adattato il
proprio stile di vita all'ambiente --
conclude Edouard Goldsmith-- e la società industriale non può sperare
di sopravvivere perché, al contrario, ha cercato di adattare
l'ambiente al proprio stile di vita".(22) Pianificare la decrescita
significa, in altri termini, rinunciare all'immaginario economico,
cioè alla convinzione che di più per tutti significhi più
uguaglianza. Il benessere e la felicità si possono raggiungere a
costi inferiori. La saggezza di molte culture suggerisce che la
felicità si realizza nella soddisfazione di una quantità sensatamente
limitata di bisogni. Riscoprire la vera ricchezza nella promozione di
relazioni sociali conviviali in un mondo sano si può fare con
serenità nella frugalità, nella sobrietà, persino con una certa
austerità nei consumi materiali. "Una persona felice --sottolinea
Hervé Martin-- non consuma antidepressivi, non consulta psichiatri,
non tenta di suicidarsi, non rompe le vetrine dei negozi, non
acquista continuamente oggetti costosi e inutili, insomma, partecipa
solo marginalmente all'attività economica della società."(23). Una
decrescita voluta e ben impostata non impone alcun limite
nell'esercizio dei sentimenti e alla promozione di una vita
conviviale, anche dionisiaca (24).

Note:
(1) Mauro Bonaïuti, La teoria bioeconomica. La "nuova economia" di
Nicholas Georgescu Roegen, Carocci, Roma 2001, p. 53.
(2) J. Pezzey, Economic analysis of sustainable growth and
sustainable development, World Bank, Environment Department, Working
Paper n° 15, 1989.
(3) Christian Comeliau, Sviluppo dello sviluppo sostenibile, o
blocchi concettuali? Tiers-Monde n° 137, gennaio-marzo 1994, pp. 62-
63.
(4) Jean Marie Harribey, L'economia economa, L'harmattan, Parigi 1997.
(5) Carla Ravaioli, "Lettera aperta agli economisti. Crescita e crisi
ecologica". Manifesto libri 2001, p. 20.
(6) Green magazine, maggio 1991. Questo esempio, come i precedenti, è
tratto da Hervé Kempf, L'economia alla prova dell'ecologia. Hatier,
Parigi 1991, pp. 24/25.
(7) Carla Ravaioli, op.cit., p. 30.
(8) Cambiare rotta, Dunod, l992, p. ll.
(9) Carla Ravaioli, op. cit., p. 32.
(10) Gérard de Bernis, Sviluppo sostenibile e accumulazione, Tiers-
Monde n° l37, p. 96.
(11) Mesarovic et Pestel, Strategie per sopravvivere, Mondadori,
Milano 1974.
(12) Un aumento del reddito (in senso hicksiano) senza danno al
capitale naturale permetterebbe di affermare che una crescita
sostenibile rappresenta una contraddizione in termini, non uno
sviluppo sostenibile. V. Gianfranco Bologna, "Italia capace di
futuro" WWF-EMI, Bologna 2001, pp. 32 e ss.
(13) NGR 1989 p. 14, Bonaïuti, op. cit., p. 54.
(14) A dispetto della civetteria con cui viene contestata la saggezza
dei "buoni selvaggi", questa si fonda semplicemente sull'esperienza.
I "buoni selvaggi" che non hanno rispettato il loro ecosistema sono
scomparsi nel corso dei secoli...
(15) Questa osservazione di Castoriadis richiama la saggezza
millenaria già evocata da Cicerone in "De senectute". Il modello
dello "sviluppo sostenibile" che realizza il principio di
responsabilità è descritto da un verso di Catone: "Pianterà un albero
a vantaggio di un altro tempo". Lo commenta così: "Di fatto
l'agricoltore, per anziano che sia, al quale viene chiesto per chi lo
pianta, non esita a rispondere: 'Per gli dei immortali, che vogliono
che non mi accontenti di ricevere questi beni dai miei antenati, ma
che li trasmetta anche ai miei discendenti' ". Cicerone, Catone il
vecchio (De senectute), VII-24, Les belles lettres, Parigi, 1996, p.
96.
(16) Bonaïuti Mauro, La "nuova economia" di Nicholas Georgescu-
Roegen. ed. Carocci, Roma 2001, pp. 109 et 141.
(17) Ibidem, p. 140.
(18) Op. cit., p. 63.
(19) Marie-Dominique Perrot, Globalizzare il non senso, L'Age
d'homme, Losanna, 2001, p. 23.
(20) Una bibliografia esauriente dei rapporti e dei libri pubblicati
sull'argomento dal famoso rapporto del Club di Roma in Andrea
Masullo, "Il pianeta di tutti. Vivere nei limiti perché la terra
abbia un futuro". EMI, Bologna, 1998.
(21) A cura di Gianfranco Bologna, Italia capace di futuro, WWF-EMI,
Bologna, 2001, pp. 86-88.
(22) E. Goldsmith, La sfida del XXI secolo, Le rocher, l994, p.330.
(23) Hervé René Martin, La globalizzazione raccontata a coloro che la
subiscono, Climats, 1999. p. 15.
(24) Kate Soper, Ecologia, natura e responsabilità. Rivista del MAUSS
n° 17, primo semestre 2001, p. 85.