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Come dopo il Vietnam, salvo imprevisti

di Fabrizio Tonello - 07/11/2006

 
Sulla carta dovrebbe essere un'elezione storica. Simile a quella che nel 1930 annunciò la fine dei Roaring Twenties e l'imminente era Roosevelt. Simile a quella del 1974, quando gli americani, inferociti per il lungo strascico della guerra del Vietnam e indignati per il Watergate, portarono alla camera una maggioranza di democratici mai vista prima. Simile, a fronti rovesciati, a quella del 1994, quando gli elettori delusi dai primi due anni di presidenza Clinton consegnarono la maggioranza della camera ai repubblicani, che da allora l'hanno sempre mantenuta. Ma dalle urne può uscire qualsiasi risultato: fattori imponderabili decideranno quella decina di situazioni che possono far pendere la bilancia verso i repubblicani o i democratici. Mentre questi ultimi hanno la quasi-certezza di conquistare la maggioranza alla camera, poche migliaia di voti in New Jersey, Tennessee e Maryland potrebbero trasformare i risultati del senato in un successo repubblicano quando una vittoria a valanga per i democratici era, ed è, perfettamente possibile.

Ricapitoliamo i dati: il partito dell'asinello deve conquistare 15 seggi alla camera per avere una teorica maggioranza. Al senato, invece, deve prevalere in sei stati in cui attualmente c'è un repubblicano in carica per passare da 45 seggi su 100 a 51 (un risultato 50-50 favorisce il partito che controlla la Casa Bianca, perché il vicepresidente ha diritto di votare in caso di parità). I repubblicani, come sempre, hanno speso milioni di dollari in pubblicità televisiva, fatta in pareticolare di spot calunniosi verso gli avversari che all'ultimo minuto possono influenzare gli elettori incerti. Inoltre, contano sulla loro ben oliata macchina organizzativa fatta di migliaia di volontari e di milioni di telefonate da oggi fino a martedì, per portare a votare tutti i potenziali sostenitori.
Resta il fatto che raramente il partito di opposizione è stato così favorito. La popolarità di Bush è a quota 37%, contro il 90% raggiunto nelle settimane successive all'11 settembre. Un tale livello di impopolarità non si registrava in una elezione di metà mandato fin dai tempi di Harry Truman (che infatti fece perdere al suo partito decine di seggi tanto nel 1946 quanto nel 1950).
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Il 64% degli americani pensa che la priorità sia come uscire dall'Iraq. La fiducia nel buon andamento dell'economia è al 44%, un dato relativamente positivo per i repubblicani (che infatti hanno passato le ultime ore a vantarsene), ma non certo sufficiente a cancellare le preoccupazioni degli elettori per la guerra, i posti di lavoro, l'immigrazione, la sanità. Globalmente, solo il 30% degli americani è soddisfatto dello stato del paese, contro il 68% di insoddisfatti.
Il risultato di questo stato d'animo degli elettori è triplice: i repubblicani sono delusi, i democratici entusiasti e gli indipendenti si sono spostati massicciamente verso i candidati democratici. Secondo l'analista politico Stuart Rothenberg, gli indipendenti (ormai il gruppo più numeroso dell'elettorato) normalmente si dividono quasi esattamente a metà fra i due candidati: Kerry prevalse di un soffio su Bush nel 2004, mentre quest'ultimo aveva raccolto un consenso leggermente superiore a quello di Gore nel 2000. Quest'anno non andrà così: il loro consenso per i democratici supera il 50%.

Secondo l'ultimo sondaggio Gallup, se si fosse votato nei giorni scorsi il 53% degli elettori avrebbe scelto i democratici e il 38% i repubblicani: un distacco di 15 punti. Probabilmente all'apertura delle urne il differenziale sarà minore, e laddove il partito di Bush riuscirà a mobilitare i suoi sostenitori con lo spettro di un aumento delle tasse ci potranno essere delle sorprese. Tutti gli indicatori puntano però verso una vittoria democratica, che sulla carta potrebbe essere di dimensioni storiche: nel '74 i repubblicani persero 49 seggi alla Camera, 53 nel '30. Nel '46 i democratici persero 55 seggi, 54 nel '94. In tutti questi casi, alla Casa bianca c'era un presidente impopolare, la cui legittimità era contestata: Nixon era sotto accusa per lo spionaggio a danno dei democratici, Herbert Hoover per non aver reagito al crack di borsa del '29, Truman era diventato presidente solo per la morte di Roosevelt e Clinton aveva vinto nel '92 con appena il 43% dei voti.

Oggi spostamenti di questa ampiezza non sono possibili, a causa della struttura delle circoscrizioni, ma parecchi analisti predicono una camera con 240 seggi ai democratici (+37) e 195 ai repubblicani. La chiave di un'autentica svolta politica sta però altrove: solo se i democratici riusciranno a non perdere neppure un seggio al senato e a conquistarne sei di quelli ora in mano repubblicana il congresso potrà costringere Bush a cambiare politica. E questo è molto più difficile.