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Medio Oriente in trincea

di Robert Fisk - 07/11/2006

 

Il grande inviato Robert Fisk traccia un affresco delle zone calde del ’900, dove la guerra ha mostrato il «fallimento assoluto dell’uomo»

«Dopo il 1918, i vincitori stabilirono i confini delle terre dei loro ex nemici Io ho passato la vita a veder saltare in aria la gente all'interno di quei confini»

Quando ero bambino, mio padre mi portava ogni anno sui campi di battaglia della Prima guerra mondiale. Partivamo ogni estate con la nostra Austin Mayflower e procedevamo sobbalzando lungo le strade sconnesse della Somme, di Ypres e di Verdun. A quattordici anni, sapevo a memoria i nomi di tutte le battaglie, Bapaume, Hill 60, High Wood, Passchendaele... Avevo visitato tutti i cimiteri, camminato in tutte le trincee ormai coperte d'erba, toccato gli elmetti arrugginiti dei soldati inglesi e i corrosi mortai tedeschi esposti nei musei della zona. Mio padre era stato un soldato della Grande guerra, aveva combattuto nelle trincee della Francia a causa di un colpo di pistola sparato in una città che non aveva mai sentito nominare, Sarajevo. E quando tredici anni fa è morto, all'età di novantatré anni, ho ereditato tutte le medaglie che aveva conquistato nelle sue campagne. Su una di esse sono incise le parole: «La Grande guerra per la Civiltà».
Con immensa preoccupazione di mio padre e stoica rassegnazione di mia madre, ho passato gran parte della mia vita in mezzo alle guerre. Anch'esse combattute «per la civiltà». In Afghanistan, ho visto i russi compiere il loro «dovere internazionale» battendosi contro il «terrorismo internazionale»; mentre i loro avversari afghani, naturalmente, lottavano contro «l'aggressore comunista» e in nome di Allah. Ero corrispondente dal fronte quando gli iraniani combatterono quella che chiamavano la «Guerra imposta» da Saddam Hussein. Ho visto gli israeliani invadere due volte il Libano e poi invadere la Cisgiordania palestinese allo scopo, o almeno così sostenevano, di «liberare la terra dal terrorismo». Ero presente quando Saddam invase il Kuwait e gli americani inviarono le loro truppe nel Golfo per liberare l'emirato e imporre, un «nuovo ordine mondiale». In Bosnia ho visto i serbi combattere per quella che chiamavano la «civiltà serba», mentre i loro nemici musulmani lottavano e morivano per un sogno multiculturale ormai sva nito e per salvarsi la vita. In cima a una montagna dell'Afghanistan, ero seduto di fronte a Osama bin Laden nella sua tenda quando lanciò la prima minaccia esplicita contro gli Stati Uniti. Mi parlò di «Dio» e del «male». L'11 settembre 2001 ero in volo sull'Atlantico e meno di tre mesi dopo ero in Afghanistan e fuggivo con i talebani lungo la strada a ovest di Kandahar mentre l'America bombardava le rovine di un Paese già distrutto dalla guerra. Esattamente un anno dopo ero all'Assemblea generale delle Nazioni Unite quando George Bush cominciò a parlare delle inesistenti armi di distruzione di massa di Saddam, e si preparava a invadere l'Iraq. I primi missili di quell'invasione mi passarono sulla testa a Bagdad.
Soldati e civili, morti a decine di migliaia perché la morte era stata preparata per loro, mentre l'etica veniva strattonata come la cavezza di un cavallo da battaglia perché noi potessimo parlare di «obiettivi raggiunti» e «danni collaterali» - nell'infantile tentativo di scuoterci di dosso il peso dell'omicidio - e scrivere sulle parate per la vittoria, sull'abbattimento delle statue e sull'importanza della pace. Ai governi piace così. Vogliono che i loro popoli vedano la guerra come una lotta tra Bene e Male, Noi e Loro, Vittoria e Sconfitta. Ma non è questione di vittoria o sconfitta, la guerra è essenzialmente una questione tra morire o infliggere la morte. Rappresenta il fallimento assoluto dell'essere umano.
È stato un film a spingermi a diventare giornalista. Avevo dodici anni quando vidi Il prigioniero di Amsterdam di Alfred Hitchcock, una pellicola del 1940 in cui Joel McCrea faceva la parte di un giornalista americano di nome Huntley Haverstock, che nel 1939 viene mandato a seguire la guerra in Europa. Haverstock assiste a un omicidio, dà la caccia alle spie naziste in Olanda, scopre il più importante agente tedesco a Londra, il suo aereo viene abbattuto da una minuscola corazzata tedesca e sopravvive per strillarlo sui giornali di tutto il mondo. Conquista anche la donna più bella del film, ulteriore gratifica per chi già fa un mestiere così eccitante. Il film si conclude durante il bombardamento di Londra, con un annunciatore che presenta Haverstock alla radio. «Stasera abbiamo come ospite un soldato della stampa - grida tra gli ululati delle sirene -, un rappresentante di quel piccolo esercito di uomini che stanno scrivendo la storia distesi accanto alle bocche dei cannoni...». Non me ne sono mai pentito.
Nell'aprile del 1976, ero su una spiaggia di Porto Covo in Portogallo, dove seguivo gli strascichi della rivoluzione, quando la postina del paese mi gridò dagli scogli che c'era una lettera per me. Era del caporedattore esteri del giornale, Louis Heren. «Ho una buona notizia per te - scriveva -. Paul Martin ha chiesto di rientrare dal Medio Oriente. Pensavo di offrire a lui il posto di vicedirettore a Parigi... e a te il Medio Oriente. Fammi sapere se ti interessa». Nel giallo di Hitchcock, prima di mandarlo in Europa, il direttore convoca Haverstock in ufficio e gli chiede: «Ti piacerebbe andare nel teatro degli eventi più importante del mondo in questo momento?». La richiesta di Heren era formulata in modo meno spettacolare, ma il concetto era lo stesso. Avevo ventinove anni e mi offrivano il Medio Oriente. Avevo la possibilità di entrare a far parte di quel «piccolo esercito di uomini che scrivono la storia distesi accanto alle bocche dei cannoni». Era vagamente osceno desiderare di esser l'inviato in Medio Oriente nella situazione di quel momento. Se i soldati decidevano di abbandonare il campo di battaglia, molti di loro sarebbero stati fucilati per diserzione. I civili con i quali avrei dovuto vivere e lavorare erano costretti a rimanere sotto i bombardamenti, le loro famiglie venivano decimate dal fuoco delle granate e dai raid aerei. Ma se io mi fossi stancato degli orrori che vedevo, avrei potuto fare le valigie e tornare a casa in business class, con un calice di ch ampagne in mano. Ecco perché mi vengono i brividi quando qualcuno comincia a blaterare sui «traumi» che comporta il raccontare la guerra e sulla necessità di «supporto psicologico» che abbiamo noi scribacchini ben pagati per poter superare lo choc di quello che abbiamo visto. Non c'è nessun supporto psicologico per quelle masse di povera gente abbandonata in balìa dei gas di Saddam Hussein, dei razzi iraniani, della crudeltà delle milizie serbe, della brutale invasione israeliana del Libano nel 1982, della morte computerizzata portata dall'invasione americana dell'Iraq nel 2003.
Se ne faccio una questione personale, è perché nel corso degli anni ho assistito ad avvenimenti che possono solo essere definiti come esempi dell'arroganza del potere. Dopo la vittoria del 1918, i vincitori divisero le terre dei loro ex nemici. Stabilirono i confini dell'Irlanda del Nord, della Jugoslavia e di quasi tutto il Medio Oriente. E io ho passato tutta la mia vita di corrispondente a veder saltare in aria la gente che viveva all'interno di quei confini. Immagino che, in fondo, noi giornalisti cerchiamo - o dovremmo cercare - di essere i primi testimoni imparziali della storia. Se mai abbiamo una ragione di esistere, dev'essere almeno quella di raccontare la storia mentre accade, affinché nessuno possa dire: «Non sapevamo - nessuno ce lo aveva detto». Due anni fa ho parlato di questo con Amira Hass, la brillante giornalista israeliana di Ha'aretz . Io insistevo nel dire che il nostro compito era quello di scrivere le prime pagine della storia, ma lei mi ha interrotto. «No, Robert, ti sbagli» ha detto. «Il nostro scopo è quello di monitorare i centri del potere». E penso che questa sia la migliore definizione del giornalismo che abbia mai sentito.
Un tempo sostenevo, inutilmente temo, che ogni reporter dovrebbe portare un libro di storia nella tasca posteriore dei pantaloni. Nel 1992 ero a Sarajevo e una volta, mentre le bombe serbe mi fischiavano sulla testa, mi resi co nto che mi trovavo sullo stesso selciato dal quale Gavrilo Princip aveva sparato il colpo fatale che avrebbe spedito mio padre nelle trincee della Prima guerra mondiale. E naturalmente nel 1992 a Sarajevo si sparava ancora.