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Il suicidio dell’Europa

di Manuela Gatta - 02/11/2005

Fonte: recensionifilosofiche.it

Barcellona Pietro
Il suicidio dell’Europa. Dalla coscienza infelice all’edonismo cognitivo.
Bari, Dedalo, 2005 
Recensione di Manuela Gatta
 


La verità sulla condizione in cui versa l’Europa è una questione che deve riguardare chiunque, la sua discussione interessa i diversi campi del sapere, ma soprattutto l’opinione comune.

Pietro Barcellona riporta al centro del suo testo il ruolo della “coscienza infelice” in cui versa l’Europa oggi, che tenta di sopravvivere al suicidio della propria identità. La questione della coscienza non può essere ridotta a uno schema dalla struttura puramente formale e dialettica, è necessario che tale coscienza, di matrice hegeliana, si superi e si trascenda in qualche modo per venire a patti con la realtà, con quella concretezza carente forse nell’approccio metafisico, e che invece pretende di ergersi a strumento di conoscenza della verità.

Se la discussione parte dal punto di vista della coscienza infelice, è chiaro che bisogna rifondare i termini dell’antica discussione, e ricostituire la dialettica tra il signore e il servo tanto cari a Hegel: il servo che prende coscienza del proprio lavoro, comprendendo che senza quest’ultimo il signore non potrebbe vivere. Contestualizzando la figura del servo e volendo riportarla alla situazione odierna, egli diventa la metafora di colui che riacquista il senso della libertà, ma che ha in bocca ancora il sapore della schiavitù che tenta di abolire. L’infelicità consiste proprio per la persona nell’essere servo cosciente della propria esistenza e della propria libertà, tuttavia ancora schiavo.

Applicando questo ragionamento alla condizione dell’uomo nella società occidentale attuale, e abbandonando quindi l’abitudine, che più volte l’autore sottolinea, di distinguere tra argomenti adatti alla pratica filosofica, privilegio del mondo accademico, e quelli invece che sono più adatti al “senso comune”, le cose mortali lontane dalla verità, Barcellona ridimensiona il ruolo della coscienza pensante, prendendo in prestito, dalla filosofia hegeliana, quel singolarissimo concetto di coscienza infelice che il filosofo tedesco aveva considerato come l’ultimo sviluppo dell’autocoscienza nella quarta parte della Fenomenologia dello spirito.

Uno sforzo che non ha un obiettivo vano: le caratteristiche di quella coscienza sembrano avere tutti i requisiti per affrontare l’attuale crollo dell’Europa. Questa coscienza infelice è infatti il rapporto continuo tra certezza e verità: la coscienza infelice di Hegel, un po’ come quella di Pietro Barcellona, è in bilico quindi, tra il reale e il certo, a metà strada tra le grandi verità che attendono di entrare nei discorsi delle eminenze grigie per essere svelate, e le questioni ultime della vita di tutti i giorni, avanzi per il senso comune.

La verità, come dirà Hegel, sta tutta nella ragione, e per dirla meglio, nell’idealismo della ragione. Il contraddittorio, l’irrisolto sta forse nel fatto che generalmente la mente umana tende alla visione razionale delle cose, ma attraverso questo idealismo di ragione la struttura del pensiero acquista un senso diverso e si fa dialettica della realtà. Spiega l’esistenza umana, ma non dà soluzioni, almeno non quelle che servono alla società contemporanea per farle comprendere meglio cosa sta accadendo in questi anni e in particolare all’Europa.

Una corsa contro l’affermazione sempre più chiara di nuove governance che non si rispecchiano più nelle autorità politiche classiche, ma in quelle che sono prive di investitura democratica come per esempio il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Centrale, solo per citare alcuni esempi tratti dal libro. È necessario riassegnare gli spazi allora, entrare in una dimensione che permetta di definire a che punto è l’Europa oggi. È molto interessante la lettura che l’autore fa della guerra, del suo significato di “oscuro conflitto fra le forze che agitano l’inconscio individuale e collettivo” (p. 20). E proprio in questa oscurità si vede tutta la drammaticità dei sentimenti che l’essere umano vive: un conflitto che sta a metà strada tra la nostalgia dei tempi passati, della perdita di appartenenza a quel rassicurante mondo della tradizione, e tra la nuova bandiera che sventola all’insegna dei diritti umani come diritti assoluti di tutto “con il loro corredo di sviluppo e libertà per tutti” (ibid.). C’è una spiegazione a questo dramma, che Pietro Barcellona attribuisce all’intuito di Emanuele Severino per aver studiato il miraggio di onnipotenza dell’uomo contemporaneo, e della sua totalizzante potenza su tutto ciò che lo circonda. La radice di questa illusione risiederebbe forse nella visione dei Greci, in quella “alienazione originaria attraverso cui l’uomo si svincola dalla terra, si pensa come il padrone

della terra e non più come parte di una totalità” (p. 25). È l’eco della volontà di potenza che domina, è l’avvento della tecnica.

Questa alienazione dell’Occidente sembra per Barcellona il punto di partenza per l’analisi della  storia dell’Europa. In questo processo di annullamento, l’uomo si trova solo di fronte all’universo, e la ricerca di questo rapporto tra se stesso e il mondo ha segnato l’inizio di un’azione, che ha portato come risultato la considerazione da parte dell’essere umano di poter avere a sua disposizione il mondo attraverso la tecnica. È tutta la storia dell’Occidente a ripercorrere questo dramma dell’Io, ma è un dramma nel senso che sembra, per l’autore, che in questo punto sia partito quell’annichilimento che ha portato l’Io a considerarsi l’autocreatore di tale mondo. In questo delirio di soggettivismo, l’uomo sta adesso affrontando la grande trasformazione antropologico-genetica che è in grado di modificare i processi vitali. In questa riflessione non può non entrare il concetto di morte per l’Occidente, un concetto negativo che è identificabile con l’acquisizione del nulla  e dell’idea di fine, perché c’è l’Io, quell’Io che si riteneva onnipotente, che a un certo punto della propria esistenza deve scomparire. La filosofia occidentale diventa allora per Barcellona una scommessa con il concetto di angoscia per la propria morte. È il modo in cui il soggetto si pone di fronte a essa, che segna la nascita di una nuova categoria, quella della coscienza.

È tale l’importanza di questa coscienza perché è proprio essa a definire il limite d’azione dell’Io. Per Barcellona la riconciliazione con il mondo da parte dell’Io poteva avvenire solo attraverso la filosofia hegeliana, con il concetto appunto di coscienza infelice, che presuppone però tutto il discorso dell’uomo che è la storia dello spirito e che solo attraverso la “frantumazione nei piccoli Io, alla fine realizza l’autocoscienza universale” (p. 71).

È proprio la coscienza infelice, che attraverso l’autocoscienza può superarsi nel sapere assoluto, dove particolare e universale coincidono. Ma anche Hegel purtroppo ha fallito, e la verità che tanto invocava adesso è stata rimpiazzata dal “metodo”: il sistema scientifico sta risucchiando l’Io. In che senso: il dramma della vita interiore al confronto con la vita esteriore non ha piani di paragone per il metodo scientifico, e questo porta alla riconduzione a tutto ciò che è altamente verificabile. L’Io diventa in questo modo un residuato metafisico di uno stato mentale, che non trova un corrispettivo sul piano fisico se non attraverso l’intervento delle neuroscienze. Il metodo costruisce una dimensione oggi che è del tutto autonoma, e che si dichiara come “sapere speciale” attraverso le sue regole e le sue leggi, applicabile attraverso la tecnica. E’ in altre parole la condanna a morte dell’alétheia: tutta la verità è ormai una certezza scientifica ricava con lo sviluppo della tecnologia. Certo il tecnicismo e il metodo delle nuove scienze hanno contribuito allo sgretolamento dei ruoli istituzionali del soggetto e dell’oggetto, una visione che era stata preannunciata da Marx, al quale però l’autore non riconosce il merito di aver scoperto l’esito di tale rovesciamento. È anche vero che oggi è impensabile ristabilire la situazione iniziale e restituire al soggetto la sua dimensione, anche il solo pensare a una sua dimensione. La conseguenza inevitabile è allora la consapevolezza di un processo che si sta attuando senza un soggetto, e per ricondurre il discorso all’analisi dell’Europa, i termini di questo libero processo possono essere sostituiti con quelli di “alienazione dell’Occidente”, in cui la separazione dell’uomo dalla natura, o dalla sua natura, sta arrivando al termine. E proprio questa perdita del senso di se stessi, della rappresentazione del proprio Io, ha oggi il suo apice con la globalizzazione, che in qualche modo è priva di quegli affetti che caratterizzano gli esseri umani. L’omologazione è la risposta all’incertezza della natura del proprio Io, l’efficacia di tale fenomeno e la sua veloce diffusione è il sollievo per il dramma dell’autocoscienza. Ma forse una strada alternativa c’è, e Barcellona la disegna prendendo in prestito le parole di James Hillman: è necessario che “il fare umano si possa misurare non solo sull’efficienza ma anche sull’efficacia. Solo in tal modo diventa possibile governare la tecnica” (p. 172).