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Dylan Dog: tra mito e illunimismo

di Adriano Scianca - 08/11/2006

 


Che il rude universo western di Tex Willer, basato su regole semplici, codici d’onore, whisky e sigarette, non rientrasse nei canoni del perbenismo cattocomunista lo si era capito da un pezzo. E, se è per questo, anche Martin Mystère richiama vagamente i tratti del forzista. Ma almeno Dylan Dog, lui sì che è un “sincero democratico”, come si sarebbe detto un tempo. Privo delle certezze monolitiche della spicciola filosofia della frontiera e del granitico carattere da pistolero del suo collega dalla camicia gialla, Dylan Dog è piuttosto un uomo complesso, ricco di sfaccettature, pieno di umane debolezze e cedimenti da anti-eroe. Se nel primo risuona ancora l’epica omerica, nel secondo compare già Ibsen. “Non volevo farne un vincente, un super-uomo alla Tex”, dichiara esplicitamente Tiziano Sclavi, creatore del fumetto. Ma “l’indagatore dell’incubo”, se è per questo, non ha nemmeno i macchinoni e le frequentazioni mediatico-accademiche di Mystère. Costantemente in bolletta, sempre in giro con il suo maggiolone scassato (oddio, come riferimento politicamente corretto si poteva trovare di meglio della celeberrima “macchina del popolo”, ma sorvoliamo…), Dylan Dog sembra costeggiare la società ai suoi bordi, senza essere mai veramente inserito ed a suo agio.

Sì, non c’è dubbio, Dylan Dog deve essere di sinistra. Così lo ha voluto il suo autore e così lo hanno recepito le migliaia di lettori che ne hanno consacrato il successo. Persino Umberto Eco, sceso per l’occasione fra noi mortali, ebbe a dichiarare una volta che Dylan Dog era cosa buona. Fatto sta che il fumetto, uscito per la prima volta nell’ottobre del 1986 presso Daim Press, poi divenuta Sergio Bonelli Editore, compie oggi vent’anni. A consacrare l’evento, come al solito per le grandi occasioni, un albo a colori che trasgredisce al bianco e nero d’ordinanza.

Ma, prima di proseguire oltre, spieghiamo un secondo chi sia questo strano personaggio che ha rivoluzionato la storia del fumetto. Dylan Dog ha - da sempre - poco più di trent'anni, è inglese, vive a Londra in Craven Road numero 7. Ex agente di Scotland Yard, fa di mestiere l’investigatore privato, con specializzazione in casi ai limiti dell’assurdo, del terrificante, dello spaventoso. Libertario non praticante, conduce una vita morigerata senza fumare, mangiare carne o bere (anche se è un ex alcolista). Ha i suoi valori, senz’altro. Eppure Dylan Dog non fa politica. Anzi, non se ne interessa nemmeno. È vero, aiuta, ascolta e comprende i poveri, gli sfortunati, gli anormali, gli emarginati. Ma dei politici, di tutti i politici, si fida poco, facendo curiosamente eccezione per un pari della Camera dei Lord, l’eccentrico H.G. Wells, (ispirato al famoso scrittore di fantascienza Herbert George Wells), miliardario, dotato di una cultura enciclopedica e dandy raffinato. Per il resto, Dylan non legge Micromega e non fa girotondi. Detesta gli happening di massa, forse detesta le masse stesse. Difficile immaginarselo in un corteo o ad un concerto. Entrato una volta in discoteca, ebbe l’impressione di trovarsi di fronte ad un girone dell’inferno dantesco. Per qualcuno ce ne sarebbe già abbastanza per definirlo un qualunquista di destra. Marxista solo per via del suo assistente - una copia in carne ed ossa dell’attore Groucho Marx - Dylan Dog, in realtà, è più che altro un anarchico che nei suoi momenti migliori rasenta l’anarca.

Senza dubbio “buono”, egli non è mai buonista. Non è mai armato, ma al momento opportuno non manca di farsi lanciare la rivoltella da Groucho per sparare senza tanti complimenti. Per quanto prima e dopo possa ragionare, discutere, spiegare, razionalizzare, quando deve agire Dylan fa ciò che deve essere fatto. E, come da copione, è un impareggiabile seduttore che non manca di portarsi a letto almeno una donna per ogni albo. Come una sorta di James Bond spettinato e con la camicia fuori dai pantaloni, ma con lo stesso charme, la stessa sicurezza, lo stesso stile. Ma non fatelo sapere al suo autore, il povero Sclavi, che altrimenti correrà a spiegarvi come il suo personaggio non sia un playboy o un “farfallone”, quanto piuttosto uno che - testuale - “quando si innamora, lo fa sul serio”. Peccato che la giustificazione suoni pateticamente moralistica e richiami l’effetto opposto, un po’ come per quel tipo cantato dagli Stadio (non a caso un “grande giglio di puttana”) che “ha donne sparse per l'Italia/lui colpisce e scappa via/ma con ognuna ha fatto un pianto/ha pianto pure con la mia”. Brutta storia, in effetti, quando scopri che i tuoi personaggi hanno preso il volo dalle terre desolate delle tue sicurezze, dei tuoi dogmi, delle tue fisime per assumere una fisionomia propria che, gira che ti rigira, è sempre quella dell’eroe vecchio stampo. Brutta storia quando ti ritrovi a raccontare a te stesso gli alibi scricchiolanti per la tua creatura di carta che è troppo cresciuta per restare rinchiusa fra le pareti anguste del galateo sessualdemocratico.

Figurarsi se a ciò aggiungi un rapporto quanto mai controverso e politicamente sospetto con il mito. Dal licantropo al vampiro, Dylan ha avuto modo di incontrare praticamente tutti i personaggi che animano il lato oscuro del nostro bagaglio tradizionale. Un intero fiume di miti e leggende dragato in lungo e in largo, per riportare alla presenza figure ancestrali ed attualizzarle. Il cliente tipo del detective londinese, non a caso, è il povero diavolo attraversato per un giorno dall’assurdo, ma già deriso dalle usuali sentinelle della ragione illuministica e dai custodi di una normalità data una volta per tutte ed intesa come netta antitesi ad ogni fantasticheria miticheggiante. Il fatto è che in Dylan Dog mito e ragione si intrecciano, si fondono, si cambiano di posto, si sorreggono l’un l’altro. Nell’universo dylaniato “il chiaro è di per sé confuso, e reciprocamente il distinto è di per sé oscuro” (Gilles Deleuze). Ma, in fondo, è proprio nel cuore nero dello stesso Dylan che bene e male, ragione e sragione, illuminismo e mito finiscono per confondersi. È infatti noto al lettore il legame parentale confuso ed onirico, ma non di meno acclarato, che lega Dylan a Xabaras, lo scienziato/alchimista mefistofelico e faustiano il cui nome è l'anagramma di quello del demone Abraxas, eternamente impegnato nella ricerca del siero dell'immortalità. Comparso già nel primo numero del fumetto, Xabaras sa farsi vivo solo nelle occasioni che contano, come nel numero 100 o in quest’ultimo albo ora in edicola, dove, fuoriserie rombante e camicia nera, appare più in forma che mai. Egli è il Nemico con la “n” maiuscola, ed allo stesso tempo la metà oscura, un demone interiore che vorremmo esorcizzare e che eppure è sempre in fondo ai nostri lati più nascosti.

Viene quasi da pensare a quell’“intrico di mito e illuminismo” denunciato da Jürgen Habermas a proposito dei suoi ex-sodali Wiesengrund-Adorno e Horkheimer. Non a caso Habermas, in ultima istanza, finiva per rimproverare ai due francofortesi una sorta di tentazione reazionaria. “Potrebbe anche darsi”, era la critica generale del filosofo ai pensatori postmodernisti, “che essi ammantino soltanto la loro complicità con una veneranda tradizione di controilluminismo, spacciandola per post-illuminismo”. Torna anche in mente la discussione che qualche anno fa Eugenio Scalfari lanciò nelle pagine culturali di “Repubblica” circa l’illuminismo e la sua attualità in un mondo dominato dai perfidi neo-nietzscheani. Il punto sarebbe, senza girarci troppo intorno, che chi si balocca con l’irrazionale, chi confonde mito e ragione, chi tocca ciò che non deve essere toccato, chi intorbida le acque limpide della razionalità occidentale, chi scambia l’uomo con il post, sub, oltre, non-umano è un pericoloso reazionario e, parliamoci chiaro, un sulfureo criptofascista. Relativizzando l’umano, ora esposto alla spaesante compagnia di mostri, alieni, demoni e presenze occulte, Dylan Dog finisce per minare le fondamenta dell’umanismo. Scambiando, sovrapponendo, confondendo Bene e Male, ponendo l’uno come principio dell’altro e viceversa, l’indagatore dell’incubo dà una vigorosa spallata ai custodi delle ortodossie, ai vigilantes del politicamente corretto ed ai cultori dell’emiplegia mentale di orteghiana memoria. Che le antenne di costoro riescano a captare la puzza di zolfo al di là delle buone intenzioni è solo questione di tempo. E quando verrà quel giorno, aspetteremo Dylan sull’uscio dell’inferno e poi gli sussurreremo: bentornato a casa.