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L'America Latina e la rinascita del sogno bolívariano

di Tariq Ali - 10/11/2006


La vittoria di Daniel Ortega in Nicaragua indubbiamente riflette il desiderio, dei nicaraguensi e del Sudamerica nel suo complesso, di una svolta rispetto all'ordine mondiale costituito, e giunge in un momento in cui la Nazione Latina, Venezuela in primis, è tornata a marciare verso il sogno bolívariano

Daniel Ortega, benedetto dalla Chiesa, tuttora detestato dall’ambasciatore Usa, fiancheggiato da un vicepresidente che fu il negoziatore della Contra [la guerriglia antisandinista appoggiata dalla Cia, NdT], potrà anche essere diventato la pallida ombra di se stesso, ma la sua vittoria riflette indubbiamente il desiderio dei nicaraguensi di una svolta.

Il Nicaragua seguirà la linea redistributiva e anti-imperialista di Caracas oppure limiterà le proprie iniziative entro i confini del Fondo Monetario Internazionale?

La vittoria di Ortega giunge in un momento in cui l’America Latina è tornata a marciare. Recentemente, ci sono state alcune spettacolari dimostrazioni di determinazione popolare nelle città di Porto Alegre, Caracas, Buenos Aires, Cochabamba e Cusco, solo per citarne qualcuna. Ciò ha dato nuova speranza sia al mondo anestetizzato dal torpore neoliberale (Europa, Stati Uniti, estremo Oriente) sia a quello che soffre delle depredazioni imposte dal "nuovo" ordine mondiale (Iraq, Palestina, Libano, Afghanistan, Asia meridionale).

Le voci che si sono levate dai governi di Venezuela, Bolivia e Cuba, oltre che dai grandi movimenti di Messico, Argentina, Ecuador, Perù e Brasile, evidentemente non sono gradite dall’élite globale e dai suoi sostenitori nei media. Lo battaglia condotta dalla Repubblica bolívariana di Venezuela contro il “Washington consensus” ha alimentato le ire della Casa Bianca. Finora tre sono stati i tentativi (tra cui un tentato golpe militare sostenuto da Usa e Europa) di far cadere Hugo Chávez.

Chávez è stato il primo Presidente eletto del Venezuela nel febbraio 1999, dieci anni dopo che un’insurrezione popolare contro il programma di riassestamento del Fondo Monetario Internazionale venne brutalmente repressa dal Presidente Carlos Andrés Peréz, il cui partito precedentemente aveva costituito il più importante membro dell’Internazionale Socialista. Da notare che, durante la sua campagna elettorale, Peréz apostrofò gli economisti del libro paga della Banca Mondiale come “fautori del genocidio al servizio del totalitarismo economico” e il Fondo Monetario Internazionale come “un ordigno nucleare che uccide le persone ma lascia intatti gli edifici”. Dopodichè, cedette di fronte ai voleri di entrambe le istituzioni, tenne in sospeso la costituzione, dichiarò lo stato di emergenza e ordinò all’esercito di muoversi contro i manifestanti. Più di 2.000 poveri vennero uccisi dai soldati.

La tragedia ha sancito l’atto di nascita della Repubblica bolivariana di Venezuela. Chávez e altri ufficiali più giovani organizzarono la mobilitazione contro gli abusi e la corruzione dell’esercito. Nel 1992 ci si mosse per protestare contro chi aveva autorizzato il massacro. L’iniziativa fallì in quanto immediatamente successiva agli sconvolgimenti del 1989, ma la gente non ha dimenticato.

Ecco come i nuovi Bolívariani sono saliti al potere, iniziando gradualmente a implementare il processo di riforme social-democratiche ispirate al New Deal rooseveltiano e alle politiche del governo laburista del 1945. In un mondo condizionato dal “Washington consensus” ciò è parso inaccettabile. Da qui il tentativo di destituire Chávez. Da qui la richiesta di Pat Roberson, il leader della Cristianità politica Usa, di predisporre da parte di Washington l’omicidio di Stato nei confronti dello stesso Chávez. Il Venezuela, così, è passato dall’anonimità alla luce dei riflettori.

A eleggere Chávez è stata gente irata e determinata. Gente che per dieci anni non si è sentita rappresentata, gente che è stata tradita dai partiti tradizionali. Queste persone si sono schierate contro le politiche neoliberiste, considerate un’offensiva contro le classi meno agiate allo scopo di instaurare un’oligarchia parassitica dedita alla corruzione. Si sono schierate contro l’uso che è stato fatto delle risorse energetiche del loro paese. Contro l’arroganza dell’élite venezuelana, che ha curato i propri interessi a spese della maggioranza povera e dei neri. L’elezione di Chávez è stata la loro “vendetta”.

Quando è stato chiaro che Chávez era determinato a dar vita ad alcuni importanti rinnovamenti alla struttura sociale del suo paese, Washington si è messa in moto. Nelle sue azioni e nella sua propaganda contro il Venezuela è venuto alla luce tutto il suo bigottismo, a cui hanno fatto eco le massiccie campagne di disinformazione, in particolare, dell’Economist e del Financial Times.

Tutti uniti nei pregiudizi contro Chávez, la cui ascesa al potere è stata vista come un’aberrazione, in quanto le riforme sociali realizzate grazie ai proventi petroliferi – sanità, istruzione e case per i poveri – sono subito state identificate in una regressione a un grigio passato, un primo passo sulla strada di un vecchio nuovo totalitarismo.

Chávez non ha mai nascosto le proprie politiche. I due Simóns [patrioti venezuelani che portarono all’indipendenza il proprio paese, NdT] del 18esimo secolo – Bolívar and Rodríguez – gli hanno insegnato una semplice ed importante lezione: non servire gli interessi degli estranei; porta avanti la tua politica e realizza la tua rivoluzione economica; unisci l’America Latina contro tutti gli imperi. Ecco qual è stata l’essenza del programma di Chávez.

In un discorso a L’Havana nel 1994, Chávez dichiarò: “Bolívar una volta disse che ‘non è possibile curare una cancrena ricorrendo a dei palliativi’. Il Venezuela è totalmente infettato dalle cancrene… Non c’è modo per cui il sistema possa curarsi da solo… Il 60% dei venezuelani vive in povertà… In vent’anni sono sfumati più di 200 miliardi di dollari. ‘Dove sono finiti quei soldi?’, mi ha chiesto il Presidente Castro. La risposta è: nei conti esteri di quasi tutti coloro che in Venezuela sono stati al potere… Il prossimo secolo, noi riteniamo, sarà il secolo della speranza. Sarà il nostro secolo, il secolo in cui il sogno bolívariano rinascerà”.

 

Tariq Ali vive da lungo tempo in Inghilterra, dove dirige la rivista 'New Left Review'. Nato nel 1944 a Lahore, città oggi in territorio pakistano, ma che all'epoca faceva parte dei possedimenti britannici in India, si trasferì ventenne in Inghilterra, dove continuò gli studi nel campo della politica, della filosofia ed dell'economia, presso l'Exeter College di Oxford. Entrando a far parte della Federazione Laburista Universitaria, fu dapprima membro della commissione del Gruppo Socialista, e in seguito, a partire dal 1965, presidente della Oxford Union. Con la guerra del Vietnam nella sua fase più acuta, Tariq Ali si guadagnò una reputazione di rilievo nazionale partecipando a dibattiti accanto a personaggi come Henry Kissinger o come il Segretario agli Esteri britannico Michael Stewart.
Tariq Ali è autore de "Lo scontro dei fondamentalismi. Crociate, jihad e modernità" e di "Bush in Babilonia. La ricolonizzazione dell'Iraq" (trovali su Nuovi Mondi Shop).

 

Fonte: The Guardian
Traduzione a cura di Luca Donigaglia per Nuovi Mondi Media