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Filosofia della conoscenza. Un libro di Nicla Vassallo

di Pasquale Rotunno - 10/11/2006



Cosa significa conoscere? Cosa distingue la conoscenza rispetto ad altre modalità dell’esperienza o dell’attività mentale degli uomini, come l’opinione, la credenza, l’immaginazione, la fede? La filosofia ha dato nel corso del tempo svariate risposte. Giungendo persino a negare, in qualche caso, che la conoscenza sia possibile. O che sia possibile stabilire un confine netto tra conoscenza e semplice credenza; anche in ambiti, come quello scientifico, in cui non dubitiamo di avere a che fare con conoscenze certe e solide. Thomas Kuhn e altri epistemologi hanno, infatti, mostrato quanto spazio abbia nella scienza quell’atteggiamento extrarazionale che chiamiamo fede. Qualcuno ha ravvisato persino la “dissoluzione” del problema della conoscenza e la “morte dell’epistemologia” in autori come Ludwig Wittgenstein o in suggestioni derivanti dalle filosofie di Nietzsche, Heidegger e Derrida. Le insolubili questioni intorno alla distinzione tra soggetto e oggetto del conoscere, tra forme e contenuti, tra convenzioni e verità di fatto, sarebbero generate da una concezione “corrispondentista” della verità. L’idea cioè che vi sia una realtà indipendente dalla mente che il soggetto conoscente deve cercare di “rispecchiare”. Ma questa è un’idea metafisica legata a un complesso di assunzioni psicologiche ed epistemologiche oggi soppiantate da concezioni “pragmatiche” e “comportamentiste”. Tali concezioni non richiedono alcuna idea di “rappresentazione” e, alla fine, vanificano ogni sforzo di far combaciare schemi concettuali e “fatti”. La riflessione filosofica, in ogni caso, come non può evitare di interrogarsi sui problemi dell’agire pratico-politico, così non può evitare di interrogarsi sulle modalità del conoscere.
Non si tratta solo di questioni astratte. Basti pensare a quel principio essenziale della civiltà moderna costituito dalla “laicità della politica”. Un principio che ha garantito in pari tempo l’autonomia del potere politico dalle ipoteche ideologico-religiose e l’autonomia della ricerca intellettuale dal potere politico. È, infatti, la distinzione tra “verità di ragione” e “verità di fede” a consentire la convivenza tra persone che la pensano diversamente. Proprio la storia della civiltà italiana lo dimostra. La distinzione tra verità di scienza e verità di fede maturò nell’ambito di uno scontro duro e complesso che dominò il XIII secolo. La scoperta della fisica aristotelica e la rinascita degli studi di diritto romano misero in crisi la cultura cattolica ispirata al teologismo di Paolo e Agostino. La Chiesa reagì mettendo al bando l’insegnamento di Aristotele e del diritto romano. Fu allora il pensiero arabo di Averroè che elaborò la prima idea di una verità di scienza distinta e autonoma dalla verità di fede. Tommaso d’Aquino, proprio polemizzando con l’averroismo, sistemò quella distinzione anche nella teologia cattolica. Sul piano pratico, Dante poté – nella “Monarchia” – teorizzare la separazione e quindi l’autonomia del potere politico e del potere religioso.
Nel mondo arabo il pensiero di Averroè non trovò sviluppi analoghi. In Italia e in Europa, invece, si ebbe il consolidamento teorico dell’autonomia della politica, con Machiavelli, e della scienza, con Galilei. Queste aperture svilupparono il pensiero umanistico laico e poi quello illuministico e democratico moderno.
Ci sono dunque conoscenze effettivamente possibili? Hanno senso i giudizi estetici sul bello e sul brutto, e i giudizi etici sul bene e sul male? Che tipo di sapere è il sapere scientifico? Quali intrecci s’instaurano davvero tra estetica, religione, scienza ed etica? A queste domande rispondono, nel volume “Filosofia delle conoscenze” (Codice edizioni), alcuni dei più autorevoli filosofi contemporanei: Maurizio Ferraris, Giulio Giorello, Christopher Hughes, Eugenio Lecaldano e Nicla Vassallo (che ha curato il libro).
Per vivere abbiamo bisogno di distinguere ciò che è conoscenza e ciò che non lo è. La scienza lo fa avvalendosi della matematica; prescinde il più possibile dai nostri valori, sentimenti, emozioni. In altri ambiti la situazione è diversa. Ad esempio, arte e scienza – osserva Nicla Vassallo, ordinario di Filosofia teoretica all’Università di Genova – si trovano su fronti opposti. L’arte è una ricerca soggettiva del bello attraverso l’intuizione.
La scienza è una “ricerca oggettiva che tende verso la verità attraverso le scoperte empiriche”. Certo l’immaginazione gioca un ruolo importante nel contesto della scoperta scientifica, ma non può fornire prove o “giustificazioni”. Lo scienziato si avvale della creatività nella elaborazione delle ipotesi e dei paradigmi che guidano l’osservazione empirica.
Ma, a differenza dell’arte, la scienza richiede “un metodo rigoroso che rifiuti le idiosincrasie soggettive, per privilegiare la razionalità sull’emotività e garantire così un patrimonio epistemico comune a tutti gli esseri umani”. Non si arriverà mai alla certezza assoluta, ma a una ragionevole affidabilità. Come scrisse John Locke, operiamo “non nel meriggio della certezza, bensì nel crepuscolo della probabilità”. La conoscenza scientifica, rimarca l’epistemologo Giulio Giorello, che è stato allievo di Ludovico Geymonat, esclude sia lo scetticismo che il dogmatismo: “è una razionalità per congetture e strategie di confutazione e di conferme” valutabili con i teoremi del calcolo probabilistico.
È questa ancora conoscenza oggettiva? Di sicuro crea un “libero consenso intersoggettivo”. L’oggettività in quanto tale è “il limite cui tende una ricerca che procede all’infinito”. Piuttosto che chiedere “su cosa si fondano” le teorie scientifiche; occorre domandare: “come esse vanno riviste?”. L’errore, la scoperta dell’errore in un ampio confronto tra alternative, diventa fonte di conoscenza.
Più difficile è stabilire se anche le scelte etiche siano una forma di conoscenza. Eugenio Lecaldano, filosofo morale all’Università di Roma La Sapienza, sostiene che “l’identificazione dell’etica con una conoscenza è erronea”. Soprattutto quando si tratta di affrontare questioni bioetiche. La tendenza a identificare l’etica con una conoscenza è il retaggio di una fase in cui gli esseri umani hanno proiettato fuori di loro leggi e realtà fornite di valore e autorevolezza. La legge morale era considerata l’espressione di un “Essere Supremo”. Gli uomini dovevano limitarsi a conoscere e osservare i precetti divini. A giudizio di Lecaldano, una visione naturalistica della vita degli esseri umani “esige che si abbandonino le analisi in termini conoscitivi dell’etica”. Si deve, invece, ammettere che “nella moralità si esprimono solo i nostri più profondi sentimenti ed emozioni”. Siamo ben lontani dalla morale intesa come scienza matematica vagheggiata dai filosofi Baruch Spinoza e John Locke. E anche da quelle posizioni che ritengono bene e male, giusto e ingiusto, virtuoso e vizioso, proprietà oggettive del mondo; conoscibili alla stregua di altri usuali oggetti della nostra esperienza quotidiana.
L’etica – rileva Lecaldano – “ben lungi dall’essere un insieme di conoscenze è in realtà una valutazione e una prescrizione rivolta al futuro su ciò che si deve fare”. Richiamando la nota “legge di Hume” (ovvero la necessità di non confondere l’essere con il “dover essere”), Lecaldano ravvisa il difetto delle concezioni cognitiviste nel “ridurre la moralità alla registrazione di qualcosa che è già dato”. Sia questo percepito come una sensazione o un’intuizione. Se si passa dal piano astratto a questioni concrete, la tesi di Lecaldano induce a ritenere “illusoria la pretesa di trovare un accordo sulle principali questioni bioetiche, ricorrendo a una qualche più precisa conoscenza degli elementi fattuali della situazione, o una qualche intuizione conoscitiva dei valori coinvolti”. I dati della conoscenza scientifica sono certo indispensabili per affrontare questioni bioetiche. Ma i disaccordi etici non possono essere risolti sul piano conoscitivo. Pur muovendo da conoscenze scientifiche condivise, ad esempio sull’inizio e la fine della vita, le divergenze etiche restano se si tratta di decidere la liceità di talune pratiche, come la procreazione assistita o l’eutanasia.
La scelta etica di ciascuno sarà determinata da sentimenti ed emozioni, piuttosto che da nuove conoscenze. Sulla scia del “sentimentalismo” di David Hume, l’etica trova fondamento nella nostra “naturale tendenza a reagire e ad essere affettivamente coinvolti in presenza delle sofferenze altrui”. Sulla base di questa naturale affettività – conclude Lecaldano – diamo “una forza motivante e obbligante a tutte quelle regole e norme che nella società in cui viviamo si connettono con questa fondamentale struttura sentimentale della specie umana”.