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Ripensiamo l'azienda: senso di comunità e partecipazione dei lavoratori

di Paolo Conforto - 15/11/2006

 

Quando sentiamo parlare dell’argomento lavoro istintivamente la nostra mente si rivolge alle grandi questioni che lo scenario politico ci propone da qualche tempo: lotta alla disoccupazione, flessibilità, cuneo fiscale ecc.. E che il tema del lavoro, così come le mutate condizioni socio-economiche in cui questo si svolge, appassioni non solo gli Italiani, ma che sia argomento di assoluta priorità in tutta Europa, è testimoniato da numerosi fenomeni sociali tra cui quella delicatissima forma di dissenso che i nostri cuginetti d'oltralpe hanno posto in essere nei mesi scorsi per protestare contro l’ormai tristemente famoso CPE (contract de premier employment).

Gran parte dell'attenzione degli analisti si rivolge a due aree principali: e cioè, da una parte, quali strumenti rendere disponibili per far entrare il più possibile giovani e meno giovani nel ciclo produttivo (possibilmente facendo emergere il lavoro nero); dall'altra, come assicurare tutte quelle tutele che ogni lavoro richiede sia per garantire la dignità del lavoratore che per creare le condizioni necessarie per svolgere correttamente il proprio compito.

Raramente viene invece portato all'attenzione della grande opinione pubblica il tema dell'organizzazione del lavoro e dei processi che regolano la divisione dei compiti all'interno delle aziende. Svariate le teorie sull'argomento e numerosi i conseguenti modelli applicabili. Ancor più numerose le specifiche particolarità con cui tali teorie e modelli sono applicati nelle singole aziende e adattati allo specifico contesto in cui devono operare.

Obiettivo comune di tutte le diverse impostazioni è comunque quello di ottenere un'efficiente strutturazione dei compiti dei lavoratori al fine di aumentare la loro produttività e, complessivamente, quella dell'azienda. Senza voler entrare negli articolati tecnicismi che una materia così complessa necessariamente si porta dietro, un'osservazione che chiunque abbia ricevuto in sorte dal destino la possibilità di lavorare in un'azienda medio-grande può sicuramente fare, riguarda la concezione di azienda che sottende a tali modelli.

L'abbraccio nefasto, in corso da decenni, tra una certa concezione di gestione aziendale e di un certo tipo di sindacalismo, d'accordo su niente se non sul considerare l’azienda come terreno di scontro di ideologie contrastanti, ha avuto come risultato lo svilupparsi di una frattura nel tessuto umano su cui poggia l'attività lavorativa. Se da un lato, sembra che l'azienda venga percepita solo come una controparte a cui si è legati esclusivamente attraverso rapporti amministrativi ed economici,  dall’altro, alcuni comportamenti di chi ha la responsabilità delle decisioni sembrano dare l'impressione della gestione di una proprietà privata e personale da difendere da assalti alla diligenza camuffati da rivendicazione  salariali e di diritti del lavoratore in generale.

E del resto anche piccole abitudini linguistiche, nella maggior parte dei casi adottate istintivamente, la dicono lunga sulla mentalità molto spesso radicata nel modo del lavoro. Per esempio non è infrequente sentire usare l'espressione "l'Azienda" intendendo con questo termine la direzione aziendale scordando che l'azienda coincide con la totalità delle persone che lavorano in essa, dall'amministratore delegato all'operaio, dal quadro alla segretaria; o sentire affermare un capo-progetto frasi del tipo "io lo pago" intendendo far rilevare che un certo lavoratore svolge attività su quel progetto a cui è associata una certa commessa omettendo il fatto che in ogni caso è l'azienda a cui appartengono sia il capo-progetto che il lavoratore ad emettere gli stipendi.

Questo approccio comporta come prima conseguenza uno scollamento tra quello che i dipendenti percepiscono come obiettivi personali e gli obiettivi aziendali. La negatività che ne consegue dovrebbe essere ben percepita sia da chi ha a cuore primariamente le condizioni del lavoratore che da chi ha come obiettivo principale la produttività dell'azienda, proprio perché questi due aspetti sono facce della stessa medaglia.

La frattura ve pertanto sanata. Ma come? Prima di tutto modificando radicalmente l’idea di azienda. Va abbandonata la percezione di questa come "luogo di scontro" per adottare finalmente la concezione di "casa comune" per tutti i lavoratori, i quali condividono gli stessi obiettivi e lo stesso destino. Va ricucito un rapporto affinché l'azienda possa essere vista come patrimonio condiviso. Questo è ancora più importante nei periodi di crisi in cui si chiedono notevoli sacrifici ai dipendenti (cassa integrazione, mobilità ecc.).

Va ricostruito quel senso di comunità tra  tutti coloro che svolgono la propria attività all'interno dello stesso gruppo e quel legame generazionale tra lavoratori con diversa anzianità affinché i più esperti svolgano appieno la propria funzione educatrice sia dal punto della formazione lavorativa specifica che da quello comportamentale in senso generale. Quindi passaggio di conoscenza inteso non come impoverimento di chi la dispensa ma come arricchimento di tutto il gruppo umano e beneficio dell'intera azienda.

Il flusso di conoscenza e, più in generale, il flusso di informazioni relative alle specifiche attività svolte, sono elementi chiave non solo per formare buoni professionisti ma anche per creare quel senso e appartenenza e di radicamento che è nella maggior parte dei casi rimedio efficientissimo contro i rischi di demotivazione e di frustrazione dei lavoratori. A questo riguardo, ogni lavoratore, indipendentemente dal livello di inquadramento e dal tipo di mansione svolto, dovrebbe avere il più possibile visibilità del contesto in cui il proprio lavoro si inserisce e soprattutto del risultato finale del progetto all'interno del quale questo lavoro è stato eseguito. Si dovrebbe cioè sempre cercare di rispondere a delle semplici domande del tipo: Perché è arrivato questo lavoro? Qual è l'obiettivo finale? Che fine fa la parte di lavoro che ho completato? ecc. Assolutamente da evitare è l'approccio "a finestra" dove il lavoratore non riesce a vedere niente al di fuori della sola attività che ha in carico.

Quindi, cercando di sintetizzare, la tanto agognata efficienza e produttività delle aziende potrebbe ricevere incommensurabili benefici se si ripensasse l'organizzazione del lavoro in senso partecipativo.  Se si riuscisse a ricreare quel senso di partecipazione del lavoratore alla comunità di lavoro a cui appartiene. Piccoli passi sulla strada della partecipazione che poi si potrebbero trasformare in passi sempre più decisi verso i tre obiettivi principali che la teoria della partecipazione si prefigge:

1.     PARTECIPAZIONE AL CAPITALE (creazione di un azionariato dei lavoratori diffuso),

2.     PARTECIPAZIONE AI REDDITI (legare una quota parte del salario dei lavoratori agli utili dell'impresa)

3.     PARTECIPAZIONE ALLE DECISIONI (la partecipazione dei lavoratori alla programmazione strategica e alla gestione dell'impresa).