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La fede cristiana oggi: una semplice opinione?

di Alain de Benoist - 17/11/2006

 

La brutale cancellazione della cultura religiosa risale alla metà degli anni Sessanta, il che

significa che coincide con la fine della modernità. Quest’ultima aveva rappresentato una

considerevole rottura. Dell’epoca che ha preceduto l’avvento della modernità, si può dire che

privilegiava il dominio attraverso il passato. La religione, trasmessa di generazione in

generazione, svolgeva un ruolo essenziale, che limitava e regolava le aspirazioni e i

comportamenti umani. La società globale viveva in regime di relativa eteronomia. La

modernità ha sostituito la determinazione attraverso il passato con la determinazione

attraverso il futuro, facendo nel contempo passare la società da un regime di eteronomia a un

regime di autonomia. Questa autonomia, legata all’espandersi dell’individualismo, è tuttavia

rimasta del tutto relativa. Da parecchi punti di vista, i grandi sistemi ideologici moderni non

hanno rappresentato che trasposizioni profane dei sistemi religiosi che li avevano preceduti.

Come ha scritto Carl Schmitt, tutti i grandi concetti politici moderni hanno un’origine

teologica, e la maniera moderna di “fare politica” ha assai spesso assunto la forma di un

apostolato secolare: atteggiamento sacrificale, dono di sé, fiducia assoluta nella dottrina e nei

capi, impegno incondizionato nel lungo periodo.

Questi due modi di determinazione, il modo premoderno e il modo moderno, si sono

cancellati l’uno dopo l’altro. Il primo, semplicemente, non è più ascoltabile, il secondo è

sempre meno credibile. La credenza religiosa implica un’autorità che viene dal passato (la

tradizione come modello), la credenza politica un’autorità che viene dal futuro (la collettività

diventa integralmente produttrice di sé, genera se stessa in una visione del tempo diretta

dall’idea di progresso). Il momento postmoderno risiede in un affrancamento da questa

duplice autorità. Corrisponde alla determinazione attraverso il presente. Nel mondo

postmoderno, tutto è questione di preferenze e di scelte individuali o interindividuali che non

sono più determinate da un modello fondante o da un progetto di futuro, ma da una volontà

di affermazione o da un bisogno d’identità immediato.

In passato, si fosse in un regime pagano o in uno cristiano, la religione è sempre stata un

modo di strutturazione della società globale. Oggi, essa non struttura più niente. Le società

strutturate dalla religione sono inoltre sempre state società basate sulla tradizione. L’autorità

che la Chiesa esercita, ad esempio, è nel contempo sempre anteriore al momento presente e

indipendente dalla volontà umana. Orbene, la società moderna ha espulso la tradizione.

Certo, il concetto di “società cristiana” è stato spesso idealizzato, perché una società unanime

non è mai esistita. Alcuni storici pensano anzi che l’Europa sia stata “evangelizzata” sul serio

in profondità soltanto nel XVIII e nel XIX secolo. Ciò nondimeno è vero che la Chiesa è

rimasta per secoli l’istituzione che, ovunque in Europa, dava il là sul triplice registro delle

credenze, dei valori e dei comportamenti. Quell’epoca è passata. Relegata nello spazio

privato o nelle manifestazioni pubbliche di una associazione come tante altre, la Chiesa non è

più da tempo la chiave di volta della società globale. Lo ha riconosciuto René Rémond in

un’opera nella quale si interroga, in quanto credente, sul declino della fede: «La Chiesa deve

fare i conti con questa realtà: non è più in grado di imporre i suoi punti di vista alla

collettività».

La fede è diventata un’opinione fra le altre

A partire dal XIX secolo, la laicità ha costituito il principio (di origine liberale) che ha

legittimato la separazione tra le Chiese e lo Stato. La classica distinzione tra l’ambito spirituale

e quello temporale viene perciò ridefinita in una nuova ottica: le Chiese vengono escluse, in

quanto tali, dalla sfera pubblica, per vedere il loro campo d’azione delimitato alla società

civile. Lo Stato, va sottolineato, non è in linea di principio ostile alla religione, ma soltanto

alle pretese terrene della Chiesa. Non cerca neanche di sostituirsi alla Chiesa, decidendo al suo

posto sui valori e sulle norme che devono reggere la società: al contrario, ritiene che la

potenza pubblica debba restare “neutra” in questo ambito, cioè che essa non abbia da

proporre un particolare modello di «vita buona», per dirla con Aristotele, un particolare

modello di bene, ma piuttosto da rispettare o da garantire il pluralismo delle convinzioni e

dei valori di cui la società civile è il luogo. Il paradosso sta nel fatto che la Chiesa deve allora

crearsi un posto, in quanto istituzione, in una società civile definita, proprio in contrasto con

la sfera istituzionale, come la sfera dell’intimità individuale e degli interessi privati. La Chiesa

ritrova dunque una legittimità in quanto istituzione privata, ma a condizione di non

impicciarsi più di politica pretendendo di assoggettare a norme la conduzione degli affari

pubblici. In questo contesto, l’affiliazione religiosa non può più impegnare nessun altro al di

fuori dei fedeli. Costoro hanno, beninteso, il diritto di vivere la propria fede, ma perdono

quello di imporla agli altri. La conseguenza cruciale è che la credenza si trasforma in tal

modo in una opinione fra le altre – un’opinione altrettanto legittima quanto lo sono le altre,

ma che non può essere considerata intrinsecamente migliore o superiore. L’avvento della

modernità, come scrive Marcel Gauchet, ha fatto passare la fede «dallo status di referente

inglobante della comunità a quello di opzione particolare del cittadino». Le Chiese sono

ormai solo una componente fra le altre di una società civile che si organizza sulla base

dell’adesione volontaria dei suoi membri.

Questa vera e propria rivoluzione nella storia dello status della credenza religiosa è oggi

passata nei costumi. La postmodernità l’ha in un certo senso banalizzata, facendo nel

contempo uscire l’idea di laicità dal campo delle polemiche, spesso violente, che la sua

apparizione aveva provocato. Anche per l’immensa maggioranza dei credenti, l’idea di una

società religiosa all’antica ha perduto il suo senso. I fedeli non si richiamano più ad un ordine

cristiano, non si aspettano più che la Chiesa venga a coronare un’organizzazione sociale e

politica. Possono, beninteso, contestare la tale o la talaltra legge civile dal punto di vista della

loro fede (la «legge naturale»), ma hanno comunque interiorizzato la separazione tra la

Chiesa e lo Stato, a tal punto che assai spesso (come testimoniano certe critiche abitualmente

rivolte all’islamismo), «mescolare il divino a queste faccende triviali e secolari appare [loro]

come una sorta di empietà». Ciò significa che la credenza religiosa ha cessato di essere

politica nel momento stesso in cui, con il crollo dei grandi sistemi di convinzione e di

impegno ideologico, la credenza politica cessava di essere “religiosa”. In ciò risiede quel che

vi è di più inedito nel momento postmoderno.

Non si cerca più la salvezza, ma punti di riferimento

Un altro tratto fondamentale è l’individualizzazione dei comportamenti, anche sul piano

religioso. La religione, per i nostri contemporanei, si riduce a una vaga “spiritualità” che non

implica più una disciplina. Le persone non cercano più la salvezza ma da un lato dei punti di

riferimento (un «senso») e dall’altro delle ricette di «pienezza» o di «felicità». Non sono la

loro anima o il loro spirito a formulare queste domande, bensì il loro cuore. Per questo

motivo essi così spesso si compongono una spiritualità à la carte, oppure si rivolgono a

forme di saggezza tradizionali, come il buddismo, che si rivelano relativamente poco

costrittive e sembrano proporre prima di tutto un ideale di equilibrio psichico e di

realizzazione di sé. Alle credenze, scrive ancora Marcel Gauchet, «viene richiesto di farsi

procacciatrici di senso della vita collettiva rimanendo nell’ordine dell’opzione individuale,

essendo inteso che sono concepibili soltanto interpretazioni private dei fini pubblici».

Nel contempo, si osserva un’evidente curiosità, un ritorno di interesse, per il fatto religioso;

ma si tratta in genere di una curiosità futile, in cui si mescolano desiderio di sperimentazione

e distrazione. Si consuma un po’ di religione senza aderirvi davvero, e persino con un certo

senso di distanza. Avendo tutti gli attori sociali interiorizzato il modello del mercato, in

definitiva dalla religione ci si aspetta quel che ci si attende da una cura o da una terapia: un

conforto interiore, un maggiore benessere. Gesù diventa un maestro di saggezza a fianco di

Socrate, del Buddha o di Maometto. Più che della verità, ci si preoccupa della “sincerità” o

della “autenticità”. Non ci sono più né ortodossia né ortoprassi: ciascuno si arrangia sia con il

dogma sia con la pratica. I cattolici hanno smesso di credere che, non andando a messa tutte

le domeniche, cessavano di essere dei buoni cristiani. Il concetto di «colpa grave», di

«peccato mortale», ha perso quasi ogni credibilità. Molti credenti ragionano alla maniera di

Brigitte Bardot, che qualche tempo fa ha dichiarato: «Ai preti non credo troppo. La mia

religione è Dio e me. Non mi piacciono gli intermediari».

La molla principale della credenza non è più l’aldilà, bensì l’identificazione di sé quaggiù.

«L’altro mondo viene messo al servizio di questo mondo», dice Gauchet. Ciò significa che la

stessa religione ormai ha a che fare con una metafisica della soggettività, con una semplice

preoccupazione di costruzione di se stesse nell’aldiqua. «La legittimità è scivolata dall’offerta

di senso verso la richiesta di senso», aggiunge Gauchet. «Misuriamo la rivoluzione intima

che ciò implica dal punto di vista dell’essenza della religione. Chi dice religione diceva da

sempre precedenza di quel che viene da prima e da più in alto […] Ebbene, ciò che oggi

determina le coscienze a volgersi verso le religioni le giustifica, all’opposto, in nome di una

legittima domanda». E quanto a tale domanda, «il suo oggetto non è il vero ma il senso e,

per essere assolutamente precisi, non l’oggettività del vero ma la necessità oggettiva del senso

per una soggettività». Frasi essenziali, che permettono di misurare il cammino percorso.

Ieri, si veniva o si tornava frequentemente al cattolicesimo a causa della Chiesa, vale a dire

dell’istituzione (si vedano Maurras e Chateaubriand). Oggi, se ci si viene, è piuttosto senza di

essa, malgrado essa e talvolta al di fuori di essa. Un tempo la Chiesa canalizzava la credenza,

oggi non è raro che le faccia da ostacolo. È ancora una volta un effetto

dell’individualizzazione dei comportamenti. Stiamo assistendo a ciò che gli autori

anglosassoni riassumono con formule quali «belonging without believing» e «believing

without belonging», cioè ad uno scarto crescente tra la fede e l’appartenenza, i fedeli e la

Chiesa, la credenza vissuta e l’adesione all’istituzione. Le Chiese, di qualunque tendenza, non

hanno più autorità per determinare il contenuto della fede, ancora meno per orientare le

scelte politiche o regolare i costumi.

La convinzione non è più sinonimo di obbligo: il credere non implica più l’obbedire. Di

conseguenza, è del tutto naturale che le coscienze individuali siano meno che mai disposte ad

obbedire al magistero. L’idea che esista a monte un’autorità antecedente che vale come

autorità proprio a cagione della sua preesistenza non trova più alcuna eco nelle menti. (Ci si

interessa, certo, al passato, ma ritenendo che non vi sia nulla che debba esserci ingiunto o

dettato). È la ragione per cui, anche fra i credenti, l’idea che il comportamento individuale

possa essere guidato, in ciò che ha di più intimo, da un’autorità esterna, sia quella della

Chiesa o quella dello Stato, urta contro una resistenza sempre più generale. Il distacco

derivante da questo rifiuto è evidentemente destinato ad allargarsi tanto più quanto più la

società globale accetta o legittima un maggior numero di comportamenti o prassi (divorzio,

omosessualità, nascite fuori dal matrimonio, manipolazioni genetiche, ecc.) che la Chiesa ha

sin qui sempre condannato. Il risultato è che la Chiesa inevitabilmente apparirà sempre più

“reazionaria”, quali che possano essere le sue posizioni per altri versi, ma soprattutto sempre

più impotente.

Dall’ateismo militante all’indifferenza

Altrettanto rivelatore è l’esaurimento, se non il crollo, delle critiche del cristianesimo. Queste

critiche oggi provengono unicamente da ambienti anch’essi in via di sparizione.

L’anticlericalismo è ormai un fenomeno residuale, e il tono invecchiato delle pubblicazioni

razionaliste che professano ancora un virulento “laicismo” dimostra che, anche in questo

campo, si scorge ormai la coda della cometa. Ciò non significa che la Chiesa l’abbia avuta

vinta sui suoi avversari, tutt’altro, ma semplicemente che la controversia non interessa più

nessuno, poiché nessuno ne coglie la posta. I fedeli sono diventati incerti nella loro fede, la

Chiesa viene rispettata senza essere seguita. Poche persone sono veramente contro il papa, ma

non c’è quasi nessuno che gli obbedisca. In queste condizioni, l’anticristianesimo perde la

sostanza del suo significato. L’ateismo militante è stato sostituito dall’indifferenza. Quando

appariva come il partito dell’eteronomia, il partito dell’antimodernità radicale dell’epoca del

Syllabus (1864) e dell’infallibilità pontificia (1870), la Chiesa si trovava di fronte degli

avversari a sua misura. Oggi che l’elemento religioso ha perso una parte della sua forza e

cambiato status, il politico non si sente più tenuto ad opporgli con altrettanto rigore un ideale

di autonomia umano. «I rivali di ieri», constata Marcel Gauchet, «hanno simmetricamente

rivisto al ribasso le loro pretese. La Chiesa cattolica ha elaborato il lutto della sua egemonia

normativa di un tempo. Lo Stato repubblicano ha rinunciato a porsi in alternativa alla

religione. La credenza non si concepisce più se non all’interno di un campo diversificato di

opinioni». Il mondo postmoderno, si potrebbe dire, ha buone probabilità di non essere né

cristiano né anticristiano, ma semplicemente acristiano o postcristiano.

Non ci si deve quindi aspettare la “fine” del cristianesimo nel senso in cui si è potuto credere,

in passato, che la metafisica o la religione rappresentasse uno stadio in via di superamento

nell’evoluzione delle società umane. L’idea di Auguste Comte secondo la quale lo spirito

doveva progredire dall’età religiosa a quella scientifica e “positiva”, quella di Karl Marx

secondo cui la religione era destinata a scomparire, in quanto sovrastruttura dispensatrice di

illusioni consolatorie, all’interno di un’umanità che avrebbe infine ritrovato il proprio essere,

non sono oggi più credibili. L’aspirazione religiosa è un dato antropologico. Questo dato

può assumere forme diverse, ma non scompare mai completamente. Quel che si può

constatare, invece, è una sorta di esaurimento, di compimento, e anche di “banalizzazione”,

della fede cristiana. Paradossalmente, questa “cristianizzazione” non ha niente a che vedere

con il cristianesimo (e a maggior ragione con gli attuali orientamenti della Chiesa). Né è la

conseguenza, tutto sommato logica, di una situazione in cui l’insegnamento della Chiesa sia

stato definitivamente confutato o giudicato falso. Essa rappresenta piuttosto un aspetto fra gli

altri di un vasto moto di generale disgregazione delle convinzioni e delle credenze collettive.

(E per questo anche degli avversari del cristianesimo possono deplorare non la

cristianizzazione ma le trasformazioni che l’hanno generata). Sino a quando la si è attaccata

in modo risoluto e argomentato, la Chiesa ha saputo assai bene resistere e sopravvivere.

Crolla oggi perché non mobilità più, né a suo favore né contro di sé. L’epoca dei “grandi

racconti” è passata.

Compimento, tuttavia, significa contemporaneamente la fine (la fase finale) e lo stadio più

avanzato (la completezza) . In questo senso si può dire che il cristianesimo ha “fatto il suo

tempo”, nel duplice significato dell’espressione. Ciò significa, da una parte, che la fede

cristiana ha oggi completato il suo ciclo storico, ma anche che, se il cristianesimo è destinato

a “scomparire”, lo si deve prima di tutto al fatto che ha avuto successo. Marcel Gauchet, che

ha notato questo fenomeno, ha descritto il cristianesimo come la «religione dell’uscita dalla

religione» – vale a dire come una religione che portava dentro di sé i germi della propria

negatività, e dunque della propria dissoluzione.

Il cristianesimo ha prodotto tutto ciò che poteva produrre, comprese, attraverso il processo di

secolarizzazione, le forme sociali e politiche o le dottrine ideologiche che ne hanno

contestato l’autorità sulla base (“eretica”) della sua stessa ispirazione. Sarebbe in effetti un

errore interpretare la secolarizzazione esclusivamente come una sottrazione progressiva della

sfera pubblica all’influenza della religione. La secolarizzazione corrisponde sì a

un’emancipazione nei confronti della Chiesa, al passaggio dall’universo della relativa

eteronomia a quello della relativa autonomia, ma tramite una ritrasposizione nella sfera

profana di alcuni temi di origine religiosa (“giustizia” nel senso biblico del termine, potere

politico concepito sul modello del potere divino, attesa escatologica di un futuro “radioso”,

militantismo di tipo “sacerdotale” o “apostolico” e così via). Lo stesso René Rémond, per

limitarsi a citare un solo esempio, osserva che «la Dichiarazione universale dei diritti

dell’uomo del 1948 costituisce una versione secolarizzata dei principi che il cristianesimo ha

contribuito a introdurre o legittimare». Il dato generatore delle società moderne non è

dunque tanto l’abbandono della prospettiva cristiana, quanto piuttosto la sua ritrasposizione

profana – inaccettabile, beninteso, dal punto di vista cristiano tradizionale – sotto forma di

tutta una serie di “grandi racconti” nei quali la “felicità” ha rimpiazzato la salvezza e il futuro

si sostituisce all’aldilà. Per dirlo in altri termini, la secolarizzazione è il passaggio dalla

credenza religiosa alla credenza politica senza abbandonare l’ambito della credenza. Scrive

ancora Marcel Gauchet: «Uscita dalla religione non significa uscita dalla credenza religiosa,

ma uscita da un mondo in cui la religione è strutturante, in cui essa guida la forma politica

delle società e definisce l’economia del legame sociale […] L’uscita dalla religione è il

passaggio ad un mondo in cui le religioni continuano ad esistere, ma all’interno di una forma

politica e di un ordine collettivo che non determinano più». Si potrebbe dire, da questo

punto di vista, che la Chiesa non è stata più in grado di imporre i suoi punti di vista nel

momento in cui la modernità si concludeva, non perché aveva fallito nella trasmissione dei

suoi valori, ma al contrario perché era riuscita a diffonderli dappertutto, in un mondo che

poteva ormai farvi riferimento senza di essa, o addirittura contro di essa. Si potrebbe allora,

paradossalmente, parlare di un mondo interamente “cristianizzato” pur essendo sempre più

indifferente al cristianesimo e sempre meno abitato da cristiani.

La religione non può più avere ambizioni politiche

Al giorno d’oggi siamo usciti non solo dall’epoca delle società religiose, ma anche dall’epoca

delle religioni secolari che ne avevano raccolto il testimone esigendo dai loro “fedeli”

atteggiamenti mentali e comportamenti in fondo poco diversi da quelli che la Chiesa esigeva

dai propri. Il momento postmoderno, sostiene Marcel Gauchet, è quello della completa

dissociazione tra la credenza religiosa e la credenza politica. Egli intende con ciò dire che la

religione non può più avere, quantomeno in Occidente, un’ambizione globale propriamente

politica nel momento in cui la politica, dal canto suo, si sbarazza a poco a poco del suo

carattere “religioso”. È questo momento, inedito nella storia degli uomini, che deve essere

preso in considerazione per comprendere e descrivere la situazione che la Chiesa conosce

attualmente.

C’è però ancora un altro aspetto del mondo postmoderno che bisogna chiamare in causa. È

quello che associa, in maniera anch’essa paradossale, l’individualizzazione sempre crescente

dei comportamenti a forme nuove di com’unitarismo, in particolare religioso. La

postmodernità ha visto costituirsi un mondo nel contempo più solidale e più destrutturato,

che si presume funzioni, ad immagine del mercato, attraverso una autoregolamentazione

spontanea. In questo mondo, scrive Danièle Hervieu-Léger, «si assiste a una fioritura di

gruppi, reti e comunità, al cui interno gli individui si scambiano e convalidano

reciprocamente le proprie esperienze spirituali». Questo sbocciare di comunità e di reti

mostra che anche l’era dell’individualismo trionfante, nei termini in cui lo ha consacrato la

modernità nella sua fase finale, sta concludendosi. Più che di individualismo, è quindi

opportuno parlare di individualizzazione. Questa si traduce, fra l’altro, in un dato

fondamentale: non soltanto le appartenenze associative, transitorie, fanno oggi altrettanto

parte del processo di costruzione dell’Io quanto le appartenenze ereditate, ma queste ultime

sono a loro volta diventate, almeno in parte, identità scelte, nel senso che non si impongono

più di per sé ma diventano realmente effettive, agenti, esclusivamente nella misura in cui gli

individui acconsentono a, o decidono di, considerarle come tali e di riconoscervisi.

Che differenza c’è tra il Gay Pride e le GMG?

Dal punto di vista postmoderno, non c’è una differenza formale fondamentale tra la fioritura

delle sette, le Giornate mondiali della gioventù, il Gay Pride, la Love Parade, le folle radunate

negli stadi o in occasione delle esequie di Lady Di e di Giovanni Paolo II. In tutti i casi regna

la medesima comunione festiva, la stessa organicità spontanea: raduni puntuali o effimeri,

tracimazioni emotive (“dionisiache”), composizioni e ricomposizioni di reti. Non vi è dubbio

che la Chiesa cattolica ha tentato, sotto il pontificato di Giovanni Paolo II, di utilizzare a

proprio vantaggio questa forte ascesa delle comunità e delle reti sulle rovine degli Stati

nazionali e delle istituzioni classiche, ascesa che è uno dei segni più certi del concludersi della

modernità. La moltiplicazione dei grandi raduni sul tipo delle GMG, l’incoraggiamento dato

ai gruppi carismatici, gli appelli lanciati dal papa ai credenti al di là delle strutture tradizionali

(come le conferenze episcopali) sono, da questo punto di vista, significativi.

In parallelo, la Chiesa cerca anche di beneficiare del nuovo sboccio delle rivendicazioni

identitarie, e più in particolare del vasto movimento che mira ad ottenere il riconoscimento

nella sfera pubblica di tutta una serie di appartenenze (culturali, linguistiche, regionali,

etniche, religiose, sessuali e così via) che, nell’epoca della modernità, vedevano riconosciuta

la propria legittimità unicamente nella sfera privata. Questo movimento per il

“riconoscimento”, che assume oggi le forme più svariate, attira ovviamente l’attenzione degli

ambienti religiosi, e in particolare quella della Chiesa di Roma. Sulla base di una

rivendicazione dell’«identità cattolica», essa può sperare di riprendere piede nella sfera

pubblica, di ridiventare una componente a pieno titolo di quella sfera da cui il principio di

laicità l’aveva esclusa. In questa ottica va interpretata l’insistenza del Vaticano sul tema della

“libertà religiosa”. Contrariamente a ciò che affermano i tradizionalisti, questa insistenza non

finisce affatto con il ridimensionare le verità della fede cattolica rispetto alle altre religioni.

Essa esprime invece la volontà della Chiesa di creare a proprio vantaggio uno spazio che per

definizione si sottrae al potere dello Stato ma che, nel contempo, può essere utilizzato come

una base a partire dalla quale le sarà nuovamente possibile svolgere un ruolo nella sfera

pubblica, cessando in tal mondo di limitarsi ad attestare la verità divina unicamente nella

sfera privata.

Il concetto di laicità ha già conosciuto un’evoluzione considerevole da dieci o quindici anni a

questa parte, evoluzione che ne ha modificato il senso e il contenuto. Alla separazione di un

tempo tra le Chiese e lo Stato, specialmente marcata nei paesi latini e di tradizione cattolica,

tende a sostituirsi una forma di collaborazione inedita: il riconoscimento dei rappresentanti

delle grandi religioni come altrettante “autorità morali” alle quali i pubblici poteri non esitano

più a fare appello. Vescovi o preti, imam e rabbini vengono così abitualmente ascoltati o

consultati dai poteri pubblici, nella maggior parte dei casi in collegamento con la creazione di

«comitati di etica» incaricati di riflettere su alcuni “fatti sociali” o su problemi nuovi, come le

biotecnologie e le manipolazioni genetiche. Non si tratta tanto di una “deprivatizzazione”,

quanto piuttosto di una “pubblicizzazione del privato”. Un dialogo di questo tipo significa

implicitamente, per i poteri pubblici, tenere in conto identità religiose che, dal canto loro, con

ogni evidenza desiderano essere pubblicamente riconosciute. Ma chi ci guadagna? Agendo in

questo modo, i politici dimostrano soprattutto di sapersi porre “in ascolto della società civile”,

di accettare di prendere in considerazione le opinioni private. Nel contempo, essi

neutralizzano le Chiese – che, per giunta, pongono tutte necessariamente su un piede di parità

–, dato che questo nuovo atteggiamento non giunge (e non può giungere) sino al punto di

ammettere che una qualunque legge morale o “naturale” possa prevalere sulla legge civile e

positiva. Attraverso questo riconoscimento, che è innegabilmente il frutto di un tipo di

rapporto nuovo fra la sfera pubblica e la sfera privata ma cambia poco nella sostanza, la

classe politica paradossalmente finisce col ricondurre le Chiese a un orizzonte meramente

secolare, pur concedendo apparentemente un diritto alla loro identità religiosa.

Contrariamente alla predizione attribuita ad André Malraux, non vi è in Occidente un

«ritorno dell’elemento religioso» all’orizzonte, ma soltanto un mantenimento del dato

religioso in forme che privano le grandi religioni di tutte le possibilità di influenza globale

che hanno fatto la loro forza in passato. L’ascesa degli “integralismi” non contraddice, ma

conferma questa situazione generale: è la diffusione crescente dell’indifferentismo religioso a

condurre piccole minoranze a riaffermare in maniera dogmatica o convulsa quella che a loro

pare essere la sostanza della loro fede. Si vedono le Chiese riapparire sulla scena pubblica, ma

questa visibilità sociale ritrovata non è l’indizio di una rinnovata potenza spirituale. «Quel

che riporta le religioni sul proscenio, per quanto singolare ciò possa apparire, è proprio il

loro arretramento», arriva a sostenere Marcel Gauchet, cosicché «potremmo benissimo

vedere le religioni contribuire all’avvento di un mondo agli antipodi del mondo religioso».

 

NOTE

René Rémond, Le christianisme en accusation, Desclée de Brouwer, Paris 2000, pag. 87.

Stiamo qui parlando dell’applicazione di questo principio in Europa. Negli Stati Uniti, lo Stato non è

affatto estraneo alla “religione civile”, si limita a tenersi ad eguale distanza dalle specifiche confessioni e

denominazioni.

Marcel Gauchet, Croyances religieuses, croyances politiques, in «Le Débat», maggio-agosto 2000, pag.

8.

Ibidem, pag. 9.

Marcel Gauchet, La religion dans la démocratie. Parcours de laïcité, Gallimard, Paris 1998, pag. 78.

Non si vedono più oggi, salvo rare eccezioni (in Francia Didier Lecoin, Vincent Reyre, Maurice Dantec)

personalità note convertirsi al cristianesimo, come accadde non così tanto tempo fa a un Jacques Maritain o

a un Ernest Psichari. Né si trova più, perlomeno in Francia, l’equivalente di un Bernanos, di un Claudel,

di una Simone Weil, di un Gabriel Marcel, di un Emmanuel Mounier. Gustave Thibon è morto alcuni anni

fa. La celebrazione del quindicesimo centinario del battessimo di Clodoveo ha dato vita a un dibattito

politico, non a un dibattito religioso. Viceversa, si vedono talune personalità convertirsi al buddismo o

all’islam.

In «Madame-Figaro», 20 novembre 1999, pag. 62.

Marcel Gauchet, La religion dans la démocratie, cit., pagg. 107-108.

Ibidem, pag. 108.

Cfr. Gracie Davie, Believing without Belonging. A Liverpool Case-Study, in «Archives de sciences

sociales des religions», gennaio-marzo 1993, pagg. 79-89.

Marcel Gauchet, La religion dans la démocratie, cit., pag. 72.

Ibidem, pag. 140.

Ibidem, pag. 11.

Danièle Hervieu-Léger, Le pélerin et le converti. La religion en mouvement, Flammarion, Paris 1999,

pag. 25. Cfr. Anche Grace Davie e Danièle Hervieu-Léger, Identités religieuses en Europe, La

Découverte, Paris 1996.

Come è noto, la Francia si è dotata di una legislazione particolarmente severa contro le sette. Numerosi

osservatori hanno notato che, tenuto conto dei criteri di “pericolosità” stabiliti, soprattutto per quanto

concerne l’alienazione dei beni o lo sfruttamento degli altri, questa legislazione potrebbe essere benissimo

utilizzata per chiudere monasteri e conventi, o addirittura per proibire il battesimo e i sacramenti

amministrati ai bambini. Cfr. Émile Poulat, Sociologues et sociologie devant le phénomène sectaire, in

«La Pensée», ottobre-dicembre 1998, pagg. 93-106.

Marcel Gauchet, La religion dans la démocratie, cit., pag. 28.

Ibidem, pag. 29.