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L’uomauto. Per una critica della società automobilistica (recensione)

di Giancarlo Terzano - 03/12/2006

L’uomauto. Per una critica della società automobilistica

di Bernard Charbonneau (a cura di Giuseppe Giaccio), Settimo Sigillo, 2005, pp. 121, € 12

 

 

Prometeo ha spezzato le catene che lo tenevano legato al Caucaso originario, è evaso in auto; e ora ci resta, è la sua nuova prigione”. Non è la prima volta che l’uomo, nello scopo di liberarsi, finisce per assoggettarsi ad una nuova servitù. Un’eterogenesi dei fini realizzatasi anche nel caso dell’automobile: nata per soddisfare una ricerca di libertà, l’auto è diventata sempre più invadente, occupa il tempo e lo spazio, la nostra vita ed i nostri sogni, fino a diventare l’essenza della nostra civiltà, la civiltà dell’auto, con un nuovo tipo di abitante, l’uomauto, l’uomo trasportato dal mezzo.

Pubblicato nel 1967 e solo ora stampato anche in Italia grazie alla traduzione di Giuseppe Giaccio, l’Uomauto è una denuncia contro la società dell’automobile, in cui Charbonneau mette in evidenza, spesso con piacevole ironia, i paradossi del nostro rapporto con le vetture.

All’inizio, c’è la voglia di libertà. Dopo millenni di attaccamento al suolo, quando “al posto delle ruote l’uomo aveva delle radici” e, da contadino, “faceva parte del paesaggio, non andava a vederlo”, la voglia di conoscere, di cambiare, lo porteranno a cercare soluzioni per muoversi sempre più velocemente e in ogni direzione. Il modello di libertà massima è lo Spirito Santo, che va dove vuole, ma anziché avere il carro degli Dei, l’uomo si dovrà accontentare di un prodotto della libertà borghese, venduto a rate ai cittadini-consumatori.

L’impatto dell’auto è enorme. “Si crede di fabbricare automobili, si fabbrica una società”. E l’auto, in vero, trasforma la nostra esistenza e il nostro immaginario.

Cambia il nostro ambiente, i panorami, le campagne. Non più distese di campi e boschi, ma strade, svincoli, parcheggi, cartelloni; meno terre e più asfalto e cemento; sempre meno curve e alberi, e lunghe righe diritte, libere da ostacoli. Dai finestrini si vede il paesaggio, ma è un paesaggio sempre più fatto dall’auto!

Cambiano le nostre città, non più costruite per i pedoni, gli incontri e il vivere insieme, ma per passaggi veloci, per “circolare”. La piazza, un tempo agorà dove nascevano le opinioni, diventa parcheggio o ingorgo, dove ci si scambia insulti dai finestrini. La città si allunga, con immense periferie che allontanano gli abitanti dalla vita dell’urbe. Ci consente di andar a vivere in campagna (non per amore per la campagna, ma per fuggire la città), ed ogni giorno di rinnovare il gioco dell’ingorgo.

  E cambia la società umana. La tecnica, ricorda Charbonneau, determina l’economico, che a sua volta determina la politica ed il sociale. Così l’auto è conservatrice quanto rivoluzionaria, “imborghesisce gli individui, sconvolgendo al contempo la società”. Lavoro, tempo libero, economia, sono impostati sull’uso dell’automobile. Come anche l’immaginario degli uomini, il desiderio di libertà, l’identità sociale (“chi cambia classe cambia auto”).

L’uomo diventa uomauto, una piccola appendice umana dell’automobile, sempre più assecondato, anche culturalmente, all’organizzazione che la macchina pretende.

 

Non sfuggono a Charbonneau le valenze addomesticanti dell’auto. Nella società dei consumi il possesso dei beni copre il vuoto di valori e l’alienazione, e l’auto, che promette libertà, ebbrezza della velocità, superamento dei limiti umani, è forse l’oggetto che meglio si presta a questo scopo. Così, “l’auto è per l’individuo un mezzo di sfogo tanto quanto di trasporto; essa permette alle categorie particolarmente vessate dal sistema industriale, in particolare agli operai e ai giovani, di appagare un bisogno di esprimersi e di agire che non può più essere soddisfatto nel lavoro”. Questo bisogno di sfogo ha il suo momento culminante nel rituale del week-end, quando tutti prendono la loro auto e abbandonano la città, la vita di sempre, in cerca di un qualsiasi altro luogo, nell’illusione della felicità. Il grande esodo del week end è così il rito della civiltà automobilistica, la grande festa dei poveri, che come tutte le feste vuole lo spreco (di ricchezze e di vite, proprio come quell’antica festa crudele che è la guerra) ma soprattutto serve a confermare l’ordine. Un momento di apparente follia indispensabile per far accettare il grigiore della quotidianità: “abbrutito dal suo week end, lo schiavo è di nuovo maturo per la catena. Se non ci fosse l’auto, gli uomini forse si annoierebbero, farebbero la Rivoluzione o la guerra”. In nostro pensiero non può non correre ai giovani e ai loro sabato sera, ma anche al turismo di massa, alle droghe, agli stadi, a tutti quei fenomeni di finta evasione che il sistema tollera e spesso promuove perché rendono più sopportabili le sbarre della quotidianità.

Ma c’è un momento in cui l’automobile restituisce il palcoscenico all’uomo: è il momento della morte, quando le lamiere contorte rivelano che in quella vettura prima sfrecciante c’era un essere umano. E’ altissimo il contributo di vite e di sangue che l’automobile richiede: ogni anno, circa 250.000 persone muoiono per incidenti stradali, ed oltre 10.000.000 sono i feriti. Numeri da guerra (e, come in guerra, le vittime preferite sono i giovani) che però non hanno un colpevole: “l’auto non uccide, è un incidente, un evento aberrante che non si riprodurrà mai, e che può capitare solo agli altri”.

Uno stillicidio cui la società dell’automobile da’ poco rilievo, in quanto si consuma ogni giorno, e ciò, invece di inquietare, diventa motivo di banalizzazione: “basta che un fatto diventi quotidiano per farlo sparire dalla coscienza”. Così, la morte di migliaia di persone sulle strade non scatena le reazioni di un incidente ferroviario o aereo, né determina una riflessione profonda sull’uso del mezzo automobilistico.

 

Come tanti altri strumenti, anche l’automobile “per un compito ingrato da cui ci libera, ne inventa mille altri”. Charbonneau non propone la sua radicale eliminazione (il “ritorno alle candele” con cui viene spesso liquidato chi critica gli eccessi della modernità), ma più semplicemente un suo accorto utilizzo: fuori dell’idolatria del mezzo, bisogna capire che “l’auto non è la libertà: quest’ultima è in noi”, è soltanto un mezzo di trasporto, semmai più potente e più pericoloso, insomma “bisogna che il soggetto prevalga di fronte all’oggetto”. Una soluzione scontata, anche banale, che però, incredibilmente, ancora oggi fatica a farsi strada. In realtà, nota Charbonneau, a prevalere sono ancora un presunto realismo (secondo il quale l’auto è necessaria, punto e basta) ma anche un “idealismo automobilistico” (del tipo: “l’uomo è sempre l’uomo, non son mica le macchine a comandarci!”) che nei fatti portano al rifiuto stesso di pensare ad un problema automobile.

Charbonneau scriveva nel 1967, quando l’automobile cominciava a dilagare in Europa. Alcune delle sue proposte, sono oggi (almeno parzialmente) diventate realtà, come la chiusura alle auto dei centri storici; altre, come il proteggere anche le campagne, o la riduzione della pericolosità dell’auto, fanno fatica ad affermarsi. In realtà, il modello automobilistico continua ad esser dominante, nell’organizzazione sociale ed economica, come nella dipendenza culturale, anche grazie alle campagne pubblicitarie, che la caricano di valenze simboliche, che vanno oltre il semplice impiego di un mezzo.

Per recuperare la nostra libertà, per essere guidatori e non guidati, occorre sapersene distaccare. Accogliamo l’invito di Charbonneau: “Come nel primo giorno, spetta all’uomo fare l’essenziale del percorso, servendosi dei suoi muscoli e delle sue meningi. Siamo arrivati. Fermiamoci. La notte esplode, e l’immensità. Apriamo la portiera, e nasciamo al nostro corpo: camminiamo. Non si penetra a cavallo nella propria casa”.