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Il terzo incomodo: il ruolo della NATO tra la Russia e l’Europa

di Stefano Vernole - 04/12/2006

 

Prefazione

I prossimi anni saranno quelli decisivi per la partita che si sta attualmente giocando sullo scacchiere mondiale.
Assisteremo perciò al tentativo degli Stati Uniti d’America di mettere l’una contro l’altra Russia ed Unione Europea, alfine di danneggiarne le strategiche relazioni politico-economiche e mantenere così l’intero continente eurasiatico in una situazione di profonda instabilità.
La seconda mossa di Washington sarà quella di recuperare le forze militari europee alla sua strategia di espansionismo imperialista in Medio Oriente ed Asia Centrale, dove il controllo di Iraq ed Afghanistan si fa ogni giorno più problematico per l’esercito a stelle e strisce.
In vista anche di un possibile nuovo fronte bellico che potrebbe presto riaprirsi in Libano o Palestina e soprattutto in seguito ad un attacco contro Siria ed Iran.


Cap. 1: La nuova NATO
A partire dal 1999 si è configurata chiaramente l’espansione della “nuova NATO”, che va dal Mar Baltico al Mar Nero, fino ai confini della Federazione Russa, condizionando peraltro le frontiere della stessa Unione Europea.
Ma, mentre lo scopo dell’allargamento dell’UE è l’occidentalizzazione in chiave continentale dell’Europa Orientale, quello dell’Alleanza Atlantica riflette una visione geopolitica statunitense di dimensioni globali.
In particolare, tale operazione ha come obiettivo principale di impedire che la Russia mantenga o recuperi qualche forma di controllo sulle sue antiche periferie imperiali, i paesi dell’ex Unione Sovietica.
Dalla prima espansione del 1999 - che ha riguardato Polonia, Repubblica Ceca e Ungheria – a quella del marzo 2004 – Estonia, Lettonia e Lituania – che ha sbarrato la frontiera baltica; Slovacchia, che ha completato la chiusura dell’Europa centrale; Slovenia e soprattutto Bulgaria e Romania, che hanno sigillato la frontiera occidentale del Mar Nero, estendendo il controllo della NATO dalla Georgia al delta del Danubio.
Precedentemente, Washington aveva formato su base bilaterale un’alleanza militare, la cosiddetta USA Adriatic Charter – una sorta di pre-NATO integrata alla nuova Alleanza Atlantica – modulata sulla Partnership for peace della NATO.
Questa coalizione riunisce Croazia, Albania e Macedonia, che svolgono insieme agli Stati Uniti esercitazioni aeronavali sulle coste adriatiche(1).
Tale forza tattica integrata può proiettarsi fino al Mar Nero, affiancando la gemella Black Sea Force, comprendente Romania, Bulgaria, Turchia e Georgia.
Di più: il partenariato dell’Adriatic Charter permette di collegare simultaneamente via terra, attraverso i raccordi Tirana-Skopje-Sofia, l’Adriatico, l’Egeo (via Salonicco) e il Mar Nero.
Questa configurazione strategica sembra curiosamente lasciare un vuoto al centro: Bosnia-Erzegovina (Republika Srpska) e Serbia (Kosovo-Metohija compreso), paesi per ora ritenuti inaffidabili a causa della questione serba.
Belgrado viene infatti ancora considerata l’ultima referente di Mosca nella regione, anche in virtù degli accordi verbali raggiunti dal premier Kostunica per la cooperazione in campo energetico tra Serbia e Russia(2).
Il baricentro della nuova Alleanza Atlantica è invece a Sofia, dove si stanno installando le infrastrutture di comando e di intelligence di una nuova grande base statunitense, destinate a monitorare la regione balcanica e caspico-caucasica con una strumentazione supersofisticata.
Il suo scopo prioritario è quello di esercitare una pressione preventiva su un nucleo di nazioni “amiche” date per acquisite (Georgia, Moldavia e Azerbaigian, mentre l’ Uzbekistan che completava il dispositivo GUUAM sembra ormai recuperato a Mosca) o potenziali (Ucraina, Armenia, Kazakistan), da sottrarre definitivamente a qualsiasi influenza russa.
Questa configurazione strategica è figlia delle concezioni geopolitiche di Zbigniew Brzezinski, teorizzate ad esempio nella sua “Grande scacchiera”, dove egli evocava i “Balcani eurasiatici” che includono parte dell’Europa del Sud-Est, l’Asia centrale e meridionale, il Golfo ed il Medio Oriente.
La dinamica espansionista è stata poi accelerata dall’11 settembre 2001 negli Stati Uniti e dall’11 marzo 2004 in Spagna, che hanno convinto anche i più riluttanti fra i governi europei a delegare compiti di sicurezza regionale alla NATO.
Al vertice atlantico del giugno 2004 ad Istanbul i doveri della NATO sono stati chiariti nell’ottica statunitense, che designa il Caucaso e l’Asia centrale come “regioni di importanza strategica” e vede nel Grande Medio Oriente e nel Mediterraneo aree di stretta collaborazione e di “lotta al terrorismo”.
Di qui la pressante richiesta statunitense di coinvolgere per quanto possibile la NATO in Afghanistan e in Iraq, mentre se in Bosnia e Kosovo il compito è stato gradualmente lasciato nelle mani degli europei, Washington ha però mantenuto il controllo diretto delle basi e postazioni dell’Alleanza Atlantica (pagate dall’Unione Europea, come nel caso del quartier generale di Butmir a Sarajevo).
Le aree di influenza strategica contese ai Russi sono anzitutto la Transnistria (Moldova), confine diretto della NATO (Romania), e l’Ucraina meridionale con la Crimea, roccaforte dell’influenza di Mosca.
La proiezione immediata è comunque focalizzata sul Caucaso, dove la Georgia (la NATO ne sostiene il totale recupero dell’integrità territoriale) viene considerata la leva con cui scardinare progressivamente le posizioni che Mosca mantiene aldilà delle sue frontiere, in Abkhazia e nell’ Ossezia meridionale.
La dinamica della NATO nei Balcani e della sua proiezione georgiana, sull’asse Sofia-Tblisi, tende a prosciugare l’influenza della Russia sui suoi mari interni, sottraendole così territori strategici e di controllo degli sbocchi energetici verso l’Occidente.
Nella strategia antirussa di Washington non è importante tanto contrapporsi a Mosca, quanto farle il vuoto intorno, per accrescere il controllo delle risorse del Mar Caspio, dove le compagnie nordamericane possiedono già il 16% delle riserve petrolifere e circa l’11% di quelle di gas.
Da poco è stato inaugurato l’oleodotto costruito in territorio georgiano - Baku-Tblisi-Ceyhan (BTC) – che ha una capacità di trasporto di 50 milioni di tonnellate annue, sponsorizzato e sostenuto dagli Stati Uniti e dalle majors occidentali; esso permette di mettere sul mercato il petrolio azero, via Turchia, senza passare dal territorio e dai terminali russi.
In generale, l’intera configurazione della “NATO dell’Est”, dal Baltico ai Balcani, mette in difficoltà il sistema di commercializzazione del petrolio russo o commercializzato dai Russi, che dovrebbero far transitare le loro esportazioni all’interno di un corridoio energetico “protetto” dalle basi statunitensi e monitorato dalle strutture della Black Sea Force e della Caspian Guard.
Questo corridoio confluisce obbligatoriamente in una sorta di imbuto energetico sulla costa occidentale del Mar Nero controllata dalla NATO ed offre infrastrutture e logistiche petrolifere a Costanza e Burgas ma in mani nordamericane.
Sullo specifico versante del gas naturale le cose vanno molto meglio per Mosca; a parte la condotta transbaltica che rifornirà direttamente Germania, Olanda e Gran Bretagna, anche l’operazione Blue Strema – il gasdotto sottomarino che approvvigiona la Turchia attraverso il Mar Nero - sfugge all’imbuto antirusso.
Insieme ad altri accordi economici con Ankara, queste operazioni di diffusione del gas stanno creando una comunità di interessi turco-russi, cui partecipa anche l’Iran come ulteriore fornitore via Turchia e la Grecia come superdistributore affacciato sul Mediterraneo (anche per compensare l’Italia).
Le contromisure russe hanno avuto come premessa il tentativo di dividere il campo europeo, consentendo il passaggio di militari francesi e tedeschi sul proprio territorio verso l’Afghanistan e potenziando la propria base aerea in Tagikistan, ma soprattutto lanciando una propria strategia centroasiatica contro il terrorismo imperniata sul centro regionale di Tashkent, divenuto quasi un contraltare dell’omologo centro di Sofia a guida statunitense.
Il diritto che Mosca si è assunta di colpire senza preavviso i gruppi terroristici che provengono dalle valle del Pankisi o dalle gole di Kodori, configura l’intenzione di dissuadere la penetrazione nordamericana lungo i percorsi di connessione transcaucasica ritenuti decisivi.
Infatti, nella sua ultima visita a Tiblisi, il segretario generale della NATO, Jaap de Hoop Scheffer, ha voluto riaffermare l’impegno di garantire l’inviolabilità territoriale della Georgia, che riveste un importante ruolo di collegamento con la catena atlantica che va dal Baltico ai Balcani.
Vilnius sarà il tutor della Georgia per il suo percorso verso la NATO; la Lituania ha anche il compito di guidarla all’interno di un gruppo 3+3 (i tre paesi baltici più Georgia, Azerbaigian ed Armenia), per una strategia di ancoraggio generale di tutto il Caucaso meridionale all’Alleanza occidentale.
La risposta di Putin è stata qui la creazione del Sistema Baltico di Oleodotti (BPS), che riduce drasticamente la dipendenza da Lituania, Lettonia e Polonia.
Il Baltico è la maggiore rotta russa per l’esportazione del petrolio che va dalla Siberia occidentale e dalle province petrolifere di Timan-Pechora fino al porto di Primorsk nel Golfo russo di Finlandia.
Il BPS è stato completato nel marzo 2006 e possiede una portata di circa 1,3 milioni di barili al giorno destinati ai mercati occidentali in Europa; nello stesso mese Gerhard Schroeder è stato nominato Presidente di un consorzio russo-tedesco incaricato di costruire un gasdotto sotto il Mar Baltico, della lunghezza di circa 1.200 chilometri.
Il maggior azionista di questo progetto per il Gasdotto Nord-Europeo (NEGP) è la Gazprom, con il 51%, mentre altre società tedesche possiedono quote di minoranza.
Quanto alla Romania, essa si pone come referente naturale e regionale del Mar Nero sia per la Georgia che per il retrostante Azerbaigian.
Un’intelligente mossa di Mosca sarebbe quella di presentarsi come grande mediatore nella questione del Nagorno-Karabakh, conteso da Azeri ed Armeni.
Così come tra India e Pakistan e tra le due Coree, le manovre di Washington sono sempre volte a fomentare i dissidi, perché solo accentuando le rivalità regionali gli Stati Uniti sono in grado di mantenere il controllo del continente eurasiatico.
Il ruolo della Russia e della Cina deve essere perciò quello di ricomporre le tensioni e proporsi quali garanti della pace in Eurasia.
Ricordandosi che il vero obiettivo dei cd. “terroristi”, manovrati dalla CIA, non è tanto la Cecenia quanto il Daghestan, per la costa strategica del Caspio che offre ai traffici dall’Asia centrale e per le sue risorse energetiche non trascurabili.
Anche in questo contesto la Turchia potrebbe dare una mano alla Russia, tenuto conto della sua forte influenza sulle popolazioni di origine turca e turcomanna, per i suoi rapporti geopolitico-culturali con il Turkmenistan e con l’Azerbaigian.
Paradossalmente, nella stessa NATO sta maturando una cultura strategica focalizzata sulle necessità regionali piuttosto che sulla visione globale cara a Washington.
I quadri europei storici che hanno pattugliato i Balcani in questi anni guardano al territorio e sono più preoccupati di stabilizzare la Bosnia e la Macedonia che di vigilare le frontiere russe, sono più interessati al destino del Kosmet che a quelli dell’Abkhazia e considerano l’entrata della Turchia nell’Unione Europea come un decisivo passo in avanti per la nascita di una vera forza di sicurezza continentale.
Questo sarebbe la migliore garanzia di un equilibrato rapporto di collaborazione con la Russia e gli stessi contrasti all’interno della NATO rischiano di vanificare il tentativo statunitense di esportare l’egemonia nordamericana nel cuore dell’Eurasia.


Cap. 2: “La rinascita russa”.

Dopo aver rischiato il fallimento totale sotto le presidenze di Gorbaciov e Eltsin(3), la Federazione russa ha recuperato buona parte della propria sovranità, a livello economico, politico e militare.
L’11 settembre 2001, le cui motivazioni occulte vanno ricercate anche nel tentativo di annullare la strategia eurasiatica di Vladimir Putin(4), ha solo momentaneamente frenato la rinascita della Russia e ridato fiato alla penetrazione statunitense in Medio Oriente ed Asia Centrale.
Il punto di non ritorno si è verificato dopo la “Rivoluzione arancione” in Ucraina e il possibile ingresso di questa nazione nella NATO, con la possibile perdita della base navale di Sebastopoli.
La fitta rete di accordi commerciali intessuta grazie alla strategia degli oleodotti petroliferi e dei gasdotti, ha consentito al Cremlino di recuperare un’accettabile influenza sul governo di Kiev e sventare quest’ipotesi catastrofica.
Le stesse manovre militari russo-cinesi, nell’estate del 2005, si configurano più come un avvertimento all’Unione Europea, cieca nella sua politica di allineamento alle direttive di Washington, che come un reale segnale agli Stati Uniti.
Gradatamente, alcuni gruppi economici europei hanno compreso il possibile disastro e hanno cercato di porre riparo a quella che potrebbe essere una rottura irreparabile per il futuro strategico del Vecchio Continente.
Gli accordi russo-tedeschi, simboleggiati dal progetto del gasdotto del Baltico che scavalca Polonia e Paesi Baltici, sono ora stati seguiti da quelli russo-italiani attraverso l’intesa ENI-Gazprom, che sancisce un’alleanza energetica trentennale tra Mosca e Roma.
Nonostante le pressioni statunitensi sulla classe politica italiana, il governo Prodi si è messo al riparo da qualsiasi inconveniente, specie dopo il memorandum firmato tra Gazprom, Lukoil e l’algerina Sonatrach, per iniziative congiunte sul mercato mondiale degli idrocarburi.
L’Italia riceve infatti il 70% del proprio fabbisogno di metano da Russia ed Algeria, che potrebbero far valere la loro posizione di monopolio in caso di dissidi politici.
Ad essi vanno aggiunti numerosi altri contratti firmati da Gazprom con paesi europei quali Spagna, Francia, Austria, Grecia, Olanda, Ungheria e Bulgaria, al punto che gli esperti economici della NATO hanno accusato la Russia di formare, insieme ad altre nazioni produttrici, un “cartello” che agirebbe da “padrone” nel mercato globale del gas naturale.
Protagonisti di questa “nuova Opec”, insieme a Mosca, sarebbero appunto l’Algeria, il Qatar, la Libia, l’Iran e alcuni Stati dell’Asia Centrale.
L’allarme lanciato dall’Alleanza Atlantica sulla falsariga delle accuse gridate pochi mesi prima dal vicepresidente degli Stati Uniti, Dick Cheney, ha lo scopo di fomentare l’opinione pubblica europea contro i progetti economici russi, ed ora è stato raccolto anche dal Primo Ministro georgiano, Zurab Nogaideli.
L’obiettivo della Georgia, spaventata oltremodo dall’intenzione della Russia di raddoppiare il prezzo del metano a Tiblisi portandolo dagli attuali 110 dollari per 1.000 metri cubi a 230 dollari, costringerà Nogaideli a stringere prima della fine del 2006 accordi per forniture energetiche con l’Azerbaijan, l’Iran e la Turchia, tre nazioni i cui rapporti con Mosca sono però abbastanza buoni.
Oltre all’assistenza per la sua centrale nucleare di Busher, Teheran ha comprato da Mosca 29 sistemi di difesa aerea “SA-15 Gauntlet”, per un valore di oltre 700 milioni di dollari e ha ricevuto la promessa di un rapido aggiornamento dei suoi aerei “Su-24” e “Mig-29” nonché dei vecchi carri armati “T72”(5).
Le forniture d’armi russe all’Iran hanno inoltre permesso il sostegno decisivo degli Ayatollah sciiti ad Hiz’bullah, durante la recente aggressione di Israele al Libano.
I migliorati rapporti con Ankara, hanno infine consentito di aumentare la cooperazione anche tra Russia ed Azerbaijan.
Nel solo 2006, Vladimir Putin ha incontrato il presidente azero Ilkham Aliyev quattro volte; la prima a febbraio durante la visita del capo del Cremlino a Baku, la seconda in giugno ad Alma Ata nel corso del secondo summit della Conferenza per l’interazione e le misure per la costruzione della concordia in Asia, mentre a luglio e a novembre i due hanno scambiato colloqui a Mosca, tesi a sviluppare i rapporti commerciali nel settore dell’energia elettrica, dei trasporti, della metallurgia non-ferrosa e della costruzione dei macchinari ma soprattutto per garantire il transito sul territorio russo del petrolio di Baku e l’invio di gas naturale dalla Russia all’Azerbaijan.
Gli Stati Uniti, furiosi anche perché la Russia ha saldato definitivamente e con un anno di anticipo il proprio debito estero(6), hanno quindi aumentato la propria pressione militare, allargando il raggio d’azione della NATO.
Il ministro della Difesa di Varsavia, Radek Sidorski, ha incontrato nel mese di novembre la sua controparte nordamericana Ronald Rumsfeld a Washington, con l’intenzione di favorire la costruzione di basi anti-missilistiche e strutture militari statunitensi tecnologicamente avanzate in Polonia e Repubblica ceca.
Intuendone lo scopo antirusso, già in ottobre il ministro della Difesa di Mosca, Sergei Ivanov, aveva dichiarato che una scelta di questo tipo potrebbe minare la sicurezza e la stabilità dei rapporti tra i due paesi, con l’adozione di decise rappresaglie da parte del Cremlino.
Il generale Yevgeny Buzinsky ha confermato che: “Il dispiegamento di batterie anti-missilistiche dell’Alleanza Atlantica vicino ai confini della Russia, sarebbe interpretata da Mosca come una minaccia reale per le sue forze di deterrenza e richiederebbe adeguate misure di carattere politico e rivalsa militare”(7).
In territorio ceco, nei pressi di Slavkov, è già stata avviata – grazie al finanziamento della NATO – la costruzione di un potente radar di ultima generazione, alto ben 25 metri.
Il progetto polacco-statunitense include invece un sistema di controllo radar molto evoluto con una base fissa e un’altra mobile situata su aerei radiocomandati, privi di equipaggio, in grado di monitorare e segnalare dall’alto tutti i movimenti sul terreno.
La NATO sta poi considerando la possibilità di erigere le sue basi in diverse zone della Polonia, fra le quali Powidz, nell’area occidentale della nazione.
Nell’incontro svoltosi a Vilnius lo scorso 6 novembre, il presidente polacco Jaroslav Kaczynski ha proposto una stretta collaborazione tra i tre Stati baltici e i quattro cd. “Stati di Visegrad”, Polonia, Ungheria, Repubblica ceca e Slovacchia, per perseguire cd. “interessi comuni” all’interno dell’Unione Europea e della NATO(8).
Kaczynski ha sottolineato come sia necessario dare ad Ucraina e Georgia più chiare prospettive nel loro futuro all’interno dell’Unione Europea, anche se l’accesso può apparire ancora molto lontano, specie al governo di Tiblisi che appare tagliato fuori dalle normali connessioni commerciali.
Durante l’incontro i presidenti hanno anche discusso circa i progetti di nuove infrastrutture, ed all’unanimità hanno affermato il loro supporto per la costruzione di un importante impianto nucleare in Lituania.
I lavori, che dovrebbero iniziare nel 2009 e terminare entro il 2015, contribuiranno al supporto energetico dell’intera regione baltica, con lo scopo di sfuggire alla dipendenza dalle forniture russe.
Mosca può comunque sfruttare alcune circostanze a lei favorevoli, quali una certa difficoltà governativa dell’esecutivo polacco guidato da Kaczinski, dovuta alla presenza in esso dei rappresentanti del movimento di “Autodifesa” (Somo Obrona).
Questi ultimi, non solo sono favorevoli a una politica di cooperazione e non di sfida verso la Russia, ma hanno duramente criticato le scelte di politica economica del governo di Varsavia, mettendo a rischio l’invio dei contingenti militari polacchi in Afghanistan nel 2007.
Anche il presidente della Slovacchia, Ivan Gasparovic, si dichiara favorevole all’entrata di Mosca nell’Unione Europea allo scopo di contrastare l’influenza crescente degli Stati Uniti e ha tenuto una serie di incontri nella Federazione russa, dal 6 al 10 novembre, per discutere le possibili relazioni tra i due paesi e tra Russia ed Europa.
La Serbia, a maggior ragione se i Radicali uscissero vincitori dalle elezioni del 21 gennaio 2007, sarebbe un’altra importante boa a favore di Mosca nei Balcani, mentre l’alleato Lukashenko ha già proclamato di voler costruire una centrale nucleare in Bielorussia entro il 2015, con l’assistenza russa.
Dopo il referendum del settembre 2006, malgrado l’aperta ostilità della Moldavia supportata dalla cd. “Comunità Internazionale”, la Transnistria ha confermato una volta di più la sua indipendenza e vicinanza alla CSI, rimanendo un cuneo piantato nel dispositivo NATO antirusso che oltre a Chisinau vorrebbe contare su Bucarest e Kiev(9).
Molto più incandescente la situazione del Caucaso.
Victoria Nuland, ambasciatrice statunitense presso la NATO, si è data molto da fare per accelerare(10) l’entrata della Georgia nell’Alleanza Atlantica, prima che si svolgesse il G8 a San Pietroburgo.
La sua intenzione, testuale, era quella di “rompere le palle” a Putin e la cosa non è sorprendente, se consideriamo che la signora Nuland è moglie di Robert Kagan, teorico dei neocon e co-fondatore con Bill Bristol del “Project for a new american century”, fondamento della cd. “dottrina Bush”.
Alcuni ambasciatori europei si sono però mostrati dubbiosi riguardo ad un eventuale ingresso della Georgia nella NATO e ora anche dell’Ucraina, soprattutto dopo che le proteste popolari in Crimea hanno impedito all’esecutivo di Kiev di svolgere manovre congiunte con Washington.
Gli stessi Ucraini, secondo i sondaggi, sono favorevoli ad entrare nella NATO con una percentuale del solo 20%.
Tutto questo non entusiasma l’Europa, già terrorizzata di dover difendere gli interessi dei nuovi membri voluti dagli Stati Uniti, quali Croazia, Macedonia e Albania, in un momento in cui la NATO si trova in gravissime difficoltà a causa dell’avanzata talebana in Afghanistan, con numerose perdite per Inglesi e Canadesi.
Lo stesso ritiro dei soldati italiani dall’Iraq, che va ad aggiungersi a quello spagnolo, insieme alla mancata partecipazione franco-russo-tedesca, fa riemergere la possibilità di un asse geopolitico Mosca-Berlino-Parigi-Madrid-Roma, in grado di spaccare definitivamente l’Alleanza Atlantica.
Francia e Spagna hanno colto la palla al balzo e proposto una conferenza internazionale sull’Afghanistan, alla quale l’Italia ha già dato la propria adesione.
La crisi scoppiata a causa dei quattro diplomatici russi arrestati dalle forze di sicurezza georgiane e poi rilasciati all’OCSE è giunta a puntino per rinfocolare le tensioni; la Lituania non si è fatta pregare e il 9 ottobre ha espulso dal suo territorio un diplomatico di Mosca con l’accusa di spionaggio.
La Russia ha inevitabilmente reagito, imponendo un blocco aereo, navale e postale contro il governo di Tiblisi, consigliando ai propri cittadini di abbandonare la Georgia.
Nel corso di una conferenza stampa, tenuta il 25 ottobre, Vladimir Putin ha così confermato la sua intenzione di rafforzare la sicurezza nel Caucaso, investendo una somma di circa 500 milioni di dollari per sigillare i confini russi fra il Mar Nero e il Mar Caspio.
Questa giusta preoccupazione è stata manifestata dal capo del Cremlino dopo le notizie dell’arresto a Tiblisi di Tengiz Gagloyev, capo dell’opposizione osseta in Georgia, la cui minoranza in quel paese è duramente repressa.
Il medesimo timore si ricava dalle parole del presidente dell’Abkhazia, Sergei Bagpash, che ha dichiarato come “il dialogo fra la Georgia e il suo paese potrà ristabilirsi soltanto se Tiblisi tornerà agli accordi di Mosca del 1994 e rimuoverà le formazioni armate e politiche nell’area di Kodori Gorge, attenendosi alle disposizioni del Consiglio di Sicurezza”(11).
Il Parlamento europeo ha invece dato “pieno sostegno alla sovranità e all’integrità territoriale della Georgia”, invitando le “autorità russe a rispettare in modo completo la sua sovranità entro i confini internazionalmente riconosciuti”.
Vladimir Putin è così dovuto nuovamente tornare alla carica e prendendo a pretesto le parole di Bush jr. sulla necessità statunitense di “dominare lo spazio” impedendone l’accesso alle altre potenze, ha invitato gli agenti dell’intelligence russa a tenere accuratamente sotto controllo questi processi.
Nella sua intenzione, il presidente russo dovrebbe trovare alleata anche l’Europa e in particolare la Francia, che considera l’autonomia strategica l’elemento unificatore della politica spaziale continentale(12).
Commentando il programma Galileo, che dovrebbe assicurare l’indipendenza europea nel settore della navigazione satellitare, il generale Perminov, responsabile dell’ Agenzia spaziale russa, aveva manifestato in passato la disponibilità di Mosca a collaborare con il Vecchio Continente riguardo le missioni verso Luna e Marte.
Galileo, che ha suscitato invece l’ostilità statunitense come in occasione dei precedenti progetti europei quali “Airbus” e il lanciatore spaziale “Ariane”, nasce proprio dall’esigenza di porre fine alla dipendenza dell’Europa da un sistema controllato dall’apparato militare di un paese straniero (quello degli Stati Uniti, appunto …) che può negarle l’accesso allo spazio in qualsiasi momento.
Influenti analisti russi hanno peraltro messo in guardia l’amministrazione presidenziale dal pensare che la vittoria dei Democratici possa cambiare la politica ostile degli Stati Uniti nei confronti del Cremlino.
Il direttore dei programmi russi ed asiatici, Nikolai Zlobin, osservatore privilegiato a Washington, ha sostenuto di essere sicuro che: “Il nuovo staff del Congresso degli USA renderà più dura la politica nei confronti della Russia … La maggioranza degli americani ritiene che la Russia si è trasformata in uno Stato autoritario, ipotizzando che si possa cooperare soltanto su un certo tipo di problemi”(13).
Il direttore dell’Istituto del Canada e degli Stati Uniti dell’Accademia delle Scienze russe, Sergei Rogov, ha confermato che le relazioni bilaterali tra le due superpotenze continueranno a deteriorarsi, perché sia Repubblicani che Democratici valutano in maniera estremamente negativa la politica interna e internazionale della Russia; infine di un peggioramento dei rapporti tra i due paesi parla Kostantin Kosachev, capo del Comitato per gli affari internazionali della Duma.
Non tragga perciò in inganno l’entrata della Russia nel World Trade Organization, frutto della forte crescita economica della Federazione guidata da Mosca ed esca statunitense per frenarne le velleità da grande potenza.
Alle elezioni californiane è stato ad esempio confermato con il 75% dei voti alla Camera dei rappresentanti, il deputato Tom Lantos, noto per le sue dichiarazioni anti-Putin e per alcune iniziative di legge tese ad escludere la Russia dal G8(14).


Cap. 3: “Il ruolo della propaganda e dell’economia nella partita a scacchi russo-statunitense”.

Alla fine di ottobre, l’Europarlamento ha reso noto che il Premio Sacharov 2006 verrà assegnato nel corso di una premiazione ufficiale il 13 dicembre ad Alexander Milinkevich, capo dell’opposizione bielorussa sonoramente sconfitta alle elezioni presidenziali del 19 marzo, nel corso di uno scrutinio giudicato “irregolare” da Bruxelles e Washington.
Contemporaneamente, il Parlamento Europeo ha invitato i 25 membri dell’Unione ad avviare in sede di Consiglio “una profonda riflessione” sul futuro delle relazioni con la Russia, ponendo innanzitutto al primo posto “democrazia, diritti dell’uomo e libertà di espressione al centro di qualsiasi accordo futuro”.
Il pretesto nasce dall’assassinio della giornalista Anna Politovskaya, uccisa a Mosca il 7 ottobre scorso, omicidio per il quale Bruxelles “invita le autorità russe ad autorizzare un’indagine internazionale indipendente, imparziale ed efficace al fine di identificare i responsabili di questo crimine”(15).
Il caso Politovskaya ha non solo danneggiato l’immagine del presidente russo Putin durante la sua visita in Germania proprio nel mese di ottobre, ma ha scatenato anche una forte campagna internazionale tesa a screditare il sistema russo nel suo insieme.
Nella sola Italia, nonostante si stesse firmando un contratto decisivo tra l’ENI e la Gazprom, si sono contate numerose iniziative propagandistiche, alimentate dalle centrali atlantiste che condizionano indifferentemente sia la “destra” che la “sinistra” dell’arco politico nazionale.
Ricordiamo solo un paio di trasmissioni televisive, una sulla RAI e soprattutto una su Mediaset condotta dall’ex ministro Claudio Martelli (condannato nel 2001 per il “Conto protezione”), dal titolo esplicito: “Anna, la mafia e Putin” ...
Ad esse è seguita una campagna pubblicitaria ad opera di due riviste italiane, “Internazionale” e “Articolo 21”, una casa editrice l’”Adelphi” e una televisione “Nessuno Tv”, che invitano i cittadini italiani a mandare una cartolina di protesta all’Ambasciata russa di Roma perché la via nella quale si trova la rappresentanza diplomatica venga intitolata ad Anna Politovskaya.
Ma si registrano ormai quotidiani gli attacchi mediatici contro il Cremlino e la dirigenza moscovita, aperti dall’”Express International” in Francia e ripresi a poco a poco da tutta la stampa europea, spesso sotto la spinta dei cd. “nouveaux philosophes”, storici nemici della politica di interesse nazionale intrapresa da Putin.
Ultimo esempio, il caso dell’ex colonnello del KGB, Alexander Litvinenko, rimasto avvelenato a Londra in circostanze misteriose, sulla cui responsabilità i mezzi di comunicazione occidentali lanciano accuse non tanto velate all’attuale servizio segreto russo.
Tutto sembra confermare il documento reso noto dalla Duma alla fine del mese di settembre e intitolato: “Il probabile scenario d’azione degli Stati Uniti nei confronti della Russia nel periodo 2006-2008”, nel quale Washington afferma di voler favorire una “variante tranquilla delle rivoluzioni arancioni” anche a Mosca durante le elezioni presidenziali.
Oltre alla rinazionalizzazione delle risorse energetiche attuata dal Cremlino, gli strateghi statunitensi temono fortemente l’asse geopolitico che la Russia ha formato attorno a sé grazie all’Organizzazione per la Cooperazione di Shangai, che ha effettuato manovre militari nella zona di Chebarkul (Volga-Urali) il 3 novembre, pochi giorni prima del vertice NATO di Riga.
Le esercitazioni, condotte insieme al CSTO (Collective Security Treaty Organization) hanno avuto come protagonisti gli eserciti russo e cinese, che condividono le medesime preoccupazioni sull’allargamento dell’Alleanza Atlantica, insieme alle truppe della Bielorussia, dell’Armenia, del Kazakistan, del Kirghizistan e del Tagikistan, probabilmente alla presenza di esperti militari dei paesi osservatori, India, Pakistan e Iran.
Secondo alcuni giornali di Pechino, la NATO “si fa strumento della strategia globale statunitense” e a Riga presenterà un “piano di partnership globale, teso ad intensificare la cooperazione con Giappone, Australia e Nuova Zelanda; ciò mentre già cerca di espandere i parametri della sua collaborazione con Brasile, India, Sudafrica e Corea del Sud”(16).
Ma anche in questo progetto, Russia e Cina possono contare su alcune contraddizioni sorte in seno alla stessa alleanza.
Parigi, ad esempio, ritiene che un’espansione così ambiziosa della NATO possa coincidere con un indebolimento epocale del peso strategico degli Stati Uniti sull’Europa e generare “una crisi sistemica di prima grandezza”, che finirebbe per favorire la formazione di una comune difesa europea indipendente dal Pentagono.
Secondo il bollettino francese “Europe 2020”, la “divergente percezione delle minacce fra europei e americani, e la crisi di fiducia degli europei, opinione pubblica e governanti, nella competenza americana ad assumere una leadership responsabile ed efficace dell’alleanza” rappresentano uno dei risultati peggiori dell’unilateralismo dell’Amministrazione Bush.
Le dimissioni dell’ex ministro della Difesa Donald Rumsfeld vorrebbero probabilmente essere il preludio a un cambiamento di visione ad opera dell’establishment statunitense, che sembra però avere imboccato una strada senza uscita.
Lo confermano le richieste fatte durante il vertice di Riga al governo italiano di rinforzare il contingente militare presente in Afghanistan e le dichiarazioni del generale Abizaid su un possibile invio di altri 20.000 soldati in Iraq, dove la guerriglia ha colpito duramente nei mesi scorsi la più importante base statunitense a Baghdad.
Nel frattempo, il Congresso statunitense ha votato notevoli fondi a favore del riammodernamento delle forze armate georgiane e in vista di un loro ingresso nella NATO, provocando l’ovvia irritazione del generale Leonid Ivashov, già capo dello spionaggio russo, che ha accusato gli Stati Uniti di voler creare un arco d’insicurezza intorno alla Russia e di favorire le provocazioni di Tiblisi.
La crisi si è ora acuita dopo le votazioni del 12 novembre in Ossezia del Sud, che hanno confermato la separazione di Tskhinvali dalla Georgia e riconfermato alla presidenza della Repubblica l’indipendentista Eduard Kokoity.
Stati Uniti, NATO ed Unione Europea hanno disconosciuto e criticato il voto, per la Russia, invece, i risultati di queste elezioni non possono essere ignorati.
La situazione è ulteriormente complicata dal fatto che il governo di Tiblisi ha organizzato un referendum alternativo nei villaggi sud-osseti sotto il suo controllo, ovvero quelli a maggioranza georgiana.
L’ONG “Unione per la salvezza degli Osseti” (legata ai servizi segreti georgiani) sostiene che circa 42.000 persone hanno votato, comprendendo in esse anche molti Osseti in disaccordo con le autorità indipendentiste(17).
Il risultato sarebbe stato una vittoria schiacciante del “sì” a un’Ossezia del Sud integrata con la Georgia e l’elezione come presidente alternativo di Dimitri Sanakoev, che formerà un altro governo nel villaggio di Kurta, pochi chilometri a nord-est di Tskhinvali.
Ovviamente, il presidente georgiano lo riconoscerà come l’unico legittimo della regione, rischiando di spaccare ulteriormente l’Ossezia del Sud su base etnica.
Il ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, teme che il governo parallelo filo-georgiano si doterà di apparati di sicurezza propri, facendo così sfociare queste divisioni in un nuovo conflitto armato, dove Mosca e Washington si combatteranno per interposta persona.
L’egemonia sul Caucaso meridionale, regione attraversata dalle rotte del petrolio e del gas del Mar Caspio, costituisce d’altronde la porta settentrionale del Medio Oriente a ridosso dell’Iran, obiettivo finale della strategia talassocratica statunitense per la conquista dell’Eurasia.
Gli ambienti finanziari atlantisti puntano comunque anche sulla carta economica.
Infuriati per la cancellazione del progetto di gasdotto che avrebbe dovuto collegare il mercato nordamericano con i giacimenti Shtokman nel Mar di Barents e che invece provvederanno al fabbisogno della Siberia, irritati per le accuse di devastazione ambientale imputate da Putin alla multinazionale anglo-olandese Shell, alla quale è stata revocata la licenza d’estrazione nell’isola di Sakhalin, essi scatenano periodicamente sul “Financial Times” e sull’ “Economist” voci sul possibile declino dei tre principali giacimenti della Gazprom.
Quest’ultima avrebbe perciò deciso di riprendere le operazioni di ricerca nella penisola Yamal, a ridosso dell’Artico, il cui giacimento potrebbe però non essere operativo prima del 2011.
Secondo le stime della banca svizzera UBS, se la domanda mondiale di gas naturale passasse dall’attuale 2,2% al 2,5%, ci sarebbero seri rischi sul fronte dell’offerta, come confermato dalla Ues, monopolista russo nel settore dell’energia, per la quale il prossimo inverno la carenza di offerta potrebbe raggiungere i 6,5 miliardi metri cubici di gas, pari a quasi il 5% dei consumi totali.
Altri problemi potrebbero giungere a Mosca dall’aver puntato molto sul gas del Turkmenistan, pagato attualmente sotto gli standard internazionali, ma il cui prezzo potrebbe raddoppiare a partire dal 2009.
Le “famose” Sette Sorelle del petrolio (oggi ridotte a cinque dopo i matrimoni tra Exxon e Mobil, Chevron e Texaco) potrebbero alla lunga anche creare problemi all’accordo Eni-Gazprom.
Esso prevede che l’ente petrolifero italiano possa entrare insieme al partner russo nell’attività di ricerca, sviluppo e produzione di importanti campi di gas, magari in compartecipazione con Yukos e Novatek.
Eni e Gazprom opereranno insieme in Russia per realizzare nuovi gasdotti e risanare quelli esistenti, lavoreranno insieme in Venezuela, Algeria, Libia e Norvegia; il colosso italiano avrà peraltro sempre la maggioranza nelle società che gestiranno le attività comuni fuori della Russia.
In cambio, Gazprom potrà vendere direttamente gas sul mercato italiano sostituendosi allo stesso Eni, fino ad un tetto tra due o tre miliardi di metri cubi di gas nel 2010, così come potrà acquistare una quota di Enipower.
Il colosso moscovita controlla il 20% della produzione mondiale di gas, circa 600 miliardi di metri cubi e il 25% del fabbisogno europeo.
Sul piano finanziario esso vanta una capitalizzazione intorno ai 260 miliardi di dollari e un fatturato di oltre 30 miliardi di dollari, circa il 7% del PIL della Russia.
Purtroppo l’Eni, dopo la privatizzazione dei primi anni Novanta, è posseduta attualmente al 48% da fondi d’investimento anglo-americani, così nel caso il Tesoro – su pressione della Commissione Europea – fosse obbligato a mettere sul mercato la quota residua in suo possesso, gli ambienti finanziari statunitensi potrebbero acquisirne la maggioranza(18).
L’importanza del gruppo italiano, in questa partita a scacchi, è ancora confermata dalla firma congiunta con la compagnia turca C,alik e quella indiana IOCL (Indian Oil Company Limited) per la costruzione dell’oleodotto Samsun-Ceyhan, che collegherà le coste turche del Mar Nero e del Mediterraneo, consentendo di by-passare gli stretti del Bosforo e dei Dardanelli.
Questo progetto, secondo i dirigenti dell’Eni, risulterebbe la soluzione più efficace e conveniente per evacuare il petrolio del Mar Caspio verso il Mar Mediterraneo, sia dal punto di vista commerciale che ambientale.



Conclusioni.

La Russia si trova oggi in un momento storico decisivo.
La paziente ma continua azione dell’amministrazione presidenziale guidata da Vladimir Putin(19) ha per ora salvato lo Stato dalla disgregazione e permesso alla CSI di presentarsi come un complesso geopolitico credibile e alternativo a quello guidato dagli Stati Uniti attraverso la NATO, almeno in Asia Centrale e nei suoi vicini più prossimi (Bielorussia e in parte Ucraina).
La situazione appare invece attualmente difficile, sia in Caucaso – a causa delle turbolenze provocate dall’estremismo wahabita – sia in Europa Orientale, dove l’immagine della Russia è ancora parzialmente compromessa dal suo passato comunista.
La stessa crisi con l’Ucraina nell’inverno 2005 non ha certo contribuito a cancellare quello che per molti, anche in Europa occidentale, rimane un immaginario legato ai clichès dell’ “autoritaria e imperialista” ex Unione Sovietica.
Su questi meccanismi psicologici inconsci giocano perciò i mestatori di professione e l’establishment oligarchico globalista che teme più di ogni altra cosa una forte intesa tra Mosca e Bruxelles.
In particolare, l’alleanza russo-tedesca, incubo geopolitico dei Kissinger e dei Brezinski, è stata recentemente stigmatizzata proprio da George Soros, principale “decision maker” nella destabilizzazione dell’Est europeo, con queste parole: “I Tedeschi non vogliono prendere coscienza del pericolo che corrono … Il Cremlino sta utilizzando lo strumento dei mezzi energetici per reclamare il ruolo di Paese leader sulla scena internazionale”(20).
Dev’essere perciò chiaro alla dirigenza russa che l’obiettivo finale delle lobbies atlantiche non è il controllo dell’Iraq, dell’Afghanistan o dell’Iran, bensì la conquista strategica dell’Eurasia, al cui dominio completo l’ostacolo principale rimane la Russia, a causa della sua estensione geografica, delle sue ricchezze energetiche, del suo apparato militare missilistico-nucleare e delle grandi capacità d’inventiva del suo popolo.
Rimane allora un campo nel quale i decisori di Mosca devono compiere un ulteriore sforzo per rompere l’assedio, ed è quello culturale o della controinformazione di massa.
La creazione cioè di un vera e propria idea-forza che faccia da contraltare alla propaganda occidentalista, sempre più sconfitta nelle dinamiche storiche ma comunque ancora fortissima per la mancanza di alternative.
Il cd. “soft power” russo, quel “potere leggero” nella cui arte gli statunitensi sono maestri grazie al controllo dei grandi mezzi di comunicazione di massa, l’influenza cinematografica … non può basarsi solo sui semplici concetti da poco riproposti, quali quello di “sovranità democratica” e di “idea nazionale russa”.
Occorre invece una grande proposta globale, che possa aggregare in maniera convincente tutti coloro che si oppongono al “mondo a una dimensione” imposto dalle armi della superpotenza nordamericana e dalla pubblicità del suo paranoico stile di vita.
Le idee di “Eurasia” quale condominio di popoli, “mondo multipolare” ed “equilibrio geopolitico”, costituiscono i primi riferimenti ai quali agganciarsi per una totale controstrategia.
In questa ottica diviene prioritario per Mosca sostenere i gruppi geopolitici elitari o di massa che già lavorano per il cambiamento e la nuova prospettiva in tutta Europa.
Ma la Russia dovrà fare di più e stagliarsi, insieme ai suoi alleati vecchi e nuovi, quale polo di riferimento mondiale per un nuovo modello di sviluppo, che faccia dimenticare le ineguaglianze sociali ed economiche della cd. “società dei 2/3” capitalistica (cioè 1/3 ricco e 2/3 nella miseria …).
Sulle gigantesche sfide che ci attendono, è giusto così richiamarsi a quanto dichiarato dallo stesso presidente Vladimir Putin alla vigilia del G8 di San Pietroburgo e parzialmente riportato dal giornale “Izvestia”: “Non dobbiamo dimenticare che oggi due miliardi di persone sul pianeta non hanno accesso ai moderni servizi energetici, e moltissimi non hanno neanche la possibilità di utilizzare l’energia elettrica … La carenza di risorse energetiche in varie regioni frena significativamente la crescita economica, e l’uso irrazionale di esse può portare alla catastrofe ecologica globale … In generale bisogna comprendere e riconoscere in maniera congiunta che nel mondo contemporaneo, così interdipendente, l’ egoismo energetico è una via senza uscita. E’ nostra profonda convinzione che la redistribuzione dell’energia, movendo solamente dalle priorità del gruppo ristretto dei paesi più sviluppati, non corrisponda agli obiettivi e ai compiti dello sviluppo globale. Lavoreremo per poter formare tale sistema di sicurezza energetico che consideri gli interessi di tutta la comunità mondiale”(21).






Note

1) Per una dettagliata configurazione della “NATO dell’Est” si veda Margherita Paolini, in “Limes”, 4-2004, pp. 123-138.
2) Anche la richiesta durante il vertice della NATO a Riga di far rientrare la Serbia nel “Partnership for Peace” dell’Alleanza Atlantica è condizionata dalla mancata volontà di Belgrado che ancora non ha consegnato al Tribunale dell’Aja i “ricercati” Karadzic e Mladic. Cfr. anche il mio: “Viaggio con i Serbi nel Kosovo, tra disperazione e speranza” su www.eurasia-rivista.org.
3) Cfr. Valentin Varennikov: “Ma noi patrioti ora con Putin abbiamo vinto”, in “La Repubblica”, 13/08/2006, p. 39.
4) Cfr. anche la mia recensione a “Il mistero Putin: uomo della provvidenza o ritorno al passato?” in www.eurasia-rivista.org
5) Cfr. il Rapporto Grimmet in “Resto del Carlino”, 15/11/2006, pp. 20-21.
6) Cfr. Stefano Vernole, “Intervista a Geopolitika”, su www.eurasia-rivista.org
7) Cfr. “Polonia avida di NATO” su www.rinascita.com
8) Cfr. Giovanni Lanza in “Rinascita”, 14/11/2006, p. 8.
9) Vedi anche il mio “Transnistria: la Russia è più vicina” su www.eurasia-rivista.org
10) Cfr. Maurizio Blondet, “La NATO forse non s’allarga più”, 09/07/2006 su www.effedieffe.com
11) Cfr. Andrea Perrone, “Rinascita”, 26/10/2006, p. 8.
12) Cfr. “Limes”, n. 5/2004, p. 112.
13) Cfr. Andrea Perrone, « Putin attacca frontalmente gli Stati Uniti », in « Rinascita », 10/11/2006, p. 10.
14) Ibidem.
15) Cfr. “Mosca si oppone a Washington” in “Rinascita”, 27/10/2006 p. 8.
16) Cfr. Maurizio Blondet, su www.effedieffe.com.
17) Cfr. Enrico Piovesana, “Ossezia del Sud spaccata in due”, 15/11/2006, su “Peacereporter”.
18) Cfr. Andrea Angelici, “L’ENI cresce nella steppa”, in “Rinascita”, 16/11/2006, p. 5.
19) Cfr. Valentin Varennikov, cit.
20) Citato da Andrea Perrone, “I nemici di Putin all’attacco”, in “Rinascita”, 21/11/2006, p. 10.
21) Il discorso completo di Putin si trova su www.eurasia-rivista.org.