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Tra le città morte (recensione)

di Tatiana Genovese - 06/12/2006



A.C. Crayling “Tra le città morte”, Longanesi, Euro 22,00.

C’è un’importante questione etica e morale che bisogna affrontare senza esitazione e a cui è necessario rispondere con la massima onestà: “Esistono circostanze in cui uccidere civili in tempo di guerra è moralmente accettabile? Possono esserci circostanze – situazioni disperate o di necessità o circostanze pericolose in cui simili azioni vengono intraprese come provvedimenti difensivi – che potrebbero giustificare o almeno scusare l’aver tramutato civili in bersagli militari? Se si commettesse un crimine per prevenire o reagire a un crimine peggiore, questo attenuerebbe o addirittura giustificherebbe il crimine precedente?”
Applicando tale riflessione al secondo conflitto mondiale, la domanda diverrebbe: “ Nel corso della seconda guerra mondiale le forze aeree di Gran Bretagna e Stati Uniti effettuarono una massiccia offensiva di bombardamenti sulle città della Germania e del Giappone, che terminò con la distruzione di Dresda, Tokio, Hiroshima e Nagasaki. Questa offensiva fu un crimine contro l’umanità? O fu giustificata dalle esigenze della guerra?”
Il giornalista inglese A.C. Grayling ha ritenuto opportuno chiarire nel libro “Tra le città morte” questa irrisolta controversia sviluppatasi nei decenni seguiti al 1945. L’autore chiarisce, sin dal principio, che la sua opera non è tesa “né a sminuire le atrocità morali dell’Olocausto o dell’aggressione giapponese, né a svalutare le azioni compiute dai militari “Alleati””, ma solo a tracciare la storia dei bombardamenti degli Alleati e delle morti e distruzioni che essi determinarono. Attraverso un’attenta analisi storica viene delineato nel secondo capitolo l’intero percorso di attacchi e contrattacchi effettuati sia dall’inglese RAF che della tedesca Luftwaffe e, dal 1943, dell’americana USAAF. Vengono così raccontati con estrema precisione (descrizione delle strategie, aerei e bombe impegnati) alcuni tra i più importanti bombardamenti: l’attacco su Colonia, la battaglia della Ruhr,l’operazione Gomorra che condusse alla distruzione di Amburgo, l’attacco fallimentare su Berlino e la devastazione di Dresda. Nel delineare questi interventi sono anche citati alcuni importanti avvenimenti come la storia della crescita dell’aviazione inglese, l’arrivo del comandante Harris presso il comando bombardieri inglese e le sua strategia nettamente diversa da quella americana (utilizzata però sul suolo europeo): “…Gli americani differivano grandemente dalle loro controparti britanniche su come andavano effettuati i bombardamenti. Per loro il modo corretto consisteva nella distruzione degli aspetti chiave della capacità industriale del nemico (nodi ferroviari, ponti, raffinerie e fabbriche). Per i britannici, dopo il fallimento dei primi ani di guerra, bisognava invece colpire il morale del nemico, attraverso bombardamenti a tappeto dei centri abitati.” L’ultima parte è riservata alla descrizione degli attacchi in Giappone, dove i bombardieri americani, contrariamente alla tattica adottata in Europa, ricorsero indiscriminatamente ai bombardamenti a tappeto.
Se fino ad ora la guerra è stata vissuta dall’alto, nel III capitolo, Grayling sposta l’obbiettivo in basso, sulle città e sugli abitanti, e narra, coadiuvato anche dai racconti di alcuni sopravvissuti, non solo le devastazioni che questi hanno subito, ma soprattutto la differenza tra l’efficienza (“Già dal 1935 i governanti nazisti avevano cominciato a pianificare sistemi di allarme aerei, rifugi, soccorsi e metodologie per affrontare attacchi con gas”) e l’enorme capacità di ripresa dei tedeschi, che addirittura accelerarono l’economia per rispondere alle esigenze belliche, e i l’impreparazione dei giapponesi (nell’attacco iniziale di Tokyo morirono 135.000 persone contro i 305.000 civili tedeschi periti sotto i bombardamenti durante tutta la guerra), oltretutto scoraggiati e consapevoli dell’incapacità di un’efficace reazione controffensiva.
Nel IV capitolo si ha un’inversione di marcia, e dalla pratica si passa alla teoria, o meglio ai grandi teorici dei bombardamenti a tappeto e, oltre al sovracitato Harris, che basava il suo ragionamento sull’incrollabile convinzione che “si dovesse vincere la guerra attaccando il morale delle popolazioni nemiche fin quando la loro volontà di resistere non si fosse spezzata”, vengono esposte anche le tesi, similari tra loro, del militare e scrittore Giulio Dohet e del comandante della neonata RAF (1918), Sir Hugh Trenchard (“il bombardamento dovrebbe essere diretto alla popolazione civile di uno stato nemico per spezzarne il morale e indurla a costringere il proprio governo a chiedere la pace. Terrore, distruzioni materiali e privazioni causate dalla carenza di cibo e di altri beni di prima necessità sono gli elementi chiave”), e quelle della Scuola Tattica dell’Air Corps americana, elaborate negli anni Trenta, che si concentravano “sull’idea di distruggere i principali collegamenti industriali dell’economia nemica, cosa che avrebbe avuto l’effetto di distruggere gli approvvigionamenti necessari a mantenere la popolazione nemica e perciò la sua volontà di continuare a sostenere una guerra”. Ma questo capitolo tratta anche il processo attraverso il quale numerosi scienziati, e alcuni uomini politici, tentarono di limitare non solo l’utilizzo dei bombardamenti ma soprattutto quello della bomba atomica.
Così se da una parte c’era chi era schierato a favore, dall’altra c’era chi era contro; e i capitoli IV e V sono dedicati a tutti coloro che hanno tentato di opporsi ai bombardamenti a tappeto, dalla nascita nel 1941 della “Commissione per l’abolizione dei bombardamenti notturni”, poi divenuta “Commissione per l’abolizione dei bombardamenti”, alla pubblicazione, prima In Germania e poi in America e in Inghilterra, del libro-documento di Vera Brittain “Il seme del caos. Scritti sui bombardamenti di massa”. Ma la storia dei tentativi di porre delle limitazioni alla guerra è lunga e Grayling la racconta partendo da molto lontano con esempi tratta dalla “Summa Theologiae” di San Tommaso d’Aquino (secondo il quale “è sempre peccato condurre la guerra, ma in tre condizioni è giustificabile: che ci sia una giusta causa per condurre la guerra; che sia iniziata in base ad autorità accettate, che sia condotta con intenzioni corrette, ovvero che miri a promuovere il bene e a evitare il male”), e dal “De Jure Belli ac Pacis” di Ugo Grozio, in cui l’autore tenta di stabilire principi concreti e definitivi per una “guerra giusta”. La discussione procede con la citazione di “leggi di guerra”, convenzioni, trattati e dichiarazioni (Convenzione di Ginevra del 1864, Pace dell’Aia e accordi seguiti sino al 1939, processo di Norimberga, IV Convenzione di Ginevra e protocolli aggiuntivi) “tutti tendenti ad assumere lo statuto di norme vincolanti che potrebbero essere invocate per indire processi, celebrarli, e, in caso di colpevolezza, punire chi le ha violate”.
La tesi finale implica un’imputazione dell’attività dei bombardamenti a tappeto dei britannici e degli americani, in quanto crimini morali. Imputazione a cui Grayling concede la possibilità di difesa, spiegando nel VII capitolo gli argomenti impiegati dai difensori delle campagne di bombardamenti degli Alleati: i primi due si rifanno alla tesi di Harris: i bombardamenti (comprese le bombe atomiche) salvarono le vite dei militari alleati e “i civili in guerra sono sempre stati bersagliati”; gli altri sostengono che “il bombardamento a tappeto scosse il morale dei civili nemici, ridusse la capacità delle industrie belliche nemiche, creò difficoltà logistiche all’economia e all’amministrazione, obbligandole a vedersela continuamente con profughi e interventi di riparazione, tenne soldati, cannoni e caccia lontano dal fronte per dedicarsi invece alla protezione delle città e colpì anche i soldati nemici al fronte costringendoli a preoccuparsi per quello che stava succedendo alle loro famiglie”. Ma per quanto i difensori dei bombardamenti possano rispondere ad ogni critica, Grayling, sostiene non solo che “l’atto stesso di prendere civili come bersaglio era sbagliato”, ma propone anche ciò che secondo lui avrebbero dovuto fare gli Alleati, piuttosto di bombardare a tappeto le città nemiche: “Il Comando bombardieri avrebbe dovuto continuare nei suoi tentativi di bombardamenti di precisione e devolvere le energie a rendere questa tattica più sicura per i suoi bombardieri e più efficace.”
Il libro si conclude con le considerazioni di due protagonisti dei bombardamenti, l’ammiraglio e pilota americano Ralph Ostiela (“Dobbiamo tradurre l’errore storico della II guerra mondiale in un concetto permanente all’unico scopo di evitare di oscurare il prestigio di quelli che nel passato ci condussero per la strada sbagliata?” e la scrittrice Vera Brittain (“l’insensibile crudeltà che ci ha indotto ha distruggere innocenti vite umane nelle più affollate città europee e il vandalismo che ha obliterato tesori storici in alcune delle più belle apparirà alla futura civiltà come una forma estrema di follia criminale dalla quale i nostri leader politici e militari si sono permessi volutamente il lusso di lasciarsi affliggere”), ma anche e soprattutto con il giudizio senza appello di Grayling, continuamente ribattuto dall’autore in tutto il libro: “ …poche persone capiscono che le campagne di bombardamenti a tappeto degli Alleati sulla Germania e il Giappone meritano una valutazione e uno sguardo più attento. Perché se costituiscono un errore, anche se è di gran lunga inferiore rispetto ad altre aggressioni e atrocità commesse dalle potenze dell’Asse, tuttavia continua a essere un errore (…) e rischiamo di ripetere errori se non affrontiamo quelli che abbiamo commesso nel passato”.
Troppe sarebbero le domande che secondo Grayling andrebbero poste, ma si aggiungerebbero alla frustrazione stessa che suscitano. Una però è fondamentale, fondamentale per percepire l’ “orrore” di un mancato giudizio etico e morale sui bombardamenti a tappeto: “Qual è la differenza morale tra bombardare donne e bambini e sparare loro con una pistola? È il fatto che, quando li bombardi non li puoi vedere – non intendevi che quella particolare donna o quel particolare bambino morissero – e in ogni caso sarebbero potuti sfuggire al bombardamento, forse raggiungendo un rifugio? Ma se sono qui, contro un muro a pochi centimetri dalla canna della tua pistola, non possono sfuggire; è un fatto più personale: li puoi vedere negli occhi. È questa la differenza, l’anonimato dell’atto di uccidere da 6.000 metri?” E adesso chi ha il coraggio di rispondere a Grayling?