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Chen Kaige: in Cina è libero solo il denaro

di Alberto Crespi - 07/12/2006



CINEMA Chen è un maestro riconosciuto. Dopo «Addio mia concubina», è a Roma dove presenta il suo nuovo «La promessa». Un altro tuffo nella mitologia cinese. «Ma parlo del presente» dice, «e del rapporto col potere in un Paese in trasformazione»

«Confucio ci ha insegnato a rispettare gli altri e a difendere la nostra dignità. Oggi, in Cina, tutto questo sembra essere sparito. Si parla solo di denaro. E l’aggressività economica è il motivo per cui tutti parlano della Cina, nel mondo. Non è giusto. Non è una bella fine per un paese che ha alle spalle millenni di storia».
Chen Kaige, classe 1952, regista cinematografico cinese, è a Roma. Stasera l’Asian Film Festival, in corso (fino al 9 dicembre) ai cinema Madison e Missouri, presenta il suo nuovo film La promessa (in cinese Wu ji). È un wuxiapian, la parola cinese che indica i film di arti marziali, come La tigre e il dragone o Hero. È la prima volta che Chen si cimenta con il genere classico del cinema cinese, anche se non è il suo primo film in costume (lo erano, in modi diversi, Addio mia concubina, Palma d’oro a Cannes, e L’imperatore e l’assassino). È la storia di una ragazza che, per diventare principessa, stringe un patto diabolico con uno stregone rinunciando alla felicità in amore. È un film mirabolante, con un grande impiego di effetti speciali digitali che ne hanno innalzato il costo a oltre 30 milioni di dollari. Forse per la prima volta in carriera, Chen Kaige si ritrova in testa al box-office - almeno nei paesi asiatici, ma presto il film (candidato all’Oscar) andrà all’assalto dei mercati occidentali.
Chen Kaige è, assieme a Zhang Yimou, il regista più importante della cosiddetta Quinta Generazione che ha rinnovato il cinema cinese dagli anni ‘80 in poi. Ha iniziato con film d’autore, bellissimi (Terra gialla, La grande parata, Il re dei fanciulli), per poi sfondare con il citato Addio mia concubina e diventare un regista internazionale (ha girato anche un film, poco riuscito, in Inghilterra: Killing Me Softly). Il suo esordio nel film d’azione è tutt’altro che una resa al mercato: esattamente come i western in America, i wuxiapian sono una forma di narrazione popolare che i registi cinesi usano per parlare della contemporaneità. Sono film sul potere, e sul rapporto maestro/discepolo caro a Chen dai tempi del Re dei fanciulli, ispirato a un romanzo di Acheng.
«I nostri film di arti marziali - spiega Chen - sono popolari anche in Occidente e spesso mi chiedo perché. Avendo vissuto anche a New York, ed essendo passato attraverso la rivoluzione culturale - i due estremi, diciamo, delle rispettive civiltà! - mi sono convinto che Oriente e Occidente siano troppo diversi... Voi vivete in base a principi religiosi solidi e immutabili, noi abbiamo tradizioni religiose molteplici, nessuna delle quali è dominante, e viviamo in una perenne fluidità. La Cina è invasa da brutti film americani dei quali gli spettatori cinesi non capiscono nemmeno le trame, però li guardano, e li apprezzano: e penso che in Occidente avvenga lo stesso con i film cinesi. Forse i nostri wuxiapian vi sembrano film fiabeschi, ma non lo sono. Parlano di noi, della nostra modernità, dei valori che stanno sparendo. Noi cinesi stiamo vivendo una fase di violento cambiamento, e questo crea insicurezza. Nessuno vede chiaro nel futuro. La promessa parla di questo disagio... Shakespeare aveva capito i cinesi senza conoscerli: parla sempre del destino e del potere, e di come le scelte degli individui siano impotenti davanti al Fato ma, al tempo stesso, fondamentali per dare un senso etico alle loro vite. Bisogna sempre ambire alla libertà anche se raggiungerla è impossibile. La Cina di oggi non è un paese libero, è un paese dove il denaro permette di raggiungere alcune libertà: viaggiare, cercarsi un lavoro, consumare... ma la vera libertà, quella intima, assoluta, non c’è».
Negli anni ‘70, da ragazzo, Chen Kaige fu spedito in campagna come tutti i giovani studenti della rivoluzione culturale: «Ho accennato a quel tempo in Addio mia concubina ma avrei tante altre storie da raccontare. Ma in Cina il tema è ancora troppo “caldo”. Ci vorrà tempo, e io posso aspettare. Se potessi tornare indietro non investirei più tanta energia nel cinema. Farei altro... forse il contadino. Mi piacerebbe vivere nella foresta, tornare a contatto con la natura. Ma è andata così, il mio destino ha deciso così. L’importante è non essere schiavi del cinema e ricordare che nulla è stabile, tutto scorre e si trasforma. Ce l’ha insegnato il Buddha, è una delle tante cose che noi cinesi, oggi, dobbiamo sforzarci di non dimenticare».