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La consulenza filosofica: esercizi per i nuovi socratici

di Paolo Pecere - 07/12/2006

 

 

La “consulenza filosofica”, piuttosto che come una teoria, si presenta come una prestazione: un consultante si recherebbe da un filosofo, per ottenere una chiarificazione e uno svolgimento dei propri più diversi nodi esistenziali, mediante un dialogo e anche (ma non primariamente) con l’ausilio di riferimenti a testi filosofici. Questa «pratica filosofica» (con questo titolo essa nasce in Germania negli anni ’80), è oggi ben poco praticata in Italia, ma esistono diversi istituti di formazione (il maggiore è la società Phronesis, presente a livello nazionale) e master che rilasciano il titolo di consulente filosofico. Per ora, dunque, si tratta soprattutto di una disciplina impegnata in una riflessione sul proprio statuto metodologico e addirittura sulle proprie finalità, mentre formatori e consulenti provano a innestarla nell’intervallo che separa le tante terapie più o meno psicologiche e la variopinta offerta di saggezza spirituale.
Tutto questo potrebbe sembrare a un primo sguardo il semplice epifenomeno di un disagio professionale: un tentativo di rilanciare una mancante professionalità del laureato in filosofia, per un verso, e per l’altro l’ennesimo prolungamento curricolare in cui il limbo sociale dell’università italiana si prolunga nella selva dei master e delle formazioni post-lauream. Né giova, all’immagine di questa disciplina, il mezzo mistero che avvolge quanto di fatto accadrebbe nei colloqui tra consultante e consulente, conseguenza del rifiuto di darsi metodi rigorosi e “tecnici”, in base al quale i nuovi consulenti distinguono tra l’apertura critica e dialogica del loro incontro e la schematicità al limite autoritaria delle terapie psicologiche o psicoanalitiche.

Pier Aldo Rovatti (La filosofia può curare?, Raffaello Cortina 2006, pagg.99, euro 9) ha il merito di distinguere con chiarezza le due coordinate di questo fenomeno. Per un verso, esso viene riconosciuto come fenomeno «minimo». Per un altro verso, la riflessione su questa pratica eventuale diviene subito critica di ogni pratica terapeutica e interrogazione effettiva sui compiti e i mezzi della filosofia nel quadro di una «cultura terapeutica», in cui la debolezza costitutiva del soggetto viene accresciuta e istituzionalizzata dallo stesso proliferare di presunte malattie e pratiche di sostegno. Il primo risvolto aperto da Rovatti è dunque sociale e politico: egli auspica addirittura un «uso aziendale della filosofia», con cui i nuovi consulenti, piuttosto che rendersi «funzionari» di un sistema che li releghi nello spazio della pausa fisiologica con il compito di rinfrescare la mente affaticata, siano capaci di «opporre un disturbo» e scardinare le certezze del personale. Socrate, oggi, andrebbe a esercitare il suo dialogo in azienda.
Ma quale sarebbe l’elemento specificamente filosofico di questa ipotetica pratica professionale? I due tratti generici, condivisi da tutti i sostenitori della consulenza filosofica, sono l’opposizione a una filosofia accademica divenuta arida e scolastica, dimentica del suo rapporto con la vita, e l’accento posto sulla natura pratica della filosofia, intesa come esercizio e non come produzione di modelli di sapere. La specificità di un esercizio filosofico, mirato a «sbloccare la paralisi del pensiero», sarebbe semplicemente la riflessione, in quanto connaturata all’essere umano. Il rischio di arbitrio implicito in questa posizione, più spalancata che aperta, viene letto da Rovatti in senso politico. È proprio per evitare una versione acquiescente della consulenza filosofica che interviene la questione di cosa significhi fare filosofia oggi. A nume tutelare di un ripensamento critico di questa pratica viene chiamato Michel Foucault.
L’esercizio della consulenza filosofica viene così interpretato come un’applicazione della cura di sé, quella «pratica della libertà» che Foucault ripensò a partire dagli esercizi spirituali delle filosofie ellenistiche, opponendola ai procedimenti disciplinari dei saperi psicologici e psichiatrici. È fondamentale a questo punto riportare qualche frammento del linguaggio di Rovatti. Si tratta di lavorare sul soggetto per introdurre un suo distanziamento da sé, di mettere in atto una «soggettivazione», volta a non considerare mai chiusa la questione dell’identità del soggetto, ma a produrre una irrevocabile apertura all’incondizionato. Così, insieme con i nodi paralizzanti di un pensiero in cui, per dirla con Freud, il soggetto non è più padrone in casa sua, si distrugge anche la nozione stessa di padronanza di sé, e il soggetto diviene un movimento di continuo smarcamento da definizioni fisse. Occorre praticare «esercizi dell’abitare la distanza», come la «cura del linguaggio» introdotta da un silenzio sulle parole con cui si descrive la nostra situazione, volto a interrompere la loro «condensazione di senso». Si deve «uscire dalla bolla in cui siamo tenuti». Riconoscere l’altro come «estraneità in noi» e attuare così, senza posa, una continua «costruzione e decostruzione del soggetto». In tal modo si capisce come l’esistenza stessa venga a trovare una propria dimensione filosofica, dove filosofia è «riflessione quotidiana nel mondo della vita», «gioco di potere e verità».
Qui, mi pare, gli spunti critici di Rovatti si prestano a una messa in discussione. Muoviamo da una questione, una questione antica ma attualissima, che ancora una volta Rovatti ha il merito di porre a chiare lettere, riguardo alla consulenza nella sua informalità pratica, ma anche alla stessa filosofia universitaria: «Chi forma i formatori?». Ora, per rispondere a questa domanda, Rovatti propone un’amplificazione critica della stessa nozione di filosofia, invoca l’esperienza di un soggetto senza fondamento, e uno «sfondamento» del discorso che lo riguarda, il tutto attraverso l’ultimo Foucault. Ma che significano tutte le sue formule? E perché Foucault e non altri? Qui il discorso - se non il soggetto - ha di certo molteplici fondamenti. Ecco che si rivela, al di qua della problematica del soggetto tematizzata da Rovatti, l’autentico spazio di problematizzazione della filosofia. Dietro l’opzione di Rovatti, come in ogni altra opzione in favore di un canone di riferimento filosofico, si nasconde infatti uno sfondo di riflessione, la cui materia è un intrigo di sottotesti. E lo specifico della filosofia, in quanto essa si distingue dalla scienza esatta o sperimentale, per un verso, e dal libero colloquio dall’altra, sta proprio nel dover ripercorrere la storia delle sue scelte, nel dover sempre ricominciare daccapo, e, attraversando questo sfondo di sottotesti e di possibilità alternative, rivivere innumerevoli rivoluzioni del modo di pensare. I filosofi sono maestri dell’uso delle parole, come i sofisti: ma la filosofia nasce proprio, per contrasto con i rischi di inganno retorico, come una disciplina di cautela argomentativa, praticata con l’esame dei discorsi, a prescindere dai personaggi che li pronunciano. Logica e etica nascono inseparabili. Qui, forse, sta la chiave della tematica terapeutica ritrovata dai seguaci del nuovo counseling. Sulla dura esperienza socratica del non aver compreso quel che si diceva si può in effetti infrangere l’egoismo e la chiusura (eventualmente patologica) del soggetto in se stesso. Il che non interessa solo i destini di una problematica psicologica, ma anche la sfera del discorso morale e politico, in particolare italiano, dominato oggi dalla rappresentazione di personaggi, più che di discorsi, e dalla misura della loro personale autorevolezza.
Ma ecco che si ritrova la congiuntura virtuosa che può legare una problematica della filosofia pratica e una critica della formazione filosofica, prevenendosi dal rischio di predicare un abbandono ideale delle aule universitarie pubbliche in favore di iniziative e formazioni private: un punto di estrema importanza, che nel pamphlet di Rovatti rimane poco chiaro. Avviare a una riflessione intorno e a partire da certi testi, e non senz’altro sospesa tra tutti i discorsi possibili, è proprio il compito della formazione filosofica, ed essa appare, almeno nella situazione della filosofia contemporanea, come parte necessaria di qualsivoglia pratica che debba fregiarsi del titolo di filosofica. Questo si capisce proprio entrando nella palestra concettuale allestita da Rovatti per gli esercizi del filosofo futuro. Quando questi introduce le nozioni di distanziamento da sé, di silenzio, di gioco (con le relative mosse) – quando infine raccomanda una funzione filosofica della stessa pratica del gioco - è indispensabile, come si capisce ponendoci nell’ottica di un lettore medio, risalire agli impliciti riferimenti a Husserl, Heidegger, Wittgenstein, Derrida, e così via, che soli permettono di restituire il proprio spessore di senso a tale terminologia altrimenti solo metaforica e suggestiva. Quella che Rovatti pare tratteggiare con le sue formule, agli occhi di un lettore non consapevole del complesso sottotesto di riferimenti testuali, rischia di apparire piuttosto una poetica della fantasia che una critica del soggetto. Tale elisione è spiegabile in questo breve intervento. Ma il punto è fondamentale, perché con essa, proprio nell’atto di pronunciare un appello critico, si rischia di lasciare la pratica filosofica in ostaggio di un sottotesto non più filosofico, ma dato per scontato: esattamente quello che Rovatti vorrebbe evitare.
Non si tratta di rivendicare i diritti di un determinato studio curricolare, ma semmai di sottolineare quello che un esercizio filosofico in genere deve comportare. Ne va della stessa filosofia come apertura critica. Senza la pratica della lettura di testi filosofici, o la lettura di qualsiasi testo svolta con la memoria di testi filosofici, la stessa creatività del pensiero invocata da Rovatti si svuota di contenuto, e la sua libertà si confonde con un azzeramento. Del resto, tutti ammettono che le figure di filosofi tratteggiate su libri come «Platone è meglio del Prozac», uno tra i manifesti della consulenza filosofica, sono appiattimenti che uccidono l’apertura del pensiero depositato in un testo. Si capisce che ignorare la complessità significa aprire al dogmatismo. Il rischio cui ci si espone è quindi duplice: di favorire l’incomprensione o la suggestione di chi, interrogando la filosofia, non sia immediatamente capace di decifrarne concetti e compiti; e insieme di esporsi al disprezzo di chi, dubitando se un chiarimento in tal senso sia in generale possibile, condanni l’intera filosofia come un mero gioco di parole e assonanze. (Per esempio, il recente e frequentatissimo Festival di Filosofia a Roma non sembrava lasciar scampo tra queste due alternative). Per evitare entrambe queste derive si deve aprire un processo di interpretazione e autochiarificazione, che è parte integrante della riflessione filosofica. Questa riflessione, però, si può imparare solo frequentando i testi filosofici, in quell’esercizio dell’imparare a leggere il cui luogo pubblico sono principalmente le aule universitarie (del resto, sempre all’inizio degli anni ’80, anche la nozione foucaultiana di «cura di sé» sorgeva dall’esegesi di testi antichi, in dialogo e parziale disaccordo con le belle ricerche dello storico Pierre Hadot sugli esercizi spirituali delle scuole filosofiche ellenistiche). Dopo di ché, sono benvenuti i Café-philo e qualsiasi altra estensione della pratica filosofica, senza però che il giusto sforzo di apertura e divulgazione debba far ignorare gli scogli di una formazione non banale, col rischio di provocare un naufragio.
Quali che siano le sorti di una consulenza filosofica, dipenderà allora da fattori imprevedibili, ed è forse il caso di guardare con qualche speranza un fenomeno così circoscritto, tanto più se si pensa al quadro caotico dell’offerta psicologica, formativa, anche religiosa, che popola la «cura di sé» odierna all’oscuro di qualsiasi critica dei fondamenti. Ma se si rilancia la pratica di un esercizio filosofico, sarà opportuno non farsi sedurre dal giro breve di presunte filosofie senza libro, come se oggi si potesse ritornare senz’altro a fare i filosofi di piazza, ignorando il nostro orizzonte di testi (ciò che Socrate era ben lontano dal fare). Parlare di un ritorno alle semplici pratiche, vecchie o nuove, almeno in filosofia dovrebbe insospettire. Nella prospettiva di rianimare una filosofia disorientata e pigra, allora, si può ricordare la pratica messa in atto proprio dal sostenitore dell’esercizio filosofico Foucault, e testimoniato dai preziosi testi dei suoi seminari al Collége de France: lo scavo dei testi, la partecipazione assidua a lezione, le dense ore di argomentazione e lettura, aperte alle domande degli studenti e alle problematiche dell’attualità: a partire dalla lettura e ricomprensione di testi, antichi e moderni. Solo una tale differenza specifica, oggi, può salvare dal rischio – che corre anche chi ha giustamente a cuore la vita di una filosofia che non sia un gioco di antiquariato – di perdere la distinzione tra un esercizio filosofico e altre legittime pratiche più o meno terapeutiche che in molti modi mettono in atto un qualche «distanziamento da sé» e vengono incontro ai bisogni vitali dell’individuo: come la recitazione di un mantra, la pratica confessionale, il gioco di ruolo.