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Perchè la natura dell'Italia è federalista

di Pierre-Joseph Proudhon - 07/12/2006

Fonte: profed

 

 

L'Italia per natura e configurazione è federalista: lo fu nell'antichità fino alla conquista dei Romani la cui missione storica non fu, come è noto, di fare l'unità italiana, ma di convertire il mondo allora conosciuto a un diritto ed a una religione unici. Raggiunto questo scopo e rovesciato l'impero d'occidente, l'Italia tornò alla sua natura, alle sue attrazioni, alla legge dei suoi interessi e dei suoi destini. La ragione di questo ritorno è visibile, per così dire, a occhio nudo.

L'Italia è composta principalmente: 1) da una lunga penisola, a forma di stivale, limitata a Nord-Ovest dalla catena semicircolare delle Alpi, e da tutti gli altri lati dal mare; 2) da tre grandi isole, la Sardegna, la Corsica e la Sicilia. La superficie del paese è di circa 18.000 leghe geografiche quadrate, delle quali 14.600 per la parte continentale, 443 per la Corsica, 1600 per la Sardegna e 1360 per la Sicilia.

La popolazione totale è di circa 25 milioni di anime; più densa in Lombardia, meno densa in Sardegna.

Innanzitutto, per quel che riguarda le isole, eccezion fatta per la Corsica, incorporata dalla Francia, io chiedo dov'è per esse la ragione dell'unità? Quale argo mento de commodo et incommodo, quale ragione di vicinanza, di sfruttamento, di connessione territoriale, di solidarietà di cultura, di industria, di amministrazione si può invocare?

Stessa osservazione per la parte peninsulare. Si concepisce che il bacino del Po e dei suoi affluenti, il più considerevole e ricco di tutti, formi un solo raggruppamento politico. Ma che cosa ha in comune questo bacino con quello del Tevere che taglia obliquamente la penisola nel mezzo; con tutta la parte sud-orientale, dalle Paludi Pontine fino a Reggio e a Taranto? Tutta questa penisola, a partire dal grande bacino del Po, che si chiamava un tempo Gallia Cisalpina, e che non era neppure considerata come facente parte dell’Italia, forma una specie di budello, diviso del senso della lunghezza dalla catena degli Appennini, dalle cime dei quali partono, a sinistra e a destra, come gradini, una serie di valli indipendenti che finiscono tutte al mare.

Qui l'unità è cosa fittizia, arbitraria, pura invenzione della politica, combinazione monarchica o dittatoriale che non ha niente in comune con la libertà. Prima di questi ultimi anni, la critica dei liberali, ostili alla Casa di Napoli, faceva notare che i Siciliani non hanno mai potuto soffrire i Napoletani: perché ora si vuole che sopportino i Piemontesi?

L'uzzolo di questa unificazione risalta ancor più quando si pensa alla capitale che si tratta di dare alla nuova Italia, Roma.

Non c'è bisogno di lunghe ricerche di storia, politica, economia politica per scoprire la ragione che ha determinato la formazione delle più celebri capitali, Ninive, Babilonia, Menfi o il Cairo, Parigi, Londra, Vienna, Mosca, Lisbona, Pavia o Milano. Basta gettare lo sguardo sulla carta geografica. La stessa Roma, parlo della antica Roma, situata sul basso Tevere, che controllava tutta questa importante vallata, ebbe, come capitale della repubblica latina, la sua ragione d'esistere. Ma da quanto ebbe conquistato il mondo, Roma comincio a decadere: i suoi trionfi, i suoi giochi, i suoi monumenti, il suo senato, non servirono a nulla. Il governo, costretto a seguire l'imperatore, ebbe la sua sede dappertutto, ad Alessandria, a Nicomedia, a Costantinopoli, a Treviri, a Parigi, a Ravenna; il titolo di capitale non fu per Roma che un titolo onorifico. I secoli e le rivoluzioni non hanno affatto cambiato la sua posizione. Che cosa è Roma oggi? Un museo, una chiesa, niente di più. Come centro d'affari, di commercio, di industria, come punto strategico, come influenza di popolazione, niente. Roma vive sullo straniero, cioè, come diceva l'economista Blanqui, delle elemosine della cristianità. Toglietele i suoi preti, è la città più triste, più nulla d'Italia e del globo, una necropoli.

Capisco. Si vuole giustamente, per l'Italia unitaria, Roma col suo prestigio pontificale; si vuole il Papato, ma accomodato alla maniera costituzionale. L'Italia, checché se ne dica, è sempre papale; i sarcasmi di Garibaldi e di Mazzini contro il sacerdozio non eliminano questo fatto. Si vuole, subordinando il Papa al nuovo ordine di cose, ridare all'Italia la supremazia del mondo cattolico, soppiantare la Francia e l'Austria, ormai semplici satelliti del grande pianeta romano e cristiano. Roma e l'Unità; poi subito Venezia, il Ticino, la Corsica, Nizza, l'Illiria: per consumare questa grande restaurazione, basterebbe cambiare una sola parola, chiamare Vittorio Emanuele, invece che re, imperatore. Così l'Italia, più che mai pontificale e imperiale, sarà al culmine dei suoi sogni; avrà ripreso, come dice Mazzini, l'apostolato dell'Europa, e Garibaldi manterrà la promessa fatta ai democratici francesi suoi amici, di liberare la Francia della tirannia e di rigenerarla!.

Ce ne sono abbastanza di follie? E che! Voi credete al risveglio di un popolo che per tutta politica non sa che ruminare la sua storia passata, che non capisce niente del secolo presente, che non ha più nemmeno l'istinto che la sua posizione geografica gli dovrebbe suggerire; che non chiede l'espropriazione del Santo Padre che per rifare dell'Italia tutta intera uno Stato semi-imperiale e semi-pontificio; che è rimasto alle dispute tra guelfi e ghibellini: che, alla vigilia della battaglia dell'Aspromonte, credeva ad una commedia recitata tra Vittorio Emanuele e Garibaldi, dimenticando che la regalità è gelosa e che Garibaldi, ripetendo la parte di Wallenstein, finirebbe come Wallenstein? E che! avete visto all'ultima levata di scudi organizzata dal generale, deputati, magistrati, ufficiali, pubblici funzionari, studenti, borghesi, operai, a Genova, a Milano, a Firenze, a Napoli, a Palermo, pronti a abbandonare la bandiera di Vittorio Emanuele come avevano abbandonato quelle dei loro duchi e di Francesco II, e voi credete alla consistenza di questo popolo, alla sua nazionalità!... Voi credete all'intelligente civismo dei pugnali siciliani, dei coltelli di Trastevere, delle bombe orsiniane, delle baionette garibaldine!

Ebbene, io ve lo ripeto: quello che vuole l'Italia, quello che chiede e che avrà, è la mano di ferro che la frusta, sia questa mano quella di un Asburgo, di un Bonaparte, di un Principe di Savoia o di un Garibaldi. Il suo destino, cercato fuori della rivoluzione è segnato; una combinazione di pretoriani, imprenditori e preti; fuori di qui, l'Italia ricade a pezzi nelle mani dello straniero. Le razze persistono, ma le nazionalità non rivivono: io non credo alla resurrezione dell'Italia più di quanto vi credesse la buon'anima di Metternich, più di quanto credo alla resurrezione dell'Ungheria e della Polonia.


 

Tratto da "Garibaldi et l'Unité italienne"

Office de Publicité  - 7 settembre 1862.