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La politica ritrovata

di Alain de Benoist - 10/12/2006

 

La politica è un dato fondamentale dell’esistenza umana, un elemento costitutivo di ogni

società – il che vuol dire che non può esistere una vera umanità al di fuori di essa. La

politica esiste, inevitabilmente, in primo luogo perché l’uomo è un essere sociale e storico

dalle aspirazioni contraddittorie, in secondo luogo perché il cammino delle società non è

stabilito in anticipo, ma anzi è sempre indeterminato. Essa emerge pienamente, come

categoria autonoma, nel momento in cui all’interno di una determinata società i sistemi di

parentela diventano insufficienti a regolare i conflitti e a determinare gli obiettivi comuni.

Ed è nel contempo una prassi e un ambito.

In quanto prassi, la si può definire l’arte della decisione in vista del bene comune. È

un’arte, in effetti, e non una scienza, giacché implica la pluralità delle scelte e i suoi

obiettivi dipendono da situazioni concrete che cambiano di continuo. È un’arte che esige

prudenza nella determinazione dei mezzi e degli scopi, perché la politica può creare solo

equilibri provvisori. Esige altresì decisione, perché la deliberazione non basta, da sola, a

suscitare l’azione. Ogni spazio comune implica inoltre la pluralità degli agenti, delle loro

aspirazioni o dei loro punti di vista (il “politeismo dei valori”), e dunque la necessità di

un’istanza in grado di operare una scelta fra quelle aspirazioni e quei punti di vista.

Quanto al bene comune, che ovviamente non è la somma dei beni o degli interessi

particolari, può essere concepito come quel che manca a ciascun individuo preso

separatamente.

In quanto ambito, la politica designa la dimensione pubblica del sociale e ha quindi per

presupposto la distinzione tra pubblico e privato. (La sottomissione del pubblico al privato

è il segno distintivo dei regimi liberali, la confisca del privato da parte del pubblico è

quello dei regimi totalitari). Per contrasto con il privato, che corrisponde alla sfera

(familiare, domestica, economica) della necessità, rappresenta la sfera della libertà. È un

vettore privilegiato di accesso ed uso della libertà, un vettore di realizzazione della propria

eccellenza.

Il campo politico è uno spazio di reciprocità, in cui gli uomini non si incontrano come

persone private ma appaiono l’uno all’altro come cittadini per agire e decidere in comune.

Il politico trae il suo ruolo fondatore dal fatto che organizza le comunità umane facendole

stare insieme. Istituzionalizza il legame sociale, fonda la coappartenenza, il voler vivere

insieme (la philia). È il luogo di un faccia a faccia nel quale si regolano le questioni comuni.

Alla società il politico “non detta la sua maniera di essere, la fa essere”, ha scritto Marcel

Gauchet. Già Althusius definiva assai giustamente la politica “arte di associare”

(consociandi). Modalità di esistenza collettiva ed insieme forma specifica dell’azione, la

politica, fondandosi su un luogo comune, diventa essa stessa il luogo del comune.

La politica non si riduce quindi all’organizzazione dei poteri o alla capacità di “designare il

nemico”, e meno che mai a un semplice sistema di obbedienza e di comando. La politica

non è la dimensione statale. L’errore del potere statale consiste nel credere di essere la

società, nella misura in cui la rappresenta. Le cose non stanno così. Non è il potere a

determinare le forme sociali e i valori culturali; al contrario, è la codificazione dei valori

culturali e delle forme sociali a determinare i sistemi di potere. La negazione della

condizione ontologica di pluralità comporta una valorizzazione illimitata dell’unità, che fa

violenza al sociale e finisce per trasformarsi in appello alla tirannide. Questo è lo sfondo di

tutti gli schemi ereditati dall’assolutismo romano.

In Europa, la politica fa la sua comparsa in Grecia contemporaneamente alla democrazia.

Per meglio dire: appare in quanto democrazia. Non è un caso. Se si ammette che la

partecipazione alla vita pubblica è il miglior mezzo per l’uomo per realizzarsi ed esercitare

la propria libertà, come afferma un’intera tradizione che va da Aristotele a Hannah Arendt,

bisogna anche riconoscere che la democrazia non è “il meno cattivo dei sistemi politici”,

come dicono sdegnosamente coloro che vi vedono solo un male minore, ma il migliore – e

forse l’unico che possa essere considerato veramente politico, nella misura in cui è anche

il solo il cui principio si fonda sulla partecipazione del maggior numero di persone alle

vicende pubbliche. Per la sua essenza, la democrazia è dunque prima di tutto

partecipativa e non rappresentativa. La democrazia partecipativa è una delle forme della

reciprocità generalizzata. È per la politica ciò che il dono cerimoniale è per la sociologia:

una modalità di riconoscimento reciproco all’interno di una data comunità. Entro tale

comunità, essa realizza lo scopo che l’antico diritto delle genti realizzava in relazione alla

guerra: limitare l’ostilità. Consente di regolare pacificamente i conflitti, di prendere una

decisione scegliendo tra le parti in causa senza criminalizzarle né annientarle. Viceversa,

ogni forma di dispotismo, nella misura in cui si riduce a un semplice gioco di potere,

tradisce lo spirito del politico, giacché si basa su una confisca.

Non stiamo assistendo oggi alla fine del politico, ma alla fine di una forma politica

caratteristica di una modernità a sua volta in via di compimento. All’esaurimento di un

modello di autorità sovraordinata, in cui la decisione era concentrata nelle mani del potere

collocato in alto. Al fallimento di una democrazia che attraverso il parlamentarismo

liberale è diventata esclusivamente rappresentativa, e che non rappresenta più niente. Al

fallimento di élites autoproclamatesi tali che, come l’esperienza storica ha ripetutamente

dimostrato, non erano né più capaci né meno fallibili delle masse che pretendevano di

illuminare.

Paul Valéry diceva acutamente che la politica risiede nell’arte di impedire alla gente di

aver parte nelle questioni che la riguardano. Il primo soggetto della democrazia, non

bisogna mai smettere di ricordarlo, è il popolo. Il punto di partenza della politica

democratica è il potere costituente del popolo. La sovranità democratica non è la

sovranità nazionale, ma la sovranità popolare. La politica è oggi chiamata a rinascere

partendo dalla base. Ciò implica la necessità di superare la dicotomia artificiale tra lo

Stato e la “società civile” per ricostituire, in tutta la sua ricca diversità, la dimensione

politica del sociale. La politica che parte dalla base implica la sovranità condivisa, il

principio di sussidiarietà, il rispetto dei corpi intermedi e delle libertà fondamentali, la

costituzione a ciascun livello di un equilibrio fra deliberazione e decisione. Bisogna avere

presente in mente il modello greco anziché quello romano. E sostituire all’immagine della

piramide quella del labirinto.