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Se il filosofo ti ascolta

di Pier Aldo Rovati - 15/12/2006



Non si tratta di una cura con i modelli tradizionali
è implicita la critica a un eccesso di tecnicismo
I nuovi Socrati non si ritengono dei terapeuti ma piuttosto "aiutano a pensare" chi si rivolge a loro
Un ricorso non accolto dell'Ordine degli psicologi rilancia la discussione sul senso del "counseling filosofico"

Non c´è dubbio che la filosofia stia attraversando in Italia un momento abbastanza magico. Il fenomeno è singolare. Non riguarda tanto la qualità e l´originalità delle ricerche specialistiche, è piuttosto un aumento dell´interesse generale verso la filosofia stessa (come attestano le piazze affollate dei proliferanti festival e le mille iniziative che si contano nel solco delle cosiddette pratiche filosofiche).
Il fenomeno covava da anni, adesso però esplode in maniera quasi contagiosa e si accompagna alla nascita, un po´ dovunque, di un oggetto alquanto misterioso (la «consulenza filosofica») sul quale convergono - pare - molti desideri. Questa «pratica» è neonata, nel senso che non si regge ancora sulle sue gambe, ma è già avvolta in una nuvola densa di discorsi che si depositano in saggi, libri, dibattiti e relative polemiche, e che sono decisamente sproporzionati rispetto all´entità effettiva della cosa.
Il fenomeno complessivo del boom della filosofia si presta a molte interpretazioni, nonché equivoci, ma è un fatto davanti ai nostri occhi. E´ ingenuo credere che si tratti di una montatura artificiale ai fini particolari del relativo mercato. Vi si manifesta un´esigenza diffusa, certo tutta da analizzare, anche se già vi si legge con buona evidenza il bisogno di affidarsi a qualche fonte, se non proprio di verità, almeno capace di tenere assieme i segmenti sparsi e spesso confusi di ciò che oggi passa nella testa della gente.
Il fenomeno più ristretto della consulenza filosofica nascente si presta a considerazioni più puntuali. Qui, in vari modi, e per adesso più nell´ambito di ciò che si immagina che in quello di ciò che accade, si gira attorno alla parola «terapia», come se stesse diventando disponibile una specie di cura al deficit di senso che tutti lamentano: una cura che ci permetterebbe di evitare lo psicologo, lo psicoterapeuta, lo psicoanalista, e - chissà - perfino lo psichiatra. Come se - in termini ancora più espliciti - andare dal filosofo (quando e se ciò fosse possibile) ci esimesse da una qualche medicalizzazione, targata psi, del nostro disagio.
Se è questo il cuore della questione, occorre aprire un dibattito serio, non di parte, che cerchi di vedervi le diverse dimensioni. Il piccolo mondo della consulenza filosofica prende le distanze: noi - dicono - andiamo per la nostra strada, non vogliamo curare nessuno, vogliamo solo «aiutare a pensare» con gli strumenti della filosofia chi ne avesse voglia. E dunque, poiché non siamo terapeuti, non invadiamo in alcun modo il campo della psicologia, né abbiamo alcuna intenzione di farlo.
Il grande mondo variegato e complesso della potente psicologia se ne sta per parte sua abbastanza silenzioso. Un episodio, come quello appena conclusosi al tribunale di Trieste con l´assoluzione di un consulente filosofico denunciato dall´Ordine degli psicologi per abuso della professione, non increspa la superficie tranquilla della numerosa comunità. Il giudice ha sentenziato: «Il fatto non sussiste». Ma secondo me non basta un malaccorto e pur sintomatico autogol per cambiare la partita.
E´ infatti risibile prevedere che un esercito di nuovi socrati sloggi gli psicologi dal loro consolidato ruolo sociale, in una società - appunto - che ha integrato nel suo sistema la cura della psiche attraverso un dispositivo di consulenza capillarmente diffuso e in via di ulteriore espansione.
Umberto Galimberti ne ha parlato ampiamente, su questo giornale, nella sua duplice veste di filosofo e di analista, e credo converrà con me che non ci troviamo per nulla in una situazione di congedo dalla psicologia (uso questo termine per denotare l´intero universo psi) e che i consulenti filosofici, con il loro equipaggiamento tecnico così evanescente, non sono certo in grado di rappresentare - anche se lo volessero - una qualche reale concorrenza alla psicologia. Eppure, qualcosa sta accadendo, al di là delle buone intenzioni e delle ragionevoli dichiarazioni che provengono dal piccolo o piccolissimo mondo dei consulenti filosofici.
La filosofia riceve nuovo credito, il che solleva subito tante domande: quale filosofia? Che tipo di filosofi? Per la loro capacità etica? Perché possono chiarificare i nostri pensieri confusi? Ma, se la filosofia riscuote favore, perché comunque sembra in grado di aiutarci, è difficile non vedervi un segnale almeno di perplessità nei confronti dei trattamenti psicologici. La richiesta di aiuto è di per sé un problema.
Cosa dobbiamo infatti pensare di una società, come la nostra, che intensifica la richiesta di un «aiuto» di questo genere? Qualcuno l´ha chiamata «cultura terapeutica» e a me pare una definizione azzeccata. Quello che viene messo in dubbio è se la psicologia possa fornire una risposta davvero convincente.
In un saggio che ho appena pubblicato (La filosofia può curare?, Raffaello Cortina) ho risposto alla domanda contenuta nel titolo che la filosofia può innanzitutto curare se stessa, svestendosi del proprio accademismo e riscoprendo la sua vocazione di esercizio e di pratica pubblica. E´ plausibile una trasformazione dell´insegnamento della filosofia grazie a un bagno di anti-intellettualismo e vedo nella consulenza filosofica, pur con tutte le sue ingenuità, la possibilità di funzionare da pungolo in questo processo.
Mi auguro anche che il topolino testé partorito possa pungolare il gigante della psicologia. Gli psicologi, che per ora osservano curiosi e magari con un sorriso di sussiego quel che sta accadendo, non hanno proprio nulla da temere da quel topolino, ma forse dovrebbero sentir suonare un campanello in casa propria. E chiedersi da dove si origini la perplessità della gente verso le loro pratiche, pur così calzanti alla società di oggi.
E se proprio la filosofia potesse fornire agli psicologi un´occasione autocritica, mettendoli di fronte all´eccessivo tecnicismo delle loro discipline e pratiche? E´ una vecchia questione. Oggi però i termini risultano un po´ diversi, se non altro perché i dispositivi della psicologia sono diventati molto più strutturati e potenti, e la cultura psicologica si è rinforzata e consolidata con criteri «obiettivi» e metodi sperimentali. Non che la psiche sia diventata un oggetto docile e del tutto disponibile. E´ il rapporto tra lo psicologo e il suo oggetto che si è stabilizzato e forse calcificato in un modello di tipo medico-scientifico.
In genere la psicoanalisi ha rappresentato il ventre molle di questo corpo disciplinare, e infatti dalla porta della psicoanalisi sono spesso entrate ventate di rinnovamento filosofico. Ricordo anche che una parte della psichiatria, nel suo dissenso istituzionale, ha dato negli anni Sessanta e Settanta (l´Italia resta un esempio mondiale con le esperienze di Gorizia e di Trieste e la lotta contro i manicomi) una decisa spallata a questo modello e ancora adesso ne costituisce un´antitesi.
E´ davvero un modello vincente? Credo che si stia avvicinando il momento in cui i settori più avvertiti della psicologia debbano porsi davvero questo interrogativo. Non c´è dubbio che nel modello che ho chiamato medico-scientifico, e che oggi è dominante in tutta la cultura psicologica di lingua inglese, ci siano presupposti di pensiero stabilizzati che corrispondono spesso a una sorta di «metafisica ingenua». Una nuova alleanza con la filosofia servirebbe agli psicologi per cominciare a ridiscutere le proprie assunzioni di pensiero, e dunque per riaprire l´orizzonte critico della disciplina mettendo di nuovo al centro la questione del soggetto.
Faccio solo un esempio. Le facoltà di Psicologia, luogo della formazione e laboratorio dei criteri, potrebbero introdurre nei loro piani di studio insegnamenti di filosofia in modo più organico, cioè non solo episodico e complementare come accade adesso. So di non parlare nel deserto poiché questa sensibilità già esiste. E allora c´è da sperare che il fenomeno di cui sto parlando produca qualche effetto virtuoso in questa direzione.
Certo si ritorna al nodo: quale filosofia? Un insegnamento anodino costituito da pacchetti di nozioni lascerebbe le cose come sono. Ci vuole una filosofia critica, rivolta più alla «cura di sé e degli altri» (come direbbe Foucault) e dunque più all´esercizio della soggettività che non alla sistemazione delle conoscenze.