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Miseria umana della pubblicità (recensione)

di Gruppo Marcuse - 19/12/2006

Fonte: tecalibri

Copertina
Autore Marcuse
Titolo Miseria umana della pubblicità
Edizione Eleuthera, Milano, 2006 , pag. 144, cop.fle., dim. 111x181x9 mm , Isbn 88-89490-15-2
Originale De la misère humaine en milieu publicitaire
Edizione La Découverte, Paris, 2004
Traduttore Azzurra Lugari
Lettore Riccardo Terzi, 2006
Classe sociologia , politica , comunicazione , marketing , pubblicita'
 






 

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Indice

  PREFAZIONE ALL'EDIZIONE ITALIANA                    7      INTRODUZIONE                                       11    Il recupero moralistico delle azioni antipubblicità  Dagli eccessi della pubblicità alle sue fondamenta  La pretesa neutralità della pubblicità  Il sistema pubblicitario nella società industriale    UNO                                                22  Tra falsa apparenza e metafore rivelatrici    La pubblicità: una nuova arte, una nuova cultura?  Informazione o formattazione?  Comunicazione o assillo?  Metodi sofisticati di persuasione sociale  Dalla caccia ai clienti al warketing    DUE                                                34  Il cancro pubblicitario    L'inquinamento degli inquinamenti  Ascesa, rilancio e proliferazione  Luminose prospettive future    TRE                                                47  E il capitalismo creò la pubblicità    La logica capitalista di accumulazione senza fine  L'imperativo della crescita  Capitalismo e «socialismo», due varianti  dell'ideologia produttivista    QUATTRO                                            58  Il consumismo generalizzato    La necessità economica di controllare il mercato  Il consumismo, un progetto politico di controllo  sociale  Il consumo come logica sociale di distinzione  Stimolare le voglie per suscitare nuovi bisogni  Gli stratagemmi del sistema industriale e  pubblicitario  Condizioni di vita opprimenti    CINQUE                                             78  La propaganda industriale    Pubblicità e propaganda  Un contesto accecante  Mitologia pubblicitaria e idolatria delle marche  Potere pubblicitario e tendenza totalitaria    SEI                                                96  Le relazioni pericolose    L'indipendenza illusoria dei media  La comunicazione all'assalto della democrazia  La creazione industriale di nuove malattie    SETTE                                             115  Il nostro stile di vita sta uccidendo il mondo    La devastazione del mondo  L'ideologia economicista della crescita  Critica delle illusioni consumiste  Il nostro modo di vivere è negoziabile?    CONCLUSIONI                                       133       

 

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Pagina 7

Prefazione
all'edizione italiana



Un sabato mattina, nel bel mezzo del mese di ottobre del 2003, i passeggeri e i pendolari della metropolitana parigina scoprono con sorpresa che gran parte delle stazioni della capitale sono state «devastate» dagli antipub (gli attivisti antipubblicità). Le centinaia di manifesti che tappezzano i muri delle banchine sono stati sbarrati da gigantesche croci nere e ricoperti di slogan ostili al bombardamento pubblicitario e al consumismo, o più semplicemente sono stati strappati.

I «vandali» hanno risposto a un appello lanciato da un nucleo di precari dello spettacolo nel corso di assemblee e dimostrazioni, e messo online su Internet. Questa prima azione segna l'inizio di un'ondata di manifestazioni e di azioni concrete contro la pubblicità che hanno luogo a Parigi e in alcune città di provincia (Grenoble e Toulouse soprattutto), generalmente nei trasporti pubblici e per le strade. Tre settimane dopo, precisamente un venerdì alle ore 19, quasi mille persone entrano nella metropolitana di Parigi per prendersela con i cartelloni pubblicitari.

Di fronte al successo di tale contestazione, evidentemente inatteso, la RATP (l'azienda che gestisce i trasporti pubblici parigini) e la sua concessionaria per la pubblicità Métrobus (che vende gli spazi sui trasporti pubblici agli inserzionisti) si vedono costretti, insieme alle forze dell'ordine, a dare il via alla repressione. Diverse azioni giudiziarie vengono intraprese contro il sito Stopub, che dà appuntamento in vari punti della capitale coordinando i percorsi dei diversi gruppi costituitisi. Il server Ouvaton, che ospita il sito Stopub, è costretto a svelare l'identità dei suoi creatori e a chiudere bottega. Infine, durante l'azione del 28 novembre, le truppe dei crociati antipubblicitari sono preventivamente accerchiate e neutralizzate, e centinaia di persone vengono condotte nei vari commissariati parigini.

La repressione ha un effetto positivo: spinge infatti gli attivisti a riorganizzarsi in piccoli gruppi autonomi e clandestini che agiscono per proprio conto e senza appoggiarsi a Internet, per non informare la polizia delle proprie manovre. Cominciano a moltiplicarsi e a circolare tra i vari gruppi le chiavi del personale della RATP, cosa che permette di manomettere i cartelloni pubblicitari che si trovano all'interno dei convogli della metropolitana (dove i manifesti sono protetti da quadri metallici) e non più soltanto sulle banchine. Più in generale, tali gruppetti imparano a sabotare ogni tipo di supporto pubblicitario, e in particolare i dispositivi luminosi che costellano lo spazio pubblico.

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Pagina 11

Introduzione



«La nostra reputazione è cattiva», dichiarava un pubblicitario negli anni Sessanta, «ma fortunatamente non ci conoscono abbastanza, altrimenti sarebbe esecrabile».

Da allora non è cambiato niente. La maggior parte della gente, al giorno d'oggi, non sa quasi nulla di questa attività con la quale tutti ci confrontiamo ogni giorno, soprattutto in quello spazio pubblico che essa ha trasformato in un immenso catalogo pubblicitario.

Tale ignoranza si spiega facilmente. I media si guardano bene dal farci penetrare nei meandri di un settore che li finanzia ampiamente. Perché i giornalisti rivelassero come uno «scoop» all'opinione pubblica l'onnipresenza della pubblicità, e l'ostilità che essa suscita in buona parte della popolazione, c'è voluta, nell'autunno 2003, una serie di azioni mirate a coprire, stravolgere o strappare alcuni cartelloni pubblicitari.

«Non si sputa nel piatto in cui si mangia»: non sorprenderà dunque che ciò che è stato detto dai media sul sistema pubblicitario e sui suoi oppositori abbia ricalcato alla perfezione il silenzio precedente. Si cercheranno invano analisi sulla funzione sociale della pubblicità, sugli interessi che essa serve, sull'inarrestabile incremento dei suoi budget, ecc. In breve, non si capirà affatto cosa abbia potuto stimolare tali azioni. Al contrario, si troveranno lunghe chiacchiere sugli antipub, termine confuso destinato a suggerire il carattere non costruttivo e contraddittorio del movimento. E come si potrebbe sostenere il contrario, una volta raggruppati alla rinfusa anarchici, femministe, ecologisti, anticapitalisti, ecc., tralasciando accuratamente l'analisi sulle ragioni della loro convergenza?


Il recupero moralistico delle azioni antipubblicità

Per non rimettere in discussione la legittimità della pubblicità in generale, è indice di buona creanza mischiare un po' le carte profondendosi in considerazioni di morale spicciola su un tema politicamente corretto: lo sfruttamento abusivo del corpo femminile. E si può anche evocare l'influenza nefasta sui bambini, lasciando intendere che la pubblicità sarebbe un problema soltanto nei riguardi di «questi piccoli esseri fragili», dei quali allora si prendono le difese. È ciò che fanno i nostri «intellettuali» mediatici quando entrano nel «dibattito».

Si è così sentito un filosoft sottolineare come la pubblicità sia, se non «immorale», quanto meno «amorale», con il rischio talvolta di scivolare addirittura nell'«oscenità». Un discorso moraleggiante di questo tipo è benaccetto, al punto che lo si ritrova sul sito della BVP (Bureau de vérification de la publicité, Ufficio di verifica della pubblicità, un'associazione privata di professionisti impegnati a fare «una pubblicità responsabile» e a praticare «l'autodisciplina»). Esso è doppiamente utile perché può al contempo rassicurare i benpensanti, mostrando loro che ci si preoccupa dei «limiti etici», e suggerire ai potenziali simpatizzanti antipubblicitari che le azioni antipub possono evocare uno spettro inquietante, quello di un «ritorno all'ordine morale»...

Un acuto filosofastro entra a questo punto in scena al fine di avallare una tale assurdità e spiega che il vero movente di quelle azioni è l'«odio della felicità». «In guerra contro le immagini e i corpi», gli antipub sarebbero animati dalle stesse «morbose» pulsioni dei «partigiani del velo islamico». Il messaggio è chiaro: la vita senza pubblicità sarebbe così triste che meriterebbe appena di essere vissuta. E chi non è contento può andarsene in esilio fra i talebani. La pubblicità o il velo: bisogna scegliere.

Le coordinate del «dibattito» sono ormai fissate: i «tristi moralisti» contro la pubblicità e gli «edonisti liberali» per la pubblicità. La situazione è chiara: il dibattito sarà morale o non sarà. Quindi non ci sarà, poiché le sollecitazioni politiche che hanno presieduto alle azioni antipubblicità sono passate sotto silenzio, mentre si farà di tutto perché il dibattito non si concentri sul sistema pubblicitario in quanto tale, ma soltanto sui suoi «eccessi».

Da questo punto di vista sono istruttivi gli scambi d'opinione tra pubblicitari sulle pagine del loro settimanale «Stratégies». All'inizio di dicembre un tal Frank Tapiro grida al «lupo» e denuncia l'«utopismo» di chi osa mettere in discussione la società dei consumi. E approfitta di questo argomento per mettersi al sicuro. Non bisogna sentirsi troppo presi di mira, perché quello che le azioni antipubblicità «attaccano davvero non è la pubblicità» (!), bensì un modello di società fondato sulla crescita mercantile. Ma questa verità è già troppo imbarazzante, perché mette in causa radicalmente il sistema pubblicitario e non solo i suoi abusi. Così, alcuni cercheranno di limitare la portata delle azioni antipubblicità intonando un rassicurante mea culpa. «Sbalorditi dall'arroganza» di Tapiro, addirittura si felicitano di questa salutare contestazione: «Possano i movimenti antipub... aiutarci a rimetterci in discussione»! È un principio classico della professione quello di non prendere i consumatori per idioti, ma soprattutto non dimenticare mai che lo sono.

Taluni non dissimulano però opinioni che rivelano il loro profondo disprezzo per il pubblico. Si risponde dunque a Tapiro che le «azioni antipub» non sono poi così radicali come pensa. Esse sarebbero solo «l'espressione di un 'averne fin sopra i capelli' dell'inquinamento visuale e sonoro», e non bisognerebbe vederci nessuna utopia, «in ogni caso non più dell'idea che si possa continuare a trattare indefinitamente i consumatori come pecoroni». Ecco l'utopia pubblicitaria, espressa da coloro che fingono di rimettersi in gioco: diventare i pastori di un gregge di consumatori, portare questi «pecoroni» verso i grassi pascoli delle multinazionali.

Ma questa volta i «pecoroni» non intendono lasciarsi togliere la parola dagli impostori che riducono il problema a una questione moralistica sugli «eccessi», con l'intenzione di occultare le motivazioni, consensuali, invocate dal collettivo Stopub nel suo «Appello a violare gli spazi pubblicitari»: denunciare pubblicamente il movimento neoliberista, impegnato a «smembrare sistematicamente i nostri beni comuni», e il «carburante di questa mercantilizzazione: la pubblicità». È appunto questa la ragione per la quale tutti i cartelloni sono stati imbrattati con vernice nera. Tutto ciò non ha impedito ai nostri «intellettuali» di concentrarsi unicamente sulle immagini indecenti, aspetto che, senza essere falso, permette comunque di eliminare il problema di fondo.


Dagli eccessi della pubblicità alle sue fondamenta

Se la riduzione del dibattito alla questione moralistica sugli sbandamenti dei creativi che «abusano» dell'immagine della donna-oggetto sembra reggere, questo accade perché riecheggia l'opinione comune. Spesso ci si rifiuta di riflettere sulla pubblicità in generale. Ci si accontenta di giudicare alcune campagne in particolare, cadendo inevitabilmente in una casistica che oppone la «buona pubblicità, accettabile» alla «cattiva pubblicità, ingannevole». E si troverà sempre una pubblicità «non così brutta», «non così menzognera», «non così sessista».

Questo discorso consensuale si basa su un postulato inziale. Focalizzandosi sugli «eccessi immorali», si ammette implicitamente che la pubblicità in quanto tale è al di là di ogni sospetto. Non è dunque necessario farne un'analisi di fondo per trovare scioccanti i suoi eccessi. Quello che dobbiamo fare è riflettere sui limiti etici che essa dovrebbe rispettare: riflessione che convalida il pregiudizio iniziale, cioè che la pubblicità «normalmente non eccede». È sufficiente conoscere a grandi linee la storia della pubblicità per constatare che essa ha sempre poggiato sull'abuso e sull'eccesso, sia per quanto riguarda il contenuto (scandalo, adescamento...), sia per quanto riguarda le modalità (aggressività, invasività...).

I pubblicitari lo sanno bene. Per catturare l'attenzione e incidere il messaggio nel cervello dei «potenziali clienti», è necessario sorprendere e martellare. Tutte le loro lobbies, dall'International Advertising Association (IAA) fino al BVP, passando per la European Alliance for Standards Advertising (la cui traduzione in francese è significativa: Alleanza europea per l'etica in pubblicità), patrocinano «l'autoregolamentazione etica», perché sanno che qualsiasi limite legale rigido sarebbe loro fatale. Come dice il presidente dell'IAA francese, la pubblicità è un «sistema a rendimento decrescente». Più annunci pubblicitari si fanno, meno forte è l'impatto di ciascun messaggio. Per mantenere l'efficacia, la pubblicità deve dunque trasgredire le regole e oltrepassare continuamente i limiti raggiunti (soltanto coloro che hanno l'impressione di rinascere ogni mattina in un mondo nuovo lo ignorano). Nel 1952 la «storia scioccante della pubblicità» era ormai stata scritta. E addirittura nel 1883, Zola già denunciava l'assalto dei grandi magazzini e la loro «definitiva invasione dei giornali, dei muri, delle orecchie del pubblico», attraverso il «gran baccano della messa in vendita».

Bisogna essere ciechi e vittime di amnesia per credere che gli «sbandamenti» attuali siano una novità e che siano solo degli «sbandamenti». Non si può separare la pubblicità dai suoi eccessi, semplicemente perché è grazie ai suoi eccessi che essa è efficace. E ogni «malfunzionamento abusivo» denunciato dai nostri moralisti, in realtà fa parte del suo normale funzionamento.

Se critichiamo la riduzione immediata del dibattito alla questione degli eccessi immorali non è dunque perché la consideriamo un problema accessorio, ma perché questo modo di porre il problema apre le porte a qualsiasi recupero. Mettendo in cortocircuito il problema delle fondamenta e dei principi della pubblicità, essa autorizza una critica inoffensiva di abusi che non sono tali, nonché la denuncia di motivazioni puritane che non hanno giocato alcun ruolo nelle azioni antipub. I pubblicitari, i media che ne dipendono, i piccoli pensatori che vi danno spettacolo di sé, sono così riusciti a disinnescare la contestazione. Cosa di cui «Libération» si felicita apertamente: «La contestazione non può far male, soprattutto se aiuta a rinnovare un genere».

I pubblicitari sono tanto avidi di discorsi etici perché non ne fanno spesso uso; come diceva il filosofo Cornelius Castoriadis, essi sono solamente uomini da «quattro soldi». Effettivamente, per mascherare le radici del problema non c'è niente di meglio che ridurlo a «derive etiche». I moralisti possono fare la paternale ai pubblicitari, e questi ultimi possono fare la loro autocritica e promettere un «autocontrollo» più rigido da parte di un'istituzione, la BVP, che giustamente si vanta di «verificare superficialmente»! Il sipario si chiude allora su un déjà vu, mentre gli attori si congratulano dietro le quinte e il pubblico rassicurato può tornare a casa a dormire.


La pretesa neutralità della pubblicità

Il semplice fatto che siano degli ex pubblicitari ad aver fondato le associazioni Adbuster e Casseurs de pub e a scrivere alcune tra le opere più virulente contro la pubblicità dovrebbe metterci la pulce nell'orecchio. È sorprendente invece che non ci siano stati altri pubblicitari a uscire dal sistema per denunciarlo. Quando si subiscono le tecniche commerciali senza conoscerne annessi e connessi, si può sostenere che non è poi così grave. Ma quando si è passati da scuole di marketing, come alcuni di noi, conservando malgrado tutto una certa sensibilità umana, si può soltanto essere nauseati dal recupero mediatico delle azioni contro la pubblicità. Perciò ci è sembrato necessario ricordare qualche verità elementare a chi ancora crede che la funzione della pubblicità sia quella di informare divertendo.

La pubblicità viene spesso presentata come un mezzo neutro, un semplice strumento che può promuovere qualsiasi tipo di merce (industriale o no), essere al servizio di qualunque istituzione (imprese private, amministrazioni pubbliche, partiti politici), inglobare qualsiasi valore. In realtà le cose si presentano sotto tutt'altra veste.

Chi ricorre concretamente alla pubblicità? Coloro che censurano e sorvegliano gli eccessi evidentemente non hanno bisogno di porsi questa domanda generale, a loro basta sapere chi ha fatto tale o talaltra pubblicità particolarmente scandalosa. E ciononostante il punto è questo: sono le grandi imprese industriali che fanno la pubblicità. In Francia (dati del 2000) «ventisette imprese rappresentano il 20% del mercato pubblicitario e meno di mille ne rappresentano l'80%». Se si paragonano queste cifre con i 2,4 milioni di imprese registrate in Francia, si vede che lo 0,001% delle imprese rappresenta il 20% del mercato pubblicitario e che lo 0,04% ne rappresenta l'80%.

La pubblicità è massicciamente al servizio di una manciata di marche egemoni, che se ne servono per soffocare qualsiasi concorrenza. È la grande distribuzione contro il piccolo commercio, i cartelli transnazionali contro i produttori locali. Se la pubblicità è formalmente aperta a tutti, essa è l'arma delle marche più potenti. Questo libro tratterà proprio del ricorso massiccio alla pubblicità, quindi non saranno solo i pubblicitari a essere presi di mira. Essi sono solamente i portabandiera del capitale e gli agenti, particolarmente nocivi, di una dinamica economica che nessuno controlla.

Quanto alla pretesa neutralità su prodotti e valori, questa svanisce non appena si esamina la realtà. Si tratta della massiccia promozione di merce industriale, e raramente di altre cose. Ed è appellandosi massicciamente ai valori dell'individualismo e del materialismo che la pubblicità tesse l'elogio dei suoi prodotti, mentre evoca solo marginalmente altri valori, oltretutto spesso per distorcerli. La pubblicità non può che vendere ciò che promuove, che si tratti di un prodotto o di una «grande causa». Il suo scopo non è quello di impegnarsi nell'azione, ma piuttosto quello di incitare a tirar fuori il portafogli, in generale giocando sul sentimento di colpa e sul desiderio di avere la coscienza a posto con la minor spesa possibile. Le eccezioni confermano la regola.


Il sistema pubblicitario nella società industriale

La pubblicità, arma del marketing, è l'arte di vendere qualsiasi cosa a chiunque e con qualsiasi mezzo. Per la precisione, è il marketing nella sua dimensione comunicazionale. Passando attraverso la scappatoia dei media, essa costituisce l'archetipo della «comunicazione». La critica alla pubblicità si estende quindi alla critica contro il marketing e contro la comunicazione: questi tre flagelli compongono insieme il sistema pubblicitario. Ma questo sistema è stato generato dal capitalismo industriale, che finanzia i media di massa di cui orienta il contenuto. Il problema perciò non si riduce all'abbrutimento pubblicitario, include anche la disinformazione mediatica e la devastazione industriale. Non bisogna illudersi: la pubblicità è solo la punta dell'iceberg del sistema pubblicitario, ovvero di quell'oceano glaciale nel quale si sviluppa ed espande la società consumista con la sua crescita devastante. E se siamo contro tale sistema e tale società, è perché il nostro stile di vita sta uccidendo il mondo.

Leffetto principale della pubblicità è la propagazione del consumismo. Basato sull'iperconsumo, questo stile di vita riposa sul produttivismo, e dunque implica lo sfruttamento crescente delle persone e delle risorse naturali. Tutto ciò che consumiamo comporta meno risorse e più scarti, più nocività e più lavoro depauperante. Il consumismo porta così alla devastazione del mondo, alla sua trasformazione in deserto materiale e spirituale: un ambiente dove sarà sempre più difficile vivere e sopravvivere in modo umano. In questo deserto prospera la miseria fisica e psichica, sociale e morale. Gli immaginari tendono ad atrofizzarsi, le relazioni sono disumanizzate, la solidarietà si decompone, le competenze personali diminuiscono, l'autonomia sparisce, i corpi e le menti vengono standardizzati.

La miseria umana della pubblicità è, dunque, sia questa vita impoverita che esalta una pubblicità onnipresente, sia la miseria degli ambienti pubblicitari stessi, che illustrano in modo caricaturale l'impoverimento morale di cui soffre la società mercantile. Per questo motivo citeremo abbondantemente i discorsi di vari pubblicitari. Il cinismo – di cui alcuni menano vanto – fa parte a tal punto del loro «folclore professionale» che, ad esempio, nessuno osa contestare la descrizione romanzesca che ne fa Frédéric Beigbeder. Secondo François Biehler, pubblicitario sempre in servizio, essa è «rigorosamente esatta». Come può giustificare la sua professione, allora? «La pubblicità serve anche a rilanciare i consumi». I pubblicitari stessi non negano che ciò implica una buona parte di manipolazione. E cosa significa manipolare qualcuno, se non fargli fare qualcosa che non avrebbe mai fatto spontaneamente, come rinnovare inutilmente merce futile e nociva?

Come diceva Machiavelli, il fine giustifica i mezzi. Biehler deve quindi ritenere tollerabile questa manipolazione, in quanto si compie in nome di un fine eminentemente consensuale: «Rilanciare i consumi e far funzionare l'economia, il che, a priori, non è condannabile». Ecco che si tocca l'assioma che viene sotteso nella schiacciante maggioranza dei discorsi sulla pubblicità: è bene, anzi necessario, stimolare la Crescita, questa Vacca Sacra invocata in coro da tutti i politici, questo Messia del quale si acclama il ritorno. Se si accetta il dogma fondante dell'economicismo, pregiudizio che quasi nessuno contesta malgrado i suoi effetti disastrosi sulle nostre vite, allora la pubblicità è effettivamente indispensabile, tanto che diventa difficile metterla in discussione. Se invece la volontà di produrre si giustifica con il fatto che ne dipende la sopravvivenza materiale, in società come le nostre, dove regnano spreco e sovrapproduzione, si tratta di un presupposto irragionevole, irresponsabile e pericoloso. Dobbiamo inziare a renderci conto che la crescita, divenuta fine a se stessa, invece di corrispondere ai nostri bisogni è prima di tutto crescita di nocività e di diseguaglianza.

La pubblicità è indissolubilmente legata alla devastazione del mondo, di cui è uno dei motori. Essa vi contribuisce doppiamente: spingendo l'iperconsumo di merce industriale, favorisce lo sviluppo di un'economia devastatrice; e dissimulandone le conseguenze, frena una presa di coscienza ogni giorno più urgente se si vuole evitare il peggio. Essa deve dunque essere oggetto di una critica radicale, cioè di un'analisi che risalga fino alle sue radici. Solo coloro che identificano saggezza e acquiescenza, spirito critico e consenso mediatico, possono accontentarsi della denuncia dei suoi eccessi più flagranti. Ma soltanto risalendo alle radici si potrà comprendere la ragione dei suoi abusi così ordinari, in particolare dell'estrema violenza che fa subire alle donne. Ma nessuno ne esce indenne, come mostrerà questo manifesto contro la pubblicità e contro «la vita che vi si rispecchia».